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maggio 2009
Prendere
la parola pubblicamente è un atto politico
di Maria Cristina Mecenero
FPrendere
la parola pubblicamente è un atto politico. Un potente atto politico.
So che qualcuna, qualcuno, arrivata all'aggettivo politico avrà
fatto un balzo all'indietro e, dati i tempi, oltre che aspettarselo, c'è
anche da comprenderlo e solidarizzare. E allora subito spiego che intendo
"politico" nel senso originario di questa parola: connesso con
i motivi o le vicende della vita pubblica. Connesso, legato, dipendente,
unito: siamo unite a ciò che capita anche sulla scena parlamentare
e se la maggioranza di governo, come è accaduto alla fine di ottobre
2008, promulga una legge che stabilisce una nuova governance della scuola,
noi siamo implicate due volte, la prima come cittadine, la seconda come
maestre. La legge 169 ci sta chiedendo di partecipare a un nuovo assetto
di scuola primaria. Per essere più precise, ci obbliga, dato che
una legge corrisponde a un dovere. Ciò che è capitato per
la scuola primaria - e cioè un cambiamento deciso dall'alto, senza
avere interpellato le esperte del settore, ovvero noi che ci lavoriamo,
senza avere consultato la comunità pedagogica - sta capitando in
altri ambiti, nelle scuole dell'infanzia comunali di Verona, per esempio,
che l'amministrazione ha ipotizzato nel mese di marzo 2009 di privatizzare,
senza alcuna consultazione dei genitori, e cioè la cittadinanza,
e delle maestre, e cioè la "manovalanza". E nella scuola
dell'infanzia comunale di Milano, in cui dall'anno prossimo potrebbero
non essere più garantite le compresenze. A livello ministeriale
la richiesta è di innalzare il numero di alunni per sezione e di
accorciare l'orario del servizio, in tutti gli ordini di scuola. Fin qui
lo stato delle cose, per ragioni di cassa, finanze in crisi, dicono.
E noi? A partire da settembre 2008, quando lentamente, ma fin da subito,
è cominciata la mobilitazione, le maestre hanno agito. Ci sono
maestre che hanno scritto sui giornali, ai dirigenti, al ministro, al
Presidente della Repubblica. Ce ne sono state altre che hanno raccontato
nelle assemblee con i genitori - raccontato con il cuore in mano, direbbe
qualcuno che le ha sentite e che è rimasto colpito, e ha commentato:
non si sente mai parlare così della scuola primaria. Raccontavano
con quel loro linguaggio che non è intellettuale, non è
accademico, non è neanche gergo, perché anni di esperienza
con le bambine e i bambini insegnano a dire con semplicità cose
grandi e complesse, porgendole affettuosamente. Una comunicazione efficace,
grazie anche all'impegno messo verso quella che è stata recepita
come una chiamata a cui rispondere: fare arrivare il senso di un'esperienza
che da anni si fa, facciamo, e che non è conosciuta, no, e lo abbiamo
capito bene adesso che madri e padri hanno ammesso: "Non avevamo
compreso". Non avevano inteso, loro, non avevamo spiegato, noi, certe
esperienze. E, per esempio, tra queste, le compresenze, momenti che permettono
la scuola attiva e l'individualizzazione dell'insegnamento, e che disegnano,
insieme ad altro, il grande orizzonte della condivisione della responsabilità
con altre insegnanti di una stessa classe o sezione.
In questi mesi tra noi c'è stata chi parlava nelle strade, con
la gente che incontrava nel quartiere, con il panettiere (e anche all'impiegato
di banca, alla farmacista) al quale consegnava, pure, un testo scritto
di proprio pugno, in cui spiegava perché non condivideva l'idea
del maestro unico, perché non voleva non tanto un cambiamento nella
scuola, ma quel cambiamento prospettato. Che presagisce una scuola ben
diversa da quella a cui aveva dedicato energie e passione. C'è
chi, intanto, chiedeva ai vicini di casa e ai conoscenti di vedere un
film-documentario, "L'amore che non scordo" (TvDays, 2008),
girato proprio su quelle esperienze che la legge non avrebbe più
garantito. Se trovava sostenitori di quella che è stata chiamata
impropriamente Riforma Gelmini, parlava e continuava lo scambio anche
tramite mail. Senza arrabbiarsi e senza demordere: imprestava il dvd del
film, ascoltava i pareri, argomentava, lo ricollocava.
