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Teramo, 9 maggio 2003 Convegno
di Teramo: "Futuro senza guerre - costruiamo insieme" PACE È
DIALOGO o LE VOCI SCOMODE Questo mio intervento consiste in due elementi: in primo luogo, vi vorrei raccontare della difficoltà di gente come me, che si oppone al governo israeliano, di far sentire le loro voci all'interno della società israeliana ma anche, molto spesso, in quella ebraica nelle varie parti del mondo. Noi rappresentiamo le voci che fanno sentire gli israeliani e gli ebrei "scomodi". Il nostro tentativo di far vedere loro quello che essi si rifiutano di vedere porta a uno scontro abbastanza forte. E da qui voglio arrivare al mio secondo punto: la mancanza del dialogo tra israeliani ed ebrei stessi, il rifiuto di ascoltare le voci scomode, è all'origine della difficoltà degli israeliani ad ascoltare i "veri altri", i palestinesi. Magari è qui che possiamo trovare un po' di speranza: se riusciamo a portare avanti un dialogo tra gli ebrei e gli israeliani stessi, forse questo potrà spingere un dialogo tra i due popoli che ne hanno bisogno. E quindi,
comincio. Io ho un problema: non posso più esprimere liberamente
la mia opinione su quello che sta succedendo, soprattutto perché
quest'opinione non appoggia il governo israeliano o il "popolo israeliano".
Per questo motivo gli ebrei e gli israeliani della diaspora hanno il diritto di esprimere la loro opinione nei confronti di Israele, siano esse positive o negative. So benissimo che essere lontana da Israele e dal clima di pericolo e terrore "renda la critica più facile", come mi è stato spesso detto. Ma in realtà, credo fermamente che essere lontani da Israele (nel mio caso dal 1999) e dalla trappola della paura e dell'odio, mi abbia permesso di formulare una prospettiva diversa. Una prospettiva - e vorrei enfatizzare questo punto - che non ha intaccato la mia identità di ebrea o di israeliana (dopo tutto è quello che sono e quindi lo abbraccio di buon grado). Invece, credo che io abbia avuto la possibilità di formare le mie idee politiche, che non sono necessariamente filo-palestinesi (come potrei essere definita o bollata da molti israeliani), ma più filo-umani. Questa umanità, inutile dirlo, include sia israeliani che palestinesi. Credete che sia facile per me vedere ciò che sta succedendo alla società israeliana? Quella che è stata la "mia società" fino a poco tempo fa. Credete che io sia contenta di vedere che il paese stia soffrendo della più grande crisi economica e sociale della sua storia? Svegliatevi! Le critiche di persone come me sono critiche rivolte al governo, che per qualche ragione ha deciso di trascinarci tutti verso il baratro. Per qualche fervente religioso messianico, che è riuscito a manipolare le vostre più profonde e spaventose paure e a risvegliare "la mentalità del ghetto" dimenticata da molto tempo. Sono più che sicura che sia stata questa paura, questa mentalità del ghetto che ha fatto vincere le elezioni a Sharon. Non voglio che questo sia un saggio apologetico. Non voglio chiedere scusa per l'opinione che ho scelto di coltivare ed esprimere in questo messaggio. Ma credo che gli israeliani debbano accettare e rispettare il fatto che noi abbiamo il diritto di parlare, anche quando questo vuol dire criticare pesantemente il governo israeliano. Io allora, cosa posso fare, dal mio piccolo spazio nel mondo, per salvare il sogno di coesistenza tra israeliani e palestinesi? Di certo non tanto. Ma avrei un punto di partenza dal quale iniziare, un punto che credo sia stato (è tuttora e lo sarà in futuro) la base fondamentale per lo sviluppo del rapporto, che sia basato sulla fiducia, l'aiuto reciproco e la solidarietà; e questa base è il "dialogo" e lo scambio faccia a faccia. È proprio il "dialogare" che ha cambiato