Libreria delle donne di Milano

UNA CITTÀ n. 139 / maggio 2006

LIBERTA' NEL LEGAME
di MARIA CASTIGLIONI

Il rischio di considerare la cosiddetta "dipendenza affettiva" alla stregua delle altre dipendenze da sostanze. L'idea falsa di una liberazione dai legami, dalle relazioni, senza le quali non potremmo vivere. Gruppi di autoaiuto in cui la relazione con altre donne può far cambiare un legame sbagliato. I modelli maschili. La pratica di partire dalla "base sicura" della propria storia ed educazione. Intervista a Maria Castiglioni.

Maria Castiglioni, psicologa, psicoterapeuta, lavora da anni nella realtà dei gruppi di mutuo aiuto. Co-fondatrice dell'Associazione ArcenCiel- Insieme per il Self Help di Milano si occupa, tra l'altro, di formazione e facilitazione di gruppi di mutuo aiuto sulle tematiche familiari e il disagio nelle relazioni affettive.

Sentiamo parlare, soprattutto in riferimento alle donne, di questo eccesso di "amore", nei confronti del proprio fidanzato, o compagno, ma anche dei figli o dei genitori. Che cos'è la dipendenza affettiva? Come possiamo definirla?
Ci sono vari tipi di dipendenza: da alcol, cibo, farmaci, droghe, gioco, shopping ecc. Ma c'è anche il fenomeno della dipendenza da persone, che la psicologia definisce come "una modalità relazionale in cui un soggetto si rivolge continuamente agli altri per essere aiutato, guidato e sostenuto. L'individuo dipendente, avendo una scarsa fiducia in se stesso, fonda la propria autostima sulla rassicurazione, sull'approvazione altrui ed è incapace di prendere decisioni senza un incoraggiamento esterno" (Dizionario di Psicologia di U. Galimberti). Noi ci occupiamo in particolare di questo tipo di "dipendenza". Tuttavia, quando abbiamo cominciato a pensare a gruppi di mutuo aiuto sulla dipendenza affettiva, non abbiamo considerato la donna "dipendente" come malata: la nostra ipotesi vedeva l'origine di questo tipo di disagio nella grande capacità di relazione femminile. Non lo abbiamo inquadrato, cioè, in una sintomatologia patologica, bensì in una cornice che definirei "ontologica", cioè di struttura dell'essere umano donna, la cui connotazione fondamentale è il suo essere in e per la relazione. Anche Ratzinger nella sua "Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna" (agosto 2004), ha sostenuto la vocazione relazionale della donna nei termini di una sua "capacità dell'altro". Questo "essere per" è una competenza esistenziale femminile, del suo specifico modo di essere nel mondo. E se questa passione per la relazione con le persone è lo specifico campo di espressione della donna, non è strano che patisca più dell'uomo, che invece è connotato, dal punto di vista culturale, da una passione per gli oggetti. E questo lo si vede fin da piccoli. Luce Irigaray, filosofa e psicoanalista francese, fondatrice del pensiero della differenza sessuale, racconta nel suo testo Parlare non è mai neutro, di una serie di esercitazioni linguistiche da lei effettuate con bambini delle scuole elementari e medie. Nella frase da completare: "Io gioco con...", la bambina termina dicendo: "con Francesca", mentre il bambino completa: "con la macchinina".
Per tornare all'inizio del nostro discorso, noi non abbiamo definito la dipendenza affettiva come patologia, ma come conseguenza di una certa modalità femminile di stare al mondo che dà un'enorme importanza alle relazioni. Per cui abbiamo incominciato a parlare non tanto di dipendenza, quanto di disagio nelle relazioni affettive.
Perché abbandonare quell'espressione?
