Libreria delle donne di Milano

Diogene, marzo-maggio 2006, anno 2, n. 3, pp. 32-35

Ma è poi vero che puoi essere ciò che vuoi?
Marco Deriu

Parlare di noi uomini con sincerità e senso critico assieme non è mai un'impresa facile. Non è facile parlare dell'universo maschile evitando il rischio di farne astrazione e di lasciar fuori noi stessi dalla riflessione. Non è facile mettere in gioco noi stessi e mantenere una certa lucidità critica e problematica.
Se vogliamo fare qualcosa di diverso dobbiamo anzitutto partire dal riconoscimento del legame tra la nostra storia personale e l'oggetto che pretendiamo di studiare e conoscere. La prima questione infatti, per chi si occupa di uomini, di maschile, è: perché studi proprio questo? Quale curiosità ci sta muovendo? Quali sono le domande che sottendono la tua ricerca? Spesso anche se non ci facciamo troppo caso sono domande personali, esistenziali, relazionali.

La condizione del maschio che studia la maschilità
Gregory Bateson ha scritto: "Quando il ricercatore comincia a sondare zone sconosciute dell'universo, l'altro capo della sonda è sempre immerso nelle sue parti vitali" (Bateson, 1997, p. 376). Per conoscere qualcosa, dobbiamo necessariamente confrontare noi stessi con ciò che ci sta di fronte e viceversa. Questo è ancora più vero per chi si occupa di studiare gli uomini o le relazioni tra uomini e donne. Per esempio se tentiamo di dire qualcosa sui maschi contemporanei o sulle passate generazioni di uomini ci troviamo più o meno consapevolmente a combinare l'osservazione di certe caratteristiche comportamentali ed espressive, con l'osservazione introspettiva del tipo di uomo che siamo noi stessi quando abbiamo a che fare con altre persone o con certe situazioni. E anche se crediamo di comparare solamente gli uomini di una volta con gli uomini di oggi in realtà stiamo anche comparando entrambi con noi stessi. Che ne siamo consapevoli o meno la struttura della nostra analisi ci comprende.

Il genere rimane una categoria interpretativa
Di cosa stiamo parlando quando dibattiamo del "genere" maschile anziché degli uomini? La categoria di "genere" è nata come uno strumento di analisi critica necessario per decostruire la presunta naturalità dell'identità maschile o dell'identità sessuale e per dar spazio alle sedimentazioni e alle scelte culturali. Tuttavia se si vuole decostruire le proprie categorie culturali è necessario avanzare qualche dubbio critico anche sulle proprie categorie decostruttive. Personalmente sospetto per esempio che la discussione sul genere sia ben lungi da offrire una chiave interpretativa profonda e radicale. Anzi i testi sul genere, per chi li ha frequentati in questi decenni, manifestano una notevole conformità strutturale e interpretativa. Si tratti di testi inglesi, australiani, statunitensi o italiani, si parte dall'identificazione di un "classico" bersaglio polemico, ovvero la presunta naturalità delle identità sessuali - maschili e femminili - per mostrare invece la storicità e la contingenza del "genere". Gli strumenti teorici sono oramai ben collaudati: la critica dell'essenzialismo, ovvero la negazione di caratteri sessuali innati; la distinzione tra il biologico e il sociale-culturale; un po' di costruttivismo, per ricordare che i modelli sessuali sono sedimentati culturalmente e appresi nello scambio sociale; una spolverata di critica sociale per mettere in luce una dinamica di conflitto tra modelli egemoni e modelli subalterni nelle identità sessuali; per concludere con la luminosa prospettiva di emancipazione dai modelli storici attraverso un'esaltazione della libertà individuale che approda ad una molteplicità di modelli o di opportunità.

Emancipazione maschile ed esigenze del mercato
Ho come l'impressione che questo schema interpretativo sia tutto sommato assai poco critico e che anzi riproduca abbastanza fedelmente lo schema emancipatorio tipico della cultura liberale occidentale moderna. Dopo l'emancipazione femminile, oggi gli uomini possono (devono!) anche loro liberarsi dal peso della tradizione che li costringeva in ruoli rigidi, stereotipati, violenti. Oggi il mercato richiede flessibilità, personalizzazione dei gusti, produzione just-in time. E in fondo una certa critica dei modelli troppo rigidi da "catena di montaggio" è perfino funzionale al mercato.
Basta buttare un occhio alle vetrine, alle pubblicità, alle trasmissioni televisive, al mondo della moda, per vedere che oggi apparentemente la diversità, la pluralità delle identità e dei gusti entra sempre più comodamente nei nuovi immaginari della comunicazione e del mercato. In Tv ora gli omosessuali sono proposti quali modelli di buon gusto (es. "I fantastici cinque"), i travestiti come modelli di anticonformismo e di irriverenza (es. Platinette), gli spot sulle reti commerciali o sulle riviste offrono incontri erotici per tutti i gusti.
È dubbio tuttavia che passi per di qua la strada per una liberazione profonda e per un ritrovamento di se stessi, al di fuori degli stereotipi e delle illusioni di un genere o di un altro.