L'azione più politica si realizza nel discorso: è una delle
pensatrici più grandi del '900 a dirlo, Hannah Arendt (Vita activa.
La condizione umana, Bompiani, Milano, 1991), la quale ci segnala che
"trovare le parole opportune al momento opportuno, indipendentemente
da quanto esse vogliano informare o comunicare, significa agire"
(pp. 20). Ecco, allora, sottolineiamo questo: chi ha preso parola in questi
mesi, chi lo farà nei prossimi, sta compiendo un'azione politica,
per un desiderio, che cioè qualcosa che ha in comune con altre,
altri - una certa idea di scuola, una certa idea di relazione con l'infanzia
- sia duraturo, permanga nella nostra società e continui a essere
condiviso. Siamo sempre di più a credere al valore che ha avuto
- e ha - stare in una ricerca di parole, dialogo, comunicazione, e, al
contrario, al pericolo che corriamo ogni volta che finiamo per essere
più realiste del re, politiche senza volerlo, e applichiamo ciò
che ci viene richiesto, pensando che tutto sia già stato deciso,
detto, prescritto. E invece non lo è mai del tutto, altrimenti
sarebbe come dire che il mondo, la società, la vita è arrivata
ad assumere una forma fissa, uguale e unica per il resto del tempo.
" (
) la realtà è sempre affidata alle parole
e ai rapporti fra i viventi come un tessuto al telaio, e noi stiamo costantemente
facendola o disfacendola a seconda di come siamo fra noi e del linguaggio
che parliamo" (Al mercato della felicità, Mondadori, Milano,
2009, pag. 37) scrive la filosofa Luisa Muraro, che suggerisce di non
fare la mossa sbagliata di misurare il proprio desiderio con il "reale
realizzato". Il reale, infatti, ci ricorda l'autrice, non si esaurisce
mai nella realtà che viene rappresentata, ma presuppone sempre
il possibile e l'impossibile. A chi si occupa di accompagnare la crescita,
la prospettiva dischiusa da una simile visione non è sconosciuta,
infatti l'apprendimento, l'evoluzione del sapere e dell'essere, si giocano
dentro questo territorio (non si sa mai cosa fiorirà, da ciò
che coltiviamo nelle relazioni educative, come fiorirà e quando).
Si può agire politicamente in prima persona e indipendentemente
dai politici di professione, senza avere come riferimento schieramenti
o partiti, da un lato, e senza essere passive esecutrici dall'altro: è
questo uno dei nodi che va ridiscusso, rilanciato. Possiamo abitare la
nostra funzione pubblica, consapevolmente e con coraggio. Manuela, una
collega, ha scritto: "Ripensando alla mia personale relazione con
i genitori, ricordo alcune esperienze particolarmente significative. La
prima è riferita agli anni in cui ho lavorato alla scuola Montessori
di Milano, dove ogni mese i genitori avevano un'opportunità di
assistere a una ordinaria giornata scolastica dei loro figli. La scuola
si apriva all'utenza dalle ore 9 alle ore 15 e 30. Le mamme e i papà
potevano entrare in tutte le classi della scuola ed osservare le diverse
attività. I piccoli gesti quotidiani, le sollecitazioni comuni,
le stimolazioni dell'ambiente, le relazioni tra bimbi e con gli adulti
che di loro si occupavano quotidianamente, provocavano uno sguardo, a
volte meravigliato, sul valore dell'esperienza scolastica delle bambine
e dei bambini. Il riconoscimento, l'apprezzamento, anche la gratitudine
erano effetti assicurati da un'iniziativa coraggiosa, e anche molto semplice,
della scuola montessoriana. Sono sicura che quei genitori avrebbero difeso
la "loro" scuola con passione se qualcuno avesse osato minarne
la qualità".