Per due motivi. Primo perché il concetto di dipendenza implica il suo contrario, l'autonomia e l'indipendenza, che a noi sembrano dei puri miti. Non esistono l'indipendenza e l'autonomia allo stato puro, cioè svincolate dai legami. I legami sono comunque fonte di dipendenza, tutti siamo inseriti in una trama di relazioni e di legami senza i quali non potremmo esistere. La dipendenza non è un concetto negativo in quanto non esiste una persona che possa dichiararsi indipendente dal contesto e dalle circostanze relazionali. E comunque la caratterizzazione di una persona totalmente autonoma, indipendente, che non ha bisogno di niente e di nessuno, non sarebbe certo quella in cui una donna potrebbe riconoscersi. Ricordo una vecchia pubblicità rivolta all'uomo che "non deve chiedere mai"…un mito appunto della cultura maschile. Il fatto di attribuire alla dipendenza un'accezione negativa ci sembrava molto riduttivo di una modalità esperienziale che invece caratterizza tutti, anche se in misura differente. Il punto di partenza è accettare che all'interno di una relazione si dipenda, altrimenti non ci sono le condizioni perché una relazione possa istituirsi.
Ma non ci piaceva molto neanche l'altro termine, l'aggettivo "affettiva". La donna è sempre stata caratterizzata come colei che dà la maggior quota di energia nel mondo degli affetti; esiste ed è definita in virtù degli affetti che ha: "moglie di", "figlia di", "madre di"... Allora ci sembrava che quella definizione rischiasse di costringere la soggettività femminile in un orizzonte decisamente troppo ristretto e ne facesse un soggetto, per citare Marcuse, "a una dimensione".
Quindi questo concetto di indipendenza voi lo demistificate anche con chi ha un problema e si rivolge a voi…
Chi approda a un gruppo di self-help, manifestando questo forte disagio si percepisce come soggiogata a un legame di cui vorrebbe assolutamente liberarsi: "non ce la faccio più", "prendo il primo aereo e me ne vado", "non li voglio più vedere, sparisco dalla circolazione", ecc. Sì, in primo luogo facciamo un'opera di demistificazione di quest'orizzonte di falsa libertà.
Per noi non è questa la libertà: ci si può liberare delle persone, ma non del nostro modo di rapportarci a loro, che si rischia di reiterare. Un assunto fondamentale è che dei legami non ci si può disfare e qualunque legame, fosse pure quello col cane, implica un investimento, un coinvolgimento e quindi un'affettività nel senso di "essere affetti da", quasi un'infezione a cui non si può sfuggire…
Insomma, l'autonomia assoluta non esiste. Del resto una libertà "assoluta", dal latino ab-soluta, cioè sciolta da ogni legame, potrà mai essere praticabile?
Cercare di liberarci dalla dipendenza seguendo una sorta di programma 'di disintossicazione', considerando partner, figli e figlie, madri e padri, fratelli e sorelle alla stregua di una sostanza, difendendoci dal rapporto fino ad arrivare alla demonizzazione o all'allontanamento emotivo dall'altro, non risolve certo il problema.
Tutto questo è anche consolatorio, perché il mito dell'autonomia assoluta ci perseguita e poi ci si sente falliti se non ci riusciamo.
Proviamo a rileggere la citazione di Galimberti da cui ha preso avvio il nostro ragionamento: chi non ha bisogno di rivolgersi agli altri per essere aiutato, per essere approvato, per avere un incoraggiamento? Sarebbe un essere umano terrificante, un mostro. Allora, già questo cambiare lo scenario porta le donne a pensare: "Allora sono normale, non sono così patologica, perché in fondo desidero stare in una relazione e non esiste un universo senza relazioni; ho questa relazione di cui voglio liberarmi ma se non ci riesco è anche perché alla relazione ci tengo…". Queste spinte e controspinte che si avvertono, continuamente contraddittorie, sono inserite in un orizzonte non di patologia, di stranezza, di morbosità, ma di quotidianità, di sentimenti condivisi e condivisibili dalla generalità delle persone. Le donne sono capaci di riconoscere la propria dipendenza e se ne fanno anche un problema, mentre gli uomini tendono a negarla, ad affermarsi come sganciati e svincolati dal legame.
Successivamente ci siamo chieste cosa cerca una donna quando sta con una persona con cui ha un legame molto intenso, comunemente definito attaccamento morboso, ossessivo. Cerca una compensazione affettiva o qualcos'altro? In sostanza, come ho già detto, non volevamo appiattire l'identità femminile in questa definizione unidimensionale. Una donna in uno dei gruppi aveva detto: "Aspetto la sera perché incontro il mio fidanzato e gli racconto tutto quello che mi è successo durante la giornata così lui mi dà il suo parere, i suoi consigli". Allora abbiamo pensato che non si trattasse solo di un appoggio affettivo ma anche di desiderio di dare un senso alla propria vita, di dar valore a quello che si fa. Non si cerca solo un orecchio che ascolti, una spalla su cui piangere. C'è anche un vuoto di senso da colmare, tanto più che l'ordine sociale in cui la donna è inserita non è a sua misura, non la comprende. Tutti i grandi sistemi di senso, il linguaggio, la filosofia, la politica, la religione, la giustizia, sono costruiti e pensati a misura di uomo. La donna per trovare senso al proprio agire chiede in prestito all'uomo delle categorie che valorizzino il suo fare e si aliena doppiamente perché lì non può trovare né senso né riconoscimento…
Per rintracciare una possibilità di senso per le cose che si fanno occorre mettere tra sé e il mondo l'altra donna. La ricerca di senso non può essere un soliloquio, avviene solo all'interno di una relazione con un'altra persona e nella fattispecie con un'altra donna. Lo slogan femminista "tra me e il mondo un'altra donna" intendeva dire proprio questo. Anche gli uomini, se ci facciamo caso, per darsi valore rimandano continuamente ad altri uomini. Basta ascoltare un'intervista, chiunque cita un maestro, i suoi colleghi, quello che ha parlato prima… Ad un convegno gli uomini si citano e si riveriscono gli uni con gli altri, mentre le poche donne presenti e parlanti raramente vengono riconosciute.
Luce Irigaray ci ricorda che la donna è sempre "una più una più una", essendo stata separata, nella cultura patriarcale, dalle sue simili attraverso il dispositivo dell'invidia universale. Ogni donna invidia l'altra perché si ritrova in un sistema che la reifica e la mette a disposizione del maschio. Proseguendo nella linea di pensiero di Irigaray, potremmo affermare che la donna non soffre soltanto di una dipendenza affettiva dall'uomo, ma anche simbolica, in quanto ricerca quel senso dell'esistere di cui l'uomo usufruisce invece "naturalmente" per il fatto di appartenere ad un sistema simbolico, ad una rete di valori e di significati che gli corrisponde. Irigaray analizza questo rivolgersi all'uomo da parte della donna e lo definisce con un'espressione molto pertinente: "gusto simbolico". Pensiamo a una donna in pubblico: spesso non riesce a spiccicare parola, le batte il cuore. Non è il suo terreno di espressione. C'è una pratica legata alla parola pubblica che la donna non ha, essendo corpo per antonomasia. Da questa collocazione di oggetto, di complemento dell'altro, fa molta fatica a togliersi. Si tratta allora di cominciare, attraverso la relazione con le altre donne, a costruire ipotesi di senso per un ordine che senta suo, in cui lei si riconosca.
Qual è "la filosofia" di questi gruppi di mutuo aiuto?
Noi intendiamo i gruppi di mutuo aiuto come una risorsa di promozione della salute, di riappropriazione della cura di sé, di ritiro della delega ad altri del proprio benessere psicofisico. E' una realtà all'interno del più vasto sistema di self care, di presa in carico della propria persona. Siamo un gruppo di psicologhe, assistenti sociali, educatrici. Io personalmente ho una storia di femminismo alle spalle: il femminismo insieme al movimento gay è stato uno dei promotori dei gruppi di self help, denominati allora di autocoscienza. I primi gruppi spontanei risalgono alla seconda metà degli anni '60. Nelle istituzioni questa metodologia arriva molto dopo, direi a metà anni '90, anche se una certa cultura del mutuo aiuto aveva iniziato a farsi strada anche prima, sia come risorsa responsabilizzante per ritirare la delega eccessiva al mondo specialistico, sia per effetto della riduzione delle risorse del welfare. La nostra associazione nasce nel 1998 e diamo inizio ai primi gruppi di mutuo aiuto su vari temi: genitorialità, abuso, separazione coniugale, disagio relazionale. Per attivare quest'ultimo abbiamo fatto ricorso agli inserti locali dei principali quotidiani. Sono arrivate decine e decine di telefonate, c'è stata una grande risposta e poi una scrematura spontanea e il gruppo è partito. Quello della dipendenza affettiva o disagio nelle relazioni è un tema molto sentito dalle donne, perché l'identità femminile attribuisce molta importanza ai legami affettivi. Ultimamente abbiamo ricevuto anche telefonate di uomini, ma in misura troppo esigua per costituire un gruppo. Inoltre la nostra associazione è prevalentemente femminile e valutiamo che debbano essere uomini a gestire gruppi di uomini. A chi ci chiede se è possibile fare dei gruppi misti sulla dipendenza affettiva rispondiamo di no.
Perché?
Perché la problematica femminile rispetto agli affetti è diversissima da quella maschile. E' veramente difficile spiegarsi tra sessi, mentre tra sole donne c'è una capacità e una possibilità di intesa molto maggiore, perché è un'esperienza psicologica che si conosce bene. Pensiamoci un attimo: quando un uomo parla di innamoramento piuttosto che di attaccamento a una donna, non si capisce mai di cosa stia parlando, lo stesso quando parla di paternità. Ereditiamo una situazione storica dove i sessi si sono parlati pochissimo e c'è ancora poca conoscenza l'uno dell'altro. Ora, dopo quarant'anni di femminismo, in una fase di declino del patriarcato, forse si può cominciare a parlarsi…
I gruppi come funzionano concretamente?
Un gruppo di mutuo aiuto può formarsi spontaneamente o attraverso l'iniziativa di una facilitatrice: in questo caso è lei che si occupa di mettere insieme il gruppo, e di condurlo per un ciclo di incontri, solitamente di un anno. I gruppi non devono superare le quindici persone perché bisogna garantire la relazione "faccia a faccia", cioè che tutte abbiano la possibilità di interagire con le altre. La carta di identità del gruppo è questa: frequenza bisettimanale, durata dell'incontro di un'ora e mezzo, massimo due ore, in una sede che non sia connotata, che sia neutra, ma abbastanza confortevole e che costi poco, accesso gratuito, si paga solo la tessera dell'associazione, nel nostro caso 30 euro l'anno. Il gruppo può essere a termine (vale a dire chiudere dopo un ciclo di incontri predeterminato) oppure continuo, aperto o chiuso. Di solito è aperto ai nuovi ingressi, ma l'apertura deve essere attuata con giudizio, sia per evitare l'effetto "porto di mare", sia per dare ad ogni persona nuova il suo momento particolare di accoglienza. Se ad ogni riunione ci fosse un nuovo arrivo, non si riuscirebbe a costruire una certa coesione: il rischio è di sfruttare emotivamente i nuovi arrivi come linfa per il gruppo, il che alla lunga ostacola la possibilità di una comunicazione profonda.
Cos'è che nella donna fa scattare l'idea che ci sia qualcosa che non va, la coscienza di un disagio?
Le donne che arrivano al gruppo raccontano di stare male a livello psicofisico: non dormono, dimagriscono, hanno crisi di ansia, di panico, sono ossessionate, riportano un malessere diffuso, continuo e persistente associato al fallimento delle tecniche sperimentate per sfuggirvi. Una donna ha detto: "Io sono qui perché mi hanno impedito di dipendere ulteriormente". Quando una domanda d'affetto e di riconoscimento è posta in un modo così pressante l'altro non la può reggere, oppure, se la regge, si risolve in una grande svalorizzazione della donna.
L'età delle partecipanti ai gruppi?
Ci sono donne dai venticinque ai sessant'anni, ma a prevalere è la fascia intermedia, 30-40-50 anni. Quando si è giovani ci sono più possibilità di giocare su tanti tavoli, ci sono più risorse e quindi si tende a "svoltare" con più facilità, avendo la possibilità di rilanciare sul proprio aspetto esteriore. Ma ci sono anche giovani ragazze che già si pongono questo problema… Di solito però ci vuole tempo: quello che fa scattare l'allarme è la coazione a ripetere, la tendenza a rivivere sempre le stesse situazioni. Qualcuna li ha definiti rapporti "siringosi", nel senso che c'è qualcosa di tossico, una modalità di attaccamento troppo stretto, un non riuscire a fare a meno dell'altro. Come ho già accennato, cerchiamo di andare oltre le apparenze della dipendenza, capovolgendola di segno, lavorando sul fatto che a farci soffrire non è (solo) la mancanza dell'altro, quanto la mancanza di un senso nella nostra vita. Qui diventa importante capire alcune premesse della propria storia, interrogandosi, ad esempio, su che cosa è stata, per ognuna del gruppo, la "base sicura", un concetto elaborato da Bowlby, un famoso psicoanalista inglese.
A proposito degli "stili di attaccamento", Bowlby sostiene che chi ha sperimentato, nella prima infanzia, le cure di un adulto equilibrato o, per dirla alla Winnicott, "sufficientemente buono", dove si alternava vicinanza e distacco, ha potuto formarsi una "base sicura", cioè una "base" da cui partire per esplorare il mondo. Chi non ha avuto questa esperienza, bensì quella di un rapporto fusionale con la madre, cioè di un rapporto dominato dal fantasma che qualcuno dei due, senza l'altro, potesse morire, mette in atto una relazione di dipendenza per paura della sparizione di sé o dell'altro. I messaggi che si incrociano sono del tipo: "Io mi prendo cura di te se no tu sparisci" oppure "Io ho bisogno della tua cura perché se no io sparisco": a questo punto il risvolto è spesso la gelosia paranoica.
Ma si può stare meglio, ci si riesce?
C'è un percorso da fare, dove i miracoli avvengono, soprattutto se una non se li aspetta. Chi soffre di un disagio relazionale forte non pensa mai che nelle relazioni occorra fare un lavoro della mente. Invece anche qui è necessario un lavoro. Luce Irigaray lo definisce "il lavoro dell'amore". Siamo tutte condizionate dal mito dell'amore romantico, dove parlare di "lavoro" sembra assurdo, perché l'amore, si dice, è frutto di una magia: il colpo di fulmine, i due cuori e una capanna, tu sei tutto per me, senza di te non vivrei… C'è una retorica romantica sull'amore che ci ha rovinati tutti. Ma è un mito maschile dove la donna, oggetto di una idealizzazione totale, è la prima vittima: il prezzo che paga è il silenzio, la riduzione a pura immagine. Tutto questo Maria Zambrano lo spiega magnificamente nel suo libro All'ombra del dio sconosciuto. E' la stessa operazione della demonizzazione, ma di segno contrario: da una parte le streghe e dall'altra Beatrice. Strega o stregata, donna mai. In questa situazione non è facile trovare un'identità, così la si chiede in prestito. L'emancipazione è stata la grande illusione di chiedere in prestito un'identità. Esci dalla tua condizione di assoggettamento attraverso la presa in prestito dell'identità del dominatore.