Oltre la contrapposizione natura/cultura
Si tratta allora forse di riconoscere le permanenze più profonde sotto l'apparente discontinuità, e d'altra parte i possibili percorsi differenti in mezzo ad una continuità di fondo.
La prima contraddizione è che dietro la critica di genere si ripropone la contrapposizione natura/cultura, per affermare questa volta una superiorità della cultura. Eppure non ci abbandona la sensazione che più che spostare il peso sull'altro lato della bilancia si tratterebbe forse di navigare alla ricerca di paradigmi interpretativi più complessi, capaci di tenere insieme in un rapporto dinamico portati biologici e corporei e costruzioni culturali, mente e corpo, razionalità e istinto, senza sacrificare gli uni agli altri.
Se naturalizzare i modelli sessuali ha permesso di schiacciare la sessualità sulla biologia e sul corpo, rappresentando come ovvie e immutabili certe configurazioni identitarie del maschile e del femminile, dall'altra parte l'insistenza troppo pronunciata sul culturale rischia di ridurre il corpo a una tabula rasa senza storia e senza significato sulla quale si può intervenire plasmandolo in totale libertà a partire dai propri desideri.
Gli uomini di oggi sarebbero alla ricerca di nuove identità, di nuove performance, di nuove libertà non più condizionati dalla schiavitù dei modelli sessuali tradizionali. Ciascuno potrebbe dunque, se si libera dai modelli culturali costrittivi, interpretare liberamente il proprio corpo, il proprio sesso, il proprio genere, la propria sessualità. Non ci sarebbero più uomini e donne ma generi. Virtualmente ciascuno sarebbe libero di interpretare tutte le espressioni possibili del genere.

Libertà e moltiplicazione dei modelli
Ma la moltiplicazione dei generi corrisponde ad una liberazione o piuttosto a una proliferazione di modelli (micro)identitari? Se per esprimere se stessi si deve riprodurre nuove configurazioni riconoscibili, abitare modelli eccentrici, o passare da un modello all'altro non si finisce per dimostrare che ci si può esprimere solo attraverso modelli e le loro rappresentazioni? Non sarà che mentre pensiamo di liberarci dalle identità tradizionali ci scopriamo in realtà ancor più ossessionati dal bisogno di identità, di modelli, di categorie dentro alle quali rappresentarci e rispecchiarci? La moltiplicazione delle identità eccentriche costituisce un superamento o un'apoteosi del modello identitario?
Assieme a queste domande, cresce il sospetto che questa presunta aria di novità e libertà non costituisca poi questa gran rottura con il passato. Un'idea di libertà intesa come libertà di essere qualsiasi cosa infatti non è altro che l'idea di libertà che ci ha consegnato il mercato.

L'idea di accessibilità illimitata
L'idea di "accessibilità illimitata", come ha sostenuto Onofrio Romano, è al cuore stesso del progetto moderno, economicista e utilitarista. La promessa di libertà del progetto moderno appare molto lontana da una logica immediatamente repressiva; si basa al contrario sull'euforia continua del "puoi avere quello che vuoi", "puoi essere quello che vuoi". Viceversa per il moderno è immorale, ingiusto, intollerabile tutto ciò che appare anche lontanamente come una limitazione.
Poiché si nega fondamentalmente la propria limitatezza - la propria parzialità biologica, la propria contingenza esistenziale, la propria dipendenza relazionale - si crede di poter essere tutto e si finisce con l'essere nulla. L'eccesso di possibilità si traduce nell'impotenza o nell'inconsistenza. Tutto è relativo e discutibile, dunque esposto alla sovversione; tutto tranne "naturalmente" l'individuo sovrano: il soggetto razionale, o meglio l'ego individuale, che pretende di essere o divenire tutto ciò che vuole, di essere l'artefice della propria esistenza.
Dall'imperativo autoritario del "sii uomo" si passa così all'offerta seducente del "puoi essere quello che vuoi". L'imperativo della performance così fondante della mentalità maschile tuttavia non solo non decade ma anzi ne esce radicalizzato. Non devi più dimostrare di corrispondere al modello ma tuttavia, in questa apparente libertà, devi comunque "dimostrare" cosa sai fare, o meglio "chi puoi diventare". L'uomo moderno è l'individuo proprietario di se stesso impegnato nell'instancabile sforzo di essere imprenditore di sé.
Così, partiti con il giusto obbiettivo critico di negare il naturalismo dei sessi che nasconderebbe la costruzione sociale del genere, ci si scopre a naturalizzare l'individuo razionale e cosciente moderno che plasma il mondo e se stesso come gli aggrada e che controlla e progetta non solo la natura attorno a sé ma anche se stesso.