Lavorare per ciò in cui si crede, richiede fatica, lo sa bene chi
lavora con l'infanzia. C'è però una fatica ulteriore, a
cui non possiamo sottrarci, che nel diffuso senso comune si pensa evitabile
e, anzi, provoca rabbia il fatto di essere costrette a dedicarvi energia:
dare senso, condividere il senso delle cose che facciamo con la comunità
dei genitori, degli adulti che si interessano di scuola, delle insegnanti
stesse, cioè fra noi colleghe di una stessa scuola e con altre
più o meno vicine. Eppure non abbiamo scampo, il senso non è
mai dato una volta per tutte e ciò che è stato conquistato
non lo è per sempre, ci sono guadagni in bilico che spetta anche
a noi aiutare a permanere: qualsiasi cosa facciamo o sperimentiamo può
avere un significato solo nella misura lo si condivide.
Dare parola alle maestre, stare loro vicino e fare sì che il terreno
da cui si attinge per pensare e modificare le scuole sia quello delle
donne, e degli uomini, che lavorano nelle istituzioni scolastiche insieme
a quello dei bambini e delle bambine: è soprattutto attraverso
questa chiave che può passare il cambiamento della politica istituzionale
scolastica. Per ora non è una postura delle istituzioni stare in
ascolto. E abbiamo ben chiaro che la questione - che è poi questione
dell'infanzia (quali investimenti di amore e di cura stanno facendo da
anni i nostri politici, di ogni schieramento, per le bambine e i bambini?)
e della comunità di adulti-insegnanti che si fanno carico dell'infanzia
(e quali mosse per sostenere e aiutare chi lavora con loro?) - non è
veramente stata mai affrontata in questi mesi in un dibattito di valore
e collettivo.
Noi, gruppo di insegnanti della primaria che si è costituito come
redazione, siamo volute partire da chi i piedi nel piatto ce li ha, e
come: "La parola alle maestre", infatti, è il nome che
abbiamo dato a un'iniziativa pubblica, attraverso un invito a tutte le
maestre della scuola primaria e della scuola d'infanzia che ne avevano
desiderio, a scrivere lettere e articoli a partire da sé e dalla
propria esperienza costruita negli anni, lavorando insieme. I testi vengono
pubblicati in un sito, http://www.forumscuole.it/parola-alle-maestre.
A ottobre scrivevamo: "Non siamo abituate a prendere parola nelle
grandi assemblee. Per lo più siamo donne timide e riservate e molte
di noi non hanno nemmeno completa consapevolezza di quanto di straordinario
fanno ogni giorno. Ma le politiche di questo governo e la nostra consuetudine
al dialogo e alla collaborazione ci hanno spinto ad agire in prima persona.
C'è un nuovo sentire che emerge: siamo fiere e orgogliose di quello
che abbiamo realizzato in anni e anni vissuti nella scuola e siamo determinate
a non lasciarcelo strappare. Abbiamo ricevuto tantissime lettere e siamo
molto contente, dello sforzo di parola di ciascuna di noi per dire e testimoniare
il nostro impegno civile, umano e culturale per la scuola di tutti e per
tutti".
E' di questi tempi, nel nostro paese, avere poco senso della prospettiva
e nessuna capacità di leggere i segnali che ci arrivano dall'ambiente,
che sia quello naturale o quello sociale, non fa differenza. Nessun senso
della prospettiva, nessuna capacità di leggere il reale: sono queste
due mancanze che quando entrano in scena in educazione, ma non solo, generano
preoccupazione. E a ragione.
Così, è evidente a qualcuno, non a tutti, che se si sottrae
terreno di una parte dell'abitato, ciò che è continguo può
improvvisamente sprofondare: siamo connessi, una farfalla sbatte le ali
qua, e di là cosa succede? Chi fa politica dovrebbe saperlo più
di tutti gli altri, eppure, in questi nostri tempi, nuovi e disordinarti,
capita che a saperlo sia più la società civile, o per lo
meno una parte, che chi sta in posizioni di potere. C'è per esempio
una maestra che, nel sito, scrive: "Di disagio, estraneità,
isolamento, debolezze sociali, la scuola attraverso l'impegno personale
di tante e tanti insegnanti si è presa cura, con risultati a volte
eccellenti, a volte no, e quale sarebbe l'alternativa? In Italia a parte
qualche gruppo di matrice cattolica, chi altro andrà a riempire
quel'tempo' che il Governo vuole sottrarre alla scuola? Il bidello? La
neolaureata assunta dalle cooperative, così viene pagata meno?
Nella scuola dove insegno ci siamo occupati di tanti problemi, avendo
alunni da un Istituto, dal campo nomadi, da centri d'accoglienza. Forse
non abbiamo fatto abbastanza, eppure senza quelle dighe (fragili? forti?)
con cui abbiamo tentato di arginare le emergenze, esse sarebbero ora più
gravi. Certo i tagli porteranno velocemente entrate allo Stato, ma quanto
costerà poi rimediare a questioni abbandonate a sé stesse
e che non si sistemeranno da sole? Non paghiamo già provvedimenti
precedentemente presi per mettere subito una toppa e lasciare ai posteri
di curarsi della falla? La società va in pezzi, e la presa in carico
di questa rovina continueremo a rinviarla come un'eredità molesta
di cui nessuno vuole assumersi il peso? (
)Non sento mai parlare
però (eppure ne ho conosciuti tanti) di tutta quella parte, nemmeno
così sparuta, che esercita questo mestiere per passione, facendosi
molte ore gratis et amore dei, occupandosi di quartieri degradati, togliendo
i ragazzi dalla strada, contrastando la malavita, mostrando un'alternativa
e battendosi tutta la vita proprio contro le cose di cui poi, e ingiustamente,
viene accusata. Quanto il Governo vuole tagliare andrebbe invece potenziato:
contrastare proprio nella scuola la semplificazione, il pensiero unico,
quell'anestesia colorata che sono i programmi televisivi, mostrare una
postura alternativa a quella supina, passiva, che dopo forma il gregge,
il branco, far fiorire la curiosità che è libertà,
vastità di pensiero. Forse noi insegnanti non l'abbiamo fatto abbastanza,
ma chi altro in Italia l'ha fatto?".
Le parole delle tante maestre che hanno scritto in questi mesi per dire
che non erano d'accordo con l'idea del maestro unico, dell'abolizione
delle compresenze, delle classi ponte, sono parole di una lingua che tiene
insieme vita e pensiero, affetto e ricerca. Scrive Stefania: "Da
23 anni sono una maestra elementare, da tre ho iniziato il lungo percorso
di adozione e forse, tra poco, sarò anche mamma. Probabilmente
il bambino o la bambina che entrerà nella nostra famiglia sarà
già grande e frequenterà la scuola, parlerà un'altra
lingua e il colore della sua pelle sarà diverso dal nostro. (
)
Ora penso alla scuola che potrebbe trovare e prevale la preoccupazione
e il timore che possa venir meno la carica emotiva presente nella spontaneità
del primo incontro e nell'autenticità del primo contatto. Insieme
alla sua immagino la solitudine di tanti bambini che arrivano da un altrove;
penso che lui o lei, oltre agli ostacoli che dovrà superare per
accettare due nuovi genitori, si troverà in un ambiente che sottolinea
a tutti i costi ciò che è diverso, senza valorizzare ciò
che è comune: l'essere bambini che guardano ciò che li circonda,
fiduciosi che qualcuno li possa accompagnare".
Scrivere le nostre ragioni è agire. Bisogna approfittare di questo
momento e dire ciò che sappiamo della scuola, dei bisogni delle
bambine e dei bambini. Noi lo sappiamo di più dei politici e anche
degli esperti perché viviamo accanto all'infanzia da tempo e abbiamo
dedicato alla relazione con essa pensiero e energia. Su questa rivista
l'editoriale di dicembre 2008, intitolato "Contro le maestre, contro
le madri, contro le bambine e i bambini. Una riforma contro l'opera femminile",
è a firma di una maestra della scuola dell'infanzia, Laura Forlin:
editori e giornalisti che ci lasciano spazio stanno agendo anch'essi per
la scuola che vogliamo, dobbiamo averlo chiaro e sentire che queste vicinanze
sono preziose, vanno riconosciute e fatte entrare in risonanza con i gesti
dei genitori che stanno inventando e organizzando occasioni di festa,
protesta e riflessione sul mondo dell'educazione.
Per molte è più facile narrare oralmente, alcune la sanno
fare con arte, per altre è una sfida e un desiderio scrivere: è
importante ora avere come bussola che attraverso il linguaggio possiamo
dare luce a ciò in cui crediamo e a ciò che abbiamo imparato
dall'infanzia. L'esperienza non basta, dice Muraro, "bisogna averne
l'idea, altrimenti la diamo via per niente; e neanche l'idea basta, bisogna
tradurla in pratica di vita, farla diventare usanza (
) (pag. 9)".
Se non esageriamo il potere del potere (pag. 24) - il potere delle istituzioni,
del ministero, del dirigente scolastico - e se introduciamo nel gioco
degli scambi di idee, il nostro sapere attraverso gesti, parole, stiamo
già salvando le nostre realtà dal caos e dalla prospettiva
della ripetitività senza speranze. E poi chiediamo, chiediamo a
gran voce di dibattere alla giusta altezza il cambiamento della scuola;
scrive Vita Cosentino: "L'altro nodo politico è che le maestre
non possono essere lasciate sole: ci vogliono mediazioni sempre nuove
se si vuole custodire questo tesoro da loro creato per la società
tutta" ("C'è di meglio che tirare bulloni", n. 88,
marzo 2009, "Via Dogana", pag. 6).
Concludo con le parole di un'anonima collega che ci ha scritto; non ha
voluto dire il suo nome, ma ha voluto dire il suo pensiero. Noi che l'abbiamo
raccolto ora diciamo che è sottoscritto da molte di noi, le maestre
di questa perturbata, e perturbante società italiana:
"In realtà, e per riassumere, siamo quelle che vi hanno insegnato
a scrivere e a leggere. Quelle che sono stati spinte verso la diversità,
in trincea - e sia benedetto il Signore - quando ancora gli "altrimenti
abili" erano definiti handicappati. Quelle che gli stranieri li hanno
alfabetizzati fin dal giorno dopo il loro arrivo. (
) Quelle che
non hanno potuto stare a guardare ma sono state trascinate dietro, accanto,
a volte avanti dai cambiamenti della società. Io sono stata maestra
unica, ho fatto il doposcuola, il tempo pieno, le attività integrative,
il modulo, l'insegnante prevalente
Ho valutato con numeri, lettere,
annotazioni e commenti. Dai ministri che hanno l'età degli ex-alunni
voglio rispetto, considerazione e ascolto perché nel rispetto della
storia della scuola c'è il rispetto della storia del paese e della
sua cultura. Non siamo tutti "comunisti", noi maestre. E' un
falso elettorale, un pregiudizio, una notizia generica, maligna e approssimativa.
Intellettualmente disonesta. Abbiamo "servito" sotto ministri
per lo più democristiani, in una struttura rigida che induce all'obbedienza
e alla mediazione ben oltre le consuetudini del "mondo". Ma
siamo vigili e vive, non abituate a raccontarci, ma attente alle sfumature.
Vediamo molto, sappiamo molto delle storie quotidiane delle famiglie e
della gente. Abbiamo contribuito a "fare gli italiani", non
contribuiremo a disfarli".
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