Libreria delle donne di Milano

Roma, 8 maggio 2002

Tra Gerusalemme e Ramallah
di Sveva Haertter

Sveva Haertter vive a Roma dove fa politica nel sindacato da diversi anni ed è la promotrice in Italia dell'iniziativa politica Non In Mio Nome, slogan inventato per smentire e prendere le distanze dalla politica israeliana di occupazione che viene attuata appunto in nome di tutti gli ebrei. Grazie al suo lavoro, circa un anno fa, si è formato un gruppo di ebree ed ebrei che, partendo da un appello contro l'occupazione apparso su vari giornali, ha poi agito numerose altre iniziative come la partecipazione alla manifestazione nazionale per la Palestina del 9 marzo scorso a Roma dove la presenza dello striscione "ebrei contro l'occupazione" è stata accompagnata da applausi e poi segnalata da molti giornali.

Difficilmente potevo scegliere un giorno meno adatto per iniziare a scrivere dei dieci giorni che ho passato principalmente a Gerusalemme e Ramallah. Giusto ieri sera è arrivata la notizia di un nuovo attentato suicida vicino a Tel Aviv. In questi momenti è sempre difficile parlare. È come se qualcuno che ti sta lentamente cucendo la bocca avesse messo un altro punto.
La mattina di giovedì 2 maggio per andare a Ramallah ho appuntamento con un amico italiano a Gerusalemme Est. Da dove mi trovo è abbastanza scomodo arrivarci e prendo un taxi. Sentendomi parlare inglese l'autista mi fa la domanda di rito "Come mai sei qui? Non hai paura?". "Sono venuta a trovare degli amici. Paura? No. Cioè … si." Ci mettiamo a parlare, si lamenta che da due anni non vede più un turista e che per questo ora fatica a parlare l'inglese. Andiamo a finire in politica e sciorina una serie impressionante di luoghi comuni sugli "Arabi che ci odiano" e "Arafat che ha rifiutato la generosa offerta di Barak". Gli chiedo cosa farebbe se lo chiamasse l'esercito. "Sono appena tornato" e gli chiedo dov'è stato. "A Jenin" risponde. Dal modo in cui lo dice sembra che sia la cosa più normale del mondo. Sul momento non mi viene in mente l'annuncio che B'Tselem ha messo sui giornali invitando i soldati a fornire testimonianze dirette sugli eventi, penso al manifesto e invece di ragionare su un modo per farmi dare il suo numero di telefono senza provocare da parte sua una reazione di chiusura, gli domando cosa è successo e se è disposto a parlarne con un giornalista. "Niente è successo. Tutto normale. Loro sono Arabi. Ci odiano. Abbiamo fatto il nostro dovere." Fine della conversazione.
Nel Muqata appena liberato vedo giornalisti di alcuni dei principali quotidiani italiani. Alcuni arrivano tardi, si guardano un po' intorno, si salutano, scambiano convenevoli. Li raggiunge l'inviato dell'ANSA e alcuni gli si fanno intorno per un resoconto della conferenza stampa alla quale evidentemente non si sono presi la briga di partecipare. Per quello che riesco a sentire il racconto è molto colorito, ma fatti pochi. Fanno domande, sento soprattutto Fiamma Nierenstein che si agita e chiede ripetutamente con voce concitata "Ha detto Shahid? Ha detto Shahid? Ha detto Shahid?". Sembra interessata solo a questo. Bel modo di fare informazione. Provo a chiedere se hanno notizie di Neta Golan, la militante pacifista israeliana che è rimasta per tutto il tempo nel Muqata assediato. Non sanno nemmeno chi sia, eppure in rete c'erano i suoi messaggi e negli ultimi giorni sue interviste sono apparse su Herald Tribune, Maariv e altri giornali. Non c'è che dire, veri professionisti.