Teorica libertà e reale impotenza
Ma fin qui siamo solo alla rappresentazione. Perché nella realtà i risultati raramente corrispondono alle aspirazioni. Il sogno della possibilità illimitata si rovescia molto spesso nell'esperienza dell'impotenza. Se l'uomo tradizionale costretto a confrontarsi con modelli rigidi e preconfezionati si trovava a fare i conti con la nevrosi, il maschio contemporaneo che vive nell'universo del "tutto ti è possibile" si trova a fare i conti con l'impotenza e di conseguenza con la depressione. Come ha sottolineato Alain Ehrenberg la fatica depressiva ha preso il sopravvento sull'angoscia nevrotica: "La depressione disegna appunto, in quest'epoca delle possibilità illimitate, il confine dell'immanipolabile. Noi possiamo manipolare la nostra natura corporea o psichica, possiamo ridurre al minimo - e con il massimo dispiego di mezzi - il coefficiente dei nostri limiti, ma questa manipolazione non ce ne libererà" (Ehrenberg, 1999, p. 318).

Nuovo, rottura, continuità
All'uomo che crede di poter essere o divenire ciò che vuole, che crede di poter progettare a tavolino la propria identità, la propria corporeità, la propria sessualità; all'uomo che crede di poter decidere che amante, che padre, che amico, insomma che maschio sarà, si deve contrapporre il riconoscimento dei propri limiti, dei propri condizionamenti, delle proprie dipendenze, così come la consapevolezza dell'esistenza di dimensioni strutturali ed esistenziali che si possono certamente esplorare e trasformare ma che non si possono d'altra parte plasmare a proprio piacimento.
A questa consapevolezza se ne collega subito un'altra. I veri cambiamenti non nascono mai dalla semplice rottura con il passato, ma piuttosto da una relazione diversa con il passato. Noi siamo immersi in una cultura che propaganda il nuovo come possibilità di disfarsi del passato. Ma io credo che questo nuovo sia almeno in parte illusorio.
Il nuovo non nasce dal tentativo autistico di isolarsi dalla propria storia, dalle proprie radici, ma dal riconoscersi parte di una storia difficile e al contempo dal tentativo di acquisire signoria nella propria storia. Si è sempre "soggetti" della propria storia, e contemporaneamente "soggetti" alla propria storia. Non si può scegliere la propria storia. O meglio, occorre riconoscersi parte di una storia per dar corso a una storia diversa.
Insisto su questo punto perché tra gli uomini che si occupano di maschilità di critica dei modelli tradizionali c'è sempre il rischio di fare dell'illusionismo. Si pensa di poter cambiare perché si affronta criticamente la storia maschile e si pensa di prenderne le distanze. Ma fare i conti con l'intera storia maschile significa in realtà confrontarsi con qualcosa di molto grande che finisce per diventare un oggetto intellettuale.
C'è l'effettivo rischio in questo campo di occuparsi di questi temi per presentarsi come uomini diversi. Di criticare gli altri per non impegnarsi a rileggere se stessi. Molto ma molto più difficile e reale è invece fare i conti con il proprio universo maschile personale. Con gli uomini in carne ed ossa con i quali ci relazioniamo: le nostre famiglie, i nostri amici, i nostri colleghi di lavoro. Fare i conti con le proprie genealogie, con le proprie reti di relazioni è più faticoso, perché le relazioni con persone vicine e importanti non sono qualcosa d'altro da noi, che ci sta semplicemente di fronte, ma sono sempre qualcosa in parte di condiviso, di intrecciato, di invischiante.
Non si possono conoscere gli uomini isolandoli dalla rete di relazioni quotidiane da cui provengono e di cui si nutrono. Occorre proprio rivedere la trama da cui veniamo per riflettere sulla storia cui diamo vita. Questa mi sembra la sfida più importante per chi vuole impegnarsi sul terreno della ricerca di una maschilità diversa.

