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Da "Leggendaria"
n.43, Marzo 2004
Bia Sarasini
intervista Luisa Muraro
Su via dogana
di dicembre proponi di entrare nella "lingua corrente", cioè
di usare il linguaggio quotidiano per quello che è, senza pretese
di rinominazione, a cominciare dai problemi di genere grammaticale, femminile
o maschile. Nello stesso tempo ti affretti a dire che non si tratta di
una "svolta", e, in un certo senso, neppure di una "proposta".
Però mi pare, che in qualunque modo lo si voglia chiamare, si tratti
di una spostamento. Perlomeno di enunciazione. Una donna, invece di dichiarare:
io sono una donna e nomino (ri-nomino) il mondo a partire da me, dice:
ascolto il mondo così come è, e trovo il modo di interagire.
Quella che sono (una donna,) si esprimerà nelle parole correnti.
La prima
domanda, immediata, è questa: c'è una perdita, in questo
cambiamento? Se sì quale, su quale piano?
Prima di
risponderti, vorrei tornare sulla tua premessa. Io ho detto: ascolto il
mondo così come si esprime nella sua lingua. Che non è il
linguaggio quotidiano, non per forza. La lingua corrente è la lingua
con cui il mondo che cambia si autorappresenta. La ascolto, comincio a
vedere fatti che prima non vedevo, a capire cose che prima non capivo
e, presumibilmente, anch'io mi metterò a parlarla, bene o male.
Attenzione che io non sto indicando un oggetto (una lingua determinata)
ma un atteggiamento o, meglio, un movimento che consiste nell'andare fuori
di me (nel mondo) e nel prendere dentro di me (il mondo). Che è
quello che il saper parlare una lingua ci consente di fare. Ovviamente
io già parlavo. Lo spostamento che cerco di configurare a me e
a chi vuole ascoltarmi, somiglia a quello che fa l'emigrante che va a
vivere in una società di cui non conosceva né la cultura
né la lingua. Anche lui o lei già parlava, ma nel nuovo
paese le mediazioni sono differenti.
C'è una perdita in questo spostamento? Forse sì, forse no;
quello che io ho in mente è un guadagno e chissà che non
ci sia veramente. Sicuramente c'è una serie di rinunce, due almeno.
Si rinuncia a lottare perché il mondo che cambia si autorappresenti
con il mio linguaggio: se vorrà farlo, tanto meglio, altrimenti
non importa. Inoltre, c'è la rinuncia ad una comunicazione preferenziale
con quelle che la pensano come me e all'identità che si ha grazie
a questa comunicazione. Non rinuncio, invece, ad essere me stessa né
a ricordare il passato, ma, persa la comunicazione preferenziale, perso
il "noi", diventerà difficile sapere che cosa tutto questo
significhi. Dipenderà, come tu dici, dall'interazione. Forse, mi
dico, si perderanno idee preziose, purché non si perda la cosa
più preziosa che abbiamo conosciuto con il femminismo, le relazioni
tra donne, relazioni tra donne non mediate da uomini, intendo.
Molte,
e molti, chiamano questo cambiamento post- femminismo. Un'espressione
ambigua, che si può leggere come "dopo il femminismo",
ma anche come "il femminismo che viene dopo". In entrambi i
casi c'è un "dopo". Dopo cosa? Il femminismo di massa
degli anni settanta? Le trasformazioni nella vita delle donne degli ultimi
trent'anni? La nuova consistenza di donne autonome? Il pensiero delle
donne? Sia la produzione teorica femminile, sia l'emergere più
immediato, nel comportamento, di modi di pensare il mondo proprio delle
donne?
Sì,
lo so che lo chiamano postfemminismo, ed è un esempio del potere
della NOMinazione (il mio computer non riconosceva la radice NOM- e correggeva
in "dominazione": mica male) per cui un nome s'impone anche
a esperienze o situazioni che non gli rispondono, come in questo caso.
Come te, suppongo, nemmeno io ho mai usato formule con il prefisso post.
Mi suscitano associazioni strampalate, di sesso anale. Suppongo che quelle
formule siano state coniate da persone colte che non parlano però
una lingua neo-latina, come invece noi. Poco importa, m'importa - e questo
è il punto che vorrei discutere con te - che quelle persone hanno
una fiducia impressionante nell'ordine che fa il prima e il dopo. Non
solo io non la condivido, ma mi oppongo perché certe esperienze
bisogna lasciarle eccedere la dimensione temporale, altrimenti non riusciamo
a renderne conto o lo si fa in maniera riduttiva. In La frantumaglia,
Elena Ferrante parla di un dolore che si vive in una sorta di acronia,
fuori dall'ordine temporale. Con il femminismo abbiamo dato parola a molte
esperienze di questo tipo, poste sul bordo tra storia e biologia.
Adesso posso spiegare, in risposta alle tue domande, che lasciar cadere
la mia, nostra nominazione, è come un darci la possibilità
di scoprire che quelle esperienze che noi abbiamo significato, si possono
vivere e raccontare in modi nuovi e imprevisti - anche dentro di noi -
e che hanno aspetti insospettati e in definitiva non si lasciano catturare
da nessuna lingua, forse perché sono quelle esperienze che ci introducono
alla parola. Ma le riconosceremo? O ci perderemo in un mondo ridiventato
opaco e sordo? Le riconosceremo, io dico, in forza di una competenza simbolica,
quella delle relazioni fra donne, che non dipende dal possesso di una
lingua determinata. Tocca a noi che abbiamo questa competenza, l'imparare
la lingua degli altri.
Le molte figure che tu evochi per rappresentare quello che è successo
con il femminismo, portarsele integralmente dietro sono un ingombro, secondo
me, e forse anche un impedimento a incontrare e a riconoscere, lì
davanti a noi, quello che noi stesse abbiamo contribuito a trasformare.
In altri termini, siamo dopo la fine del patriarcato? Esattamente dove,
tra la confusione e i salti di gioia?
Non mi sento
di rispondere staticamente e oggettivamente. Se ci sono relazioni tra
donne e se c'è politica delle donne, dico che il patriarcato è
finito e mi pare di fare un'affermazione tautologica. Considero sbagliato
dare un valore scientifico, cioè statico e oggettivo, alle teorie
femministe del patriarcato. Erano teorie politiche e come tali, fino ad
un certo punto, hanno avuto valore. Poi sono diventate l'albergo del risentimento
femminile. Rispetto al patriarcato (che non va confuso con ogni e qualsiasi
prevaricazione degli uomini sulle donne) il femminismo opera un disfieri,
disfare la maglia per avere filo per nuove tessiture, che comprendano
la libertà femminile.
Torno sull'uso del dopo e del post, che ricorre nelle tue domande ma senza
simpatia, mi pare. Disfiamolo, per esempio pensando che c'è anche
un prefemminismo e intendo quel movimento di convocare il passato al presente,
che è stata una mossa decisiva per non cadere nell'emancipazionismo.
Può suonare strano, ma ci sono giovani donne che si avvicinano
a me da prefemministe: ovviamente loro si trovano, rispetto a me, nel
futuro, ma la porta che trovano aperta è quella della mia giovinezza
e da lì passano, alcune con scelta consapevole. Trovo che così
si forma un disegno di percorsi inanellati molto più significativo
di quello lineare che fa la freccia del tempo.
E in un
sguardo d'insieme, come vedi la partita aperta in tutti questi anni, tra
parità e differenza sessuale? Mi sembra una domanda pertinente
alla proposta della "lingua corrente". Penso che si chiami "avvocato"
una donna prima di tutto per la forza simbolica della parità. Poi,
sono d'accordo con te, anche in questo si manifesta la reale differenza
sessuale.
La vedo esattamente
come la vedi tu. Parità e diritti sono lingua corrente ed è
in questa lingua che parlano anche le disuguaglianze, i soprusi, i privilegi.
Come anche la differenza sessuale.
Bia Sarasini
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