Ma torniamo a quello che chiedevi: come se ne esce? Intanto con il lavoro della mente. Nel gruppo (sto descrivendo in particolare il percorso del gruppo Diana di Milano) il lavoro della mente ha significato partire dalla considerazione di cosa è per ognuna la base sicura. Ognuna di noi, per il fatto di essere al mondo, di essere dotata di linguaggio, parte da una "base" più o meno sicura. Ovviamente non sto parlando di psicotici, mi riferisco a donne con molte difese, ma anche capaci di mettere in campo una buona capacità introspettiva e che si pongono il problema di un progetto su di sé. Chi non ce l'ha, infatti, ne soffre la mancanza, capisce di avere consegnato la propria identità esclusivamente al mondo degli affetti e questo fa problema, soprattutto quando i figli se ne vanno… Nel gruppo ci sono donne molto diverse, per ceto, estrazione sociale e culturale: dall'impiegata alla commessa, dalla maestra alla professionista… Questo è un problema che tocca in modo trasversale: l'importante è aver voglia di interrogarsi.
Il lavoro consiste nel valorizzare la propria "base": nessuna è così compromessa, nella sua storia personale, da essere impedita nel linguaggio e nelle relazioni. Può avere delle relazioni disordinate, all'insegna dell'ambivalenza o della "siringosità" ma è stata messa nel mondo con un corredo, che le ha permesso di parlare, di esprimersi e di intrecciare rapporti.
Questo, che viene considerato scontato, in realtà è stato il frutto di un lavoro enorme da parte di chi ci ha allevato. Quindi partire da ciò che è stato fatto, valorizzare la propria base significa anche fare un po' la tara su quello di cui abbiamo bisogno, perché meno si valorizza quello che ci è stato dato e più ci consideriamo bisognose. Un riconoscimento di quello che abbiamo già e che ci è stato dato dalla madre, è fondamentale per cominciare a pareggiare i conti o almeno per ridurre il rosso. Si comincia a riequilibrare un po' le cose e a riempire "il corpo cavo" di doni. E' forte la tendenza a disconoscere i regali materni, perché a sua volta anche la madre è stata disconosciuta. Quindi affrontiamo un percorso in gruppo attraverso le tappe della storia personale, dove la riflessione sul rapporto con la madre e le altre donne è un filo rosso insostituibile. I primi mesi garantiamo la presenza della facilitatrice. Successivamente qualcuna si costituisce come referente del gruppo per le cose pratiche, mentre la conduzione diventa una "funzione" svolta un po' da tutte.
Rispetto al rapporto con l'uomo, sono molte a risolvere il problema lasciandolo, o si riesce a salvare la relazione?
Tutte e due le cose. Dipende dalle scelte e dalle storie personali. Nell'affrontare questo tema non bisogna mai pensare che gli universi psichici siano un tutto monolitico, ci sono sempre delle maglie che si allentano. Tutte le donne che sono venute hanno un'altra faccia della luna, tutte nel segreto delle loro stanze si chiedono: "Ma che storia terribile sto vivendo?", e hanno una lucida analisi della loro situazione.
Spesso, alla difficoltà personale di lasciare il legame "siringoso", si associa il bisogno di difendersi da un contesto giudicante che non tollera questi tipi di legame quando non addirittura il gusto di una sfida nell'esibizione della propria dipendenza… Però il più delle volte ci si vergogna e ci si costringe a un isolamento sempre maggiore. In questo il gruppo è molto di aiuto, perché offre un contesto non giudicante (si è tutte nella stessa barca) e permette di uscire dall'autoisolamento attraverso la messa in comune delle esperienze.
Ma ci sono casi estremi di dipendenza…
Devo dire che io sono affascinata dalle storie estreme, il darsi all'altro senza condizioni, una sorta di servitù allo stato puro… Lo dice anche la Zambrano, a proposito della Madonna e della sua risposta all'angelo: "Io sono la tua serva, sia fatto di me secondo il tuo volere", mentre l'uomo, Giobbe, Giacobbe, si ribellano alle prove divine. Nella schiavitù, commenta la Zambrano, l'anima "si riempie di realtà", è in una condizione di adorazione, perché sa di non bastare a se stessa. La donna ha coscienza della propria mancanza: per questo è più incline alla dipendenza, con i rischi ed il dolore che comporta.
La scommessa della donna è ben più alta di quella maschile: è in gioco il senso dell'esistenza come offerta, la "capacità dell'altro" di cui parlavamo all'inizio, pur in una variante totalizzante che a volte ci sconcerta. Per l'uomo la scommessa più rivoluzionaria sarebbe la mitezza, sostituire il narcisismo con l'amore di sé, che è ben altro…
A una paziente coinvolta in una relazione estrema chiesi che cosa stesse imparando dalla sua storia: questo capovolgimento la colpì. Mi disse: "Sa che questa domanda non me l'ha mai fatta nessuno e adesso lei mi fa pensare…".
Non era già più la vittima o la "paziente designata", ma un soggetto che stava facendo un'esperienza originale, per certi versi scandalosa, che poteva mettere in circolazione sotto forma di sapere. Anche questo si fa nel gruppo: si vanno a vedere le convenienze, i vantaggi secondari delle situazioni di sofferenza, che cosa può favorire e che cosa impedire il cambiamento, quale il sapere accumulato in storie così sofferte.
Ma non pensiamo ad un confronto sul filo dell'idillio: nel gruppo ci si scalda, ci possono essere momenti di conflittualità, di giudizio, di disconferma dell'altra.
Ci sono delle regole?
Le regole non possono riguardare atteggiamenti e/o comportamenti. Le regole devono limitarsi alla puntualità, l'avvisare delle assenze, il riuscire a comunicare e motivare, anche per iscritto, la decisione di chiudere con l'esperienza.
Ho registrato, in varie occasioni, la tendenza a stabilire come regole anche l'accoglienza, l'amicalità, il rispetto reciproco, il non interrompersi, il non dare giudizi. Ma come si può stabilire per regola di non giudicare? Noi giudichiamo continuamente, è inevitabile farlo per poter stare al mondo… A mio avviso queste non possono essere regole, bensì stili relazionali, disposizioni d'animo che si acquisiscono con il tempo, man mano che il gruppo matura, si evolve e le persone si conoscono e imparano a rispettarsi. E' il frutto del lavoro fatto dal gruppo e da chi lo ha facilitato nei primi mesi. Non si può istituire per regola ciò che deve essere frutto di un lavoro. Lo sento come una scorciatoia. Analoga scorciatoia può essere il rifugiarsi in un "noi" gruppale che tende a sopprimere la tensione individuo-gruppo.
Invece, sul piano della metodologia, una regola, se vogliamo chiamarla così, è il partire da sé, dalla propria esperienza e dalle riflessioni su di essa. E' un richiamo costante per evitare di scivolare nelle generalizzazioni, nelle banalizzazioni, nelle considerazioni di "buon senso comune", oltre a essere il fondamento del gruppo di mutuo aiuto.
Ognuna deve fare uno sforzo per spremere il succo, cioè il senso dalla storia dell'altra: solo così si può contribuire a restituire quel "gusto simbolico" che ci si affanna a cercare sempre altrove.
Accennavo prima alla dinamica, ai conflitti: nel gruppo accade tutto, è un microcosmo che riflette la realtà generale, ma qui si può imparare a maneggiare con più abilità queste dinamiche e si può pure imparare a far sì che non ti uccidano.
Per chi è propensa a rapporti simbiotici, tollerare il conflitto e scoprire che non uccide il rapporto, ma può tonificarlo permettendo un reciproco "riposizionamento", significa andare oltre la complicità e differenziarsi. Il percorso di differenziazione che avviene nel gruppo non si limita al rispetto formale delle scelte dell'altra, ma all'assunzione che c'è un'alterità irriducibile a noi con cui confrontarsi.
Non è facile, in quanto siamo sempre in lotta per avere riconoscimento dall'altro: in fondo una relazione di grande dipendenza affettiva cela in realtà, da parte della donna, una lotta titanica per il riconoscimento.
Agire questa domanda di riconoscimento all'interno del gruppo, tra donne, aiuta a ridimensionare le proprie dipendenze e a collocarsi in un orizzonte dove il confronto con la propria solitudine diventa essenziale.