Il modello dell'uccisione del padre
Questo genere di consapevolezza mi ha portato in questi ultimi anni a riflettere per esempio sui rapporti tra diverse generazioni di uomini, sulla trasmissione di modelli o mentalità tra padri e figli. Se riflettiamo sui rapporti che abbiamo avuto con i nostri padri e più in generale con gli adulti che ci hanno cresciuto, scopriamo come sia più difficile di quanto non si pensi allontanarsi e differenziarsi dai modelli maschili appresi. Talvolta semplicemente li si riproduce inconsapevolmente. D'altra parte rimaniamo nell'orbita dei modelli tradizionali anche quando ci sforziamo di rappresentare modelli opposti o antagonisti. Il fantasma di quei modelli ci abita e ci condiziona anche se li disprezziamo.
In generale, nei cambiamenti che i maschi di oggi cercano di condurre prendendo le distanze dai modelli di ieri, la questione più importante a cui fare attenzione è la critica della visione individualistica e autoreferenziale nella quale si riconoscono la maggior parte degli uomini. Anche coloro che oggi pretendono di essere maschi diversi non devono dimenticare che non siamo esseri totalmente autoderminati, che possono decidere a tavolino gli uomini o i padri che saremo. Siamo piuttosto espressione di una complessa trama di relazioni e di costellazioni di relazioni che in gran parte non possiamo scegliere o determinare. Apparteniamo a queste reti di relazioni molto più di quanto siamo disposti ad ammettere.
Un luogo comune della psicoanalisi e della cultura moderna su cui bisognerebbe tornare da questo punto di vista, è l'idea che per divenire uomini si debba uccidere simbolicamente il proprio padre. Credo che si dovrebbe mettere in discussione questo schema. In fondo la rivolta contro il padre e la sua uccisione simbolica è ancora un plot interno all'immaginario patriarcale.
Un'alternativa a questo schema narrativo è - io credo - possibile. Si tratta di divenire sensibili a quella che Bateson chiamava "la trama che connette". Occorre diventare fini conoscitori del tessuto umano e relazionale da cui veniamo e nel quale siamo ancora in gran parte immersi. Conoscere le premesse ambientali, storiche, culturali, le dinamiche relazionali, i processi psicologici del nostro mondo umano. Apprendere la "grammatica" specifica delle relazioni di cui siamo espressione: i conflitti, i problemi, le paure, i desideri, le frustrazioni che abitano le nostre relazioni intime o primarie. Solamente aumentando la nostra sensibilità a questa trama complessa di umanità potremo lentamente sciogliere certi schemi ripetitivi, modificare certi dinamismi, creare inaspettati spazi di libertà per noi e per chi ci sta intorno.
È importante non essere ingenui su questo. Non si esce nel giro di una generazione o due da un immaginario patriarcale millenario, da mentalità e schemi psicologici e relazionali tramandati e appresi per generazioni e generazioni. Tanto meno si può uscirne da soli tramite uno sforzo di volontà. Noi possiamo cominciare questa storia diversa, ma il cambiamento più profondo passa attraverso le forme e la qualità dei legami che sapremo costruire e lasciare in eredità a chi viene dopo di noi.