Alla fine trovo Neta. Dorme. Tra le tante cose che mi ha raccontato dei giorni passati nel Muqata voglio dire di una volta che è uscita e si è messa a cantare ai soldati "Palestine will be free" sulle note di We shall overcome. Lì per lì non è successo niente e allora ha continuato aggiungendo altre strofe e alla fine ha cantato una canzone in ebraico, molto conosciuta, che dice più o meno "Siamo i soldati di Sharon e andiamo in Libano a combattere". Le hanno tirato una bomba suono proprio addosso. Non si è spostata e solo dopo lo scoppio della bomba è rientrata nell'edificio scrollandosi di dosso pezzi di vestiti in fiamme, destando grande agitazione tra gli occupanti del Muqata e soprattutto tra i palestinesi. "Come se fosse stata la prima volta che mi succede una cosa del genere" ride Neta. E anch'io mi chiedo dove trova tanto coraggio e un po' tutti ci chiediamo cosa le succederà, se e di cosa la accuseranno le autorità israeliane, quanti anni di carcere potrebbe rischiare nel caso dovessero arrestarla.
Del suo racconto mi viene in mente anche che mentre Powell incontrava Arafat, fuori i soldati distruggevano sistematicamente tutte le macchine. Gli internazionali ed i palestinesi guardavano desolati lo spettacolo da un punto riparato. Dicevano i palestinesi "Ma che fanno questi ragazzini? Ma che è un esercito questo?". Le macchine sono tutte distrutte, alcune impilate nelle barricate, altre sfasciate nel garage. Alle Mercedes hanno staccato le stelle. Gli edifici semidistrutti sono pieni di sporcizia, resti di cibo, urina, feci e graffiti in ricordo del passaggio dell'esercito più morale del mondo.
Sempre durante una delle visite di Powell, Neta è saltata fuori da una finestra perché gli internazionali volevano far notare la loro presenza. Una delle guardie americane le ha detto che se non rientrava non poteva garantire per la sua sicurezza "E come l'avete garantita nelle ultime due settimane?" gli ha chiesto Neta senza ottenere alcuna risposta.
Forse dopo l'attentato di ieri il Muqata diventerà di nuovo un obiettivo militare. Lei sarà li. Ne sono sicura e gliene sono grata. Quelli che la vorrebbero accusare di alto tradimento non si rendono conto (o non vogliono farlo) che con il suo coraggio sta mantenendo in vita un filo di speranza e proteggendo tutti noi da un disastro. Altro non ci sarà da aspettarsi se succede qualcosa ad Arafat. Per quanto tiepida sia stata l'accoglienza che gli ha fatto il suo popolo alla fine dell'assedio, una cosa è certa: se gli faranno del male o peggio, credo che per tutti noi potrebbero venire giorni assai tristi.
A Ramallah vive anche Amira Hass, la corrispondente di Haaretz. Lei e Gideon Levi, anche lui su posizioni di sinistra, in questo momento hanno problemi per quello che scrivono. Le ho viste parlare Neta e Amira. Sono diverse, diverse sono le loro scelte. Ma sono tutte e due a Ramallah e vivono con e come i cittadini di Ramallah e ognuna a suo modo testimonia cosa significa vivere sotto occupazione e che questa situazione non può e non deve durare.
La maggior parte del tempo l'ho passata con ragazzi molto giovani e un pomeriggio, un paio di giorni prima della liberazione del Muqata insieme ad altri internazionali abbiamo fatto una chiacchierata con un gruppo di studenti che la mattina insieme a noi avevano fatto volontariato in una scuola per far giocare i bambini in modo che attraverso l'attività fisica possano iniziare a superare il trauma dell'assedio e del coprifuoco. Ovviamente parliamo anche degli attentati suicidi. Non li approvano, anzi. Dicono quello che diciamo tutti, che è l'esasperazione che spinge a gesti del genere, ma che non giovano certo alla ripresa del processo di pace. Sono quasi tutte ragazze e quindi provo a chiedere se anche loro hanno avuto la mia stessa impressione, ovvero che il fatto che ora anche delle donne compiano questo tipo di attacchi usando il proprio corpo come arma, sia particolarmente terribile e segno che forse è stato raggiunto un punto di non ritorno. Non riescono a vedere alcuna differenza nel fatto che sia una donna o un uomo a compiere un gesto simile. La drammaticità di ciò che quotidianamente vivono coinvolge tutti, donne e uomini indistintamente. Uguale l'umiliazione, la disperazione, uguale a quel punto anche il corpo, un contenitore, niente di più. Donna o uomo di fronte all'occupazione non conta.
Una di noi vuole fare una domanda e premette che non si tratta di un suo pensiero ma di una cosa che le ha detto un suo amico per telefono "E se i palestinesi rinunciassero del tutto alle armi …" "Ma quali armi?" sbotto io interrompendola "Non hai visto che sono fucili contro carri armati e missili? Quando sono stata a Gaza all'inizio dell'Intifada ho visto il famoso carro armato di Arafat. È una specie di barattolo che nemmeno funziona e che la gente ti fa notare sganasciandosi dalle risate!" I ragazzi fanno cenni di approvazione e non ritengono di dover aggiungere altro.
Spiegano che non ce l'hanno con gli ebrei, che non ce l'hanno con gli israeliani. Con i soldati, con loro si. "Eppure" dice una di loro "pensa che una volta mi è capitato di incontrarne uno molto gentile, un ufficiale che quasi si scusava di non farmi passare. Era proprio gentile, non so nemmeno come dirlo, sembra incredibile, era gentile … come se si stesse scusando" lo dice quasi con imbarazzo, ma si vede che ci tiene ad essere onesta ed a sottolineare che almeno quella volta davanti a lei dentro quella divisa ostile è riuscita a vedere una persona. "E cosa pensi dei refusenik?" le domando. I suo occhi si illuminano letteralmente. Sorride. "Penso che siano straordinari, meritano tutto il nostro sostegno. Spero che ce ne siano sempre di più."
Quella stessa sera torno a Gerusalemme perché la liberazione del Muqata non sembra più tanto imminente e perché nelle notti passate a Ramallah sentivo sempre sparare. Mi stavo quasi abituando. Quasi. Torno dai miei amici israeliani che hanno più o meno la stessa età dei ragazzi palestinesi con i quali avevo parlato. Gli racconto della nostra conversazione. Quando dico della domanda sui refuseniks anche i loro occhi si illuminano e si vede che sono ansiosi di sapere della risposta. Gliene riferisco e anche loro, praticamente tutti obiettori, sorridono e nei loro occhi vedo la stessa luce. Questi ragazzi non possono parlarsi. Agli uni non è consentito uscire dalla zona A senza visti ed autorizzazioni, agli altri è vietato entrare.
Ho passato il primo maggio in un modo che dovrebbe andare bene anche a coloro che mi accusano di mancanza di equilibrio nelle mie valutazioni sul conflitto in atto. Due manifestazioni. Una Ramallah e una a Tel Aviv. Tutte e due piccole. Questa volta a Tel Aviv non ci sono i cecchini sui tetti come il sabato precedente ad una manifestazione più numerosa e non c'è nemmeno la polizia a cavallo, quella a piedi si, in abbondanza. Mi fanno notare che anche questa volta, come in tutte le altre manifestazioni alle quali ho partecipato c'è un poliziotto con un'enorme telecamera. Succede così da qualche mese. "Ecco la progressiva fascistizzazione di cui ti abbiamo parlato, vedi?". Si, lo vedo, come l'ho visto nel fatto che tutte le strade dal giorno dell'indipendenza sono ancora imbandierate, che ci sono bandiere appese alle finestre e sui balconi di moltissime case, che sono moltissime le macchine con bandiere fissate ai finestrini posteriori. Come un "Israele Day" tutti i giorni in tutto il Paese. Anche molte pubblicità sono nei colori della bandiera e contengono slogan nazionalisti. Una ragazza punta la sua telecamera dritta nell'obiettivo della telecamera del poliziotto. Restano così per un po'. La scena è piuttosto buffa soprattutto perché il poliziotto è anche lui enorme come la sua telecamera e la ragazza è minuta. Dobbiamo esserci distratti perché sul momento nessuno si è accorto che l'hanno arrestata.
L'ultimo giorno che ho passato a Ramallah, quello successivo al ritiro dell'esercito dal Muqata, mi sono svegliata all'alba. Devo aver dormito profondamente perché quella notte nessuno ha sparato. Nonostante questo, guardando fuori dalla finestra ho visto un'aria strana, come se stesse per succedere qualcosa, come se una rioccupazione della città potesse avvenire in qualsiasi momento, anche in quello stesso istante. Forse succederà domani, forse questa notte, forse dopodomani. Ecco perché nelle strade principali tutto sembrava normale anche negli ultimi due giorni in cui l'esercito ancora assediava il quartier generale di Arafat ed in cui a poche centinaia di metri da piazza Al Manara c'erano ancora i blocchi per le strade. In qualche modo bisogna pur sopravvivere, trovare un modo di vivere una vita "normale" nonostante tutto. Anche questa volta arriverà il giorno in cui bambini smetteranno di disegnare solo carri armati e morti, in cui i più piccoli smetteranno di dire parole sconnesse. Arriverà il giorno in cui, superato l'ultimo trauma, saranno pronti per affrontarne uno tutto nuovo.
Nel centro commerciale che si è visto anche qui in TV, completamente distrutto e saccheggiato, ho incontrato un ragazzo che lì dentro ci abitava e si guadagnava da vivere facendo le pulizie. Quando ha capito che ero straniera e che ero lì per vedere, ha voluto mostrarmi ogni singolo negozio, elencare ogni oggetto rubato, sfasciato o bruciato. "Ma non dici niente?" mi ha chiesto e non ho saputo rispondere nemmeno a questo. Anche questo ragazzo ha passato dieci giorni nel campo di prigionia di Ofer. Poi, probabilmente a causa del suo handicap fisico, lo hanno lasciato andare restituendogli anche i documenti, contrariamente a quanto è stato fatto con molti altri. Insomma, a parte il fatto che non ha più un posto dove andare e non ha più un lavoro, gli è andata anche bene.
A un certo punto si è avvicinato un uomo e mi ha raccontato che aveva un negozio di animali, principalmente pappagallini e pesci. Durante l'assedio sono tutti morti di fame.
Il giorno prima di partire ho partecipato ad un convoglio del Ta'ayush diretto nella zona a sud di Hebron dove siamo andati quasi in trecento a portare la nostra solidarietà alla popolazione locale che vive in gruppi composti da alcuni nuclei famigliari nelle grotte naturali di quella zona. Sono quasi dieci anni che provano in tutti i modi a cacciarli da quel territorio ed alcune famiglie che hanno già visto riconoscere dalla Corte Suprema israeliana il loro diritto a rimanere sulla terra dove da secoli coltivano il grano ed allevano il bestiame sono di nuovo minacciate di espulsione. Il 9 maggio ci sarà un'udienza che potrebbe essere decisiva. Questo caso è seguito da diversi gruppi tra i quali Ta'ayush, Alternative Information Center, Rabbis for Human Rights e Arab-Jewish Partnership e da una serie di legali. È da loro che andiamo per partecipare simbolicamente alla mietitura dei campi. Il mio amico ed io rimediamo un passaggio in una delle macchine che partecipavano al convoglio. A darcelo è una coppia simpatica, lui ha più o meno la mia età. Durante la sosta al distributore di benzina a metà strada dove aspettiamo che arrivino i gruppi che non sono partiti da Gerusalemme, ci mettiamo a parlare e lui mi racconta di un suo conoscente che durante l'operazione Muraglia di Difesa è stato a Tulkarem in una scuola dove c'era una cartina con la mappa degli attentati suicidi ed i nomi degli attentatori. Trova che sia una cosa terribile. Gli rispondo che quello che insegnano nelle scuole dei coloni non mi sembra meglio. Interviene il mio amico, si incazza. "Stai dicendo che nelle nostre scuole si insegna ad uccidere?" gli chiede il nostro interlocutore "Si" risponde il mio amico senza alcuna esitazione "magari non in maniera diretta, ma attraverso la cultura nazionalista nei fatti è questo che ci insegnano, che è giusto così, che per difendere la patria tutto è legittimo." Riprendiamo la conversazione in macchina e conveniamo sul fatto che il problema di fondo è tutto nell'occupazione, che deve finire subito.
Al ritorno in macchina con noi viene un ragazzo palestinese di Gerusalemme. Lui ed il mio amico si sono conosciuti da poco. A Gerusalemme Est stanno abbattendo una serie di case e al momento dello sgombero, già che si trovavano, le autorità ne hanno sgomberata una in più. Almeno la famiglia di questo ragazzo è riuscita a salvare la propria casa grazie all'aiuto dei pacifisti che in quei giorni hanno organizzato manifestazioni di sostegno. Da allora partecipa ai convogli di Ta'ayush. Ci eravamo già incontrati la settimana prima a Beit Jala. Al nostro ritorno a Gerusalemme mentre il mio amico ed io prendiamo l'autobus, lui va via in taxi. Chiedo come mai non viene con noi visto che andiamo nella stessa direzione. Il mio amico mi spiega che per un palestinese prendere l'autobus a Gerusalemme non è una bella esperienza, che può essere molto rischioso, che i palestinesi di Gerusalemme, di fatto gli unici che almeno in teoria possono andare dappertutto, in realtà raramente si spostano dalla città e anche al suo interno solo con molta cautela.
Ho conosciuto tanta gente, molti ragazzi israeliani, per qualche giorno ho partecipato alla loro vita normale, sugli autobus che potrebbero esplodere, nelle vie del centro di Gerusalemme dove ora è insolitamente facile trovare parcheggio e a Tel Aviv dove per entrare nei bar ti controllano le borse e paghi di più "per la sicurezza", alle tante manifestazioni e azioni di solidarietà grandi e piccole. Sono molto diversi da quel tassista che è stato a Jenin. Tra loro ad aver fatto il militare erano quasi solo le ragazze e tutte aggiungevano "Ero piccola, non capivo, non lo farei più". Pochi si definiscono ebrei e hanno un modo di parlare della nostra storia, di affrontare temi come la Shoah, che per un'ebrea della diaspora sono inconcepibili, salvo poi capire che è solo un modo di reagire ad un condizionamento al quale vengono sottoposti fin da piccoli, talmente ossessivo da essere pericoloso. Mi hanno fatto vedere un libro per bambini piccoli, in versi, con dei pessimi disegni. In fondo c'è un glossarietto. Per spiegare cos'è un campo di concentramento dice "un posto circondato da filo spinato con delle torrette di guardia". E ce ne sono altri probabilmente anche più inquietanti. Credo che libri come questo e certe scelte del sistema educativo israeliano rappresentino un rischio di una banalizzazione dello sterminio nazista molto più di quanto possa essere anche solo immaginato nei sogni più azzardati di un qualsiasi negazionista nostrano. Questi ragazzi se ne sono accorti. Dubito di poter dire la stessa cosa di quei genitori che comprano questi libri ai loro bambini. Ho pensato a mia nonna che quando a 14 anni le chiesi di leggere "Se questo è un uomo" me lo vietò in modo categorico dicendo che secondo lei ero ancora troppo piccola. Mi diede invece "La Tregua". Ne ho letti tanti altri di libri sulla Shoah, ma quel particolare divieto l'ho preso sul serio, l'ho rispettato per quasi 10 anni e sono grata a mia nonna per aver agito in quel modo.
Gli ultimi ragazzi che ho incontrato sono quelli dei servizi di sicurezza all'aereoporto. Devo aver suscitato la loro attenzione perché essendo arrivata con molto anticipo ho gironzolato parecchio davanti al terminal per fumare. Mi hanno chiesto il passaporto e vedendo i visti serbi si sono molto insospettiti. "In Serbia c'era la guerra, qui c'è la guerra, cosa sei venuta a fare?" rispondo che sono venuta a trovare i miei amici, guerra o non guerra, sono i miei amici. "Hai incontrato palestinesi?" rispondo di no perché non voglio grane, voglio solo tornare a casa. Chiedono dove sono stata, a Gerusalemme e a Tel Aviv rispondo. Mi chiedono se sono stata anche a Gerusalemme Est e rispondo di sì. "Allora hai incontrato palestinesi!" esclama uno con tono minaccioso. "Se mangiare Falafel per strada nella città vecchia significa incontrare palestinesi, si, ne ho incontrati." Non ho scampo. Ho detto che i palestinesi esistono ed ho ammesso di averne visti. Mi portano da una parte e fanno arrivare due ragazze per interrogarmi.
Io questo lo chiamo disumanizzazione dell'altro. Lo chiamo razzismo. Lo chiamo Apartheid. Ci ricordiamo come abbiamo fatto a sconfiggerla in Sud Africa? Non è passato molto tempo. Che cosa stiamo aspettando

Sveva Haertter