I limiti del desiderio
[Certo è vero che solo con la crisi del maschile si inaugura una più ampia libertà per il desiderio degli uomini. Dalla maschilità come modello e come eredità, si passa alla maschilità come questione e come ricerca, anche se con il rischio di performatività che abbiamo indicato prima.
Tuttavia la possibilità di un cambiamento profondo a mio avviso non passa attraverso l'identificazione di un nuovo modello di maschilità, e nemmeno per la proliferazione di modelli alternativi e antagonisti, ma al contrario attraverso la diminuzione delle pretese dell'ego narcisista e razionale e attraverso la ricerca di una relazione più profonda con sé e con gli altri.
Dare importanza alle relazioni con sé significa imparare ad avere una relazione più dialettica e introspettiva con la propria esperienza esistenziale. Essere in grado di ascoltare e far parlare le proprie emozioni, i propri vissuti. Essere in grado di interrogarli problematicamente. Essere in grado di raccontarli e nominarli, producendo senso per sé e per gli altri. Essere insomma, per quanto possibile, presenti a se stessi, presenti alla vita.
Dare importanza alle relazioni con gli altri significa imparare a pensarsi e immaginarsi non come esseri isolati che mettono in campo i propri progetti e le proprie aspirazioni indipendentemente da tutti e da tutto, ma provare a pensarsi come esseri relazionali che crescono assieme alle proprie relazioni, assieme agli altri.
In entrambi i casi, insistere su una visione relazionale, significa stemperare le pretese dell'ego cosciente e razionale e avventurarsi invece nel mare aperto, in uno spazio in cui il cambiamento senza essere semplicemente casuale è frutto imprevedibile di un'interazione profonda con sé e con gli altri e non la proiezione di un semplice schema mentale. Potremmo definirla, richiamando Gregory Bateson, una "direzionalità senza scopo". Una direzionalità interiore e relazionale insieme.
Da questo punto di vista torniamo alla questione iniziale: quali sono le domande che ci guidano? La ricerca più profonda è quella che integra in sé tutto noi stessi, nelle nostre dimensioni consce e inconsce, consapevoli e inconsapevoli. "Per la natura stessa delle cose - ci ricorda Bateson -, un esploratore non può mai sapere che cosa stia esplorando finché l'esplorazione non sia stata compiuta" (Bateson, 2000, p. 79).
Da tempo vado ripetendo che ognuno appartiene alle sue domande, assai più che viceversa (Deriu, 2000). Spesso queste domande ci troviamo a ripercorrerle, a riformularle per tutta la vita. Le vere domande le ereditiamo da una storia personale, familiare, da un ambiente, una cultura, un tempo. Da questo punto di vista nella nostra ricerca di un nuovo modo di essere uomini, prima ancora che impegnati a trovare delle risposte, siamo piuttosto impegnati a rintracciare le domande; a risalire sempre più alle questioni ultime. Bisogna in altre parole non sapere ciò che si sta cercando e nonostante questo avere l'urgenza, la passione e la fiducia di trovarlo. Parte non pubblicata]

In conclusione val la pena ricordare il fatto che tra le dimensioni del cambiamento del maschile andrebbero probabilmente distinti i mutamenti eterodiretti (per esempio quelli indotti dalle trasformazioni socio-culturali determinate dal femminismo), quelli involontari (scelte e abitudini maschili che producono cambiamenti imprevisti, per esempio la logica competitiva dello sviluppo che genera la precarizzazione del lavoro e rimette in discussione il ruolo economico del maschio e il suo status sociale) e infine quelli riflessivi (frutto cioè di percorsi di analisi, autoanalisi, pratiche sociali e politiche di liberazione, insomma di scelte consapevoli).
Non si tratta solamente di mettere in luce che questi ultimi costituiscono per la verità quelli che hanno la minore ampiezza ed incidenza sociale, almeno sul breve periodo. Ma di ricordare che anche nel campo dei cambiamenti riflessivi la dimensione cosciente, consapevole, copre normalmente soltanto una minima parte del percorso che andiamo conducendo con noi stessi, con la nostra esistenza, con il nostro mondo relazionale. Si cresce, si matura, ci si trasforma non sulla base di un modello predefinito o sulla base di un desiderio razionale e onnipotente, ma in relazione a una maggiore disponibilità all'ascolto e al cambiamento nelle relazioni reali. E la cosa più difficile è ancora quella di rinunciare a pensarci artefici di noi stessi e del mondo, di moderare l'euforia, del "tutto ci è possibile", del "possiamo essere quel che vogliamo", per acquisire lentamente un atteggiamento più umile, più attento, più profondo che ci permetta di mutare in sintonia con quel che avviene dentro e attorno a noi.

Riferimenti bibliografici
BATAILLE George, 1994, L'esperienza interiore, Dedalo, Bari.
BATESON Gregory, 1984, Mente e natura, Adelphi, Milano.
-, 1997, Una sacra unità, Adelphi, Mílano.
-, 2000, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano.
BATESON Gregory, BATESON Mary Catherine, 1989, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano.
DERIU Marco, (a cura di), 2000, Gregory Bateson, Bruno Mondadori Editore, Milano.
-, 2004, La fragilità dei padri. Il disordine simbolico paterno e il rapporto con i figli adolescenti, Unicopli, Milano.
EHRENBERG Alain, 1999, La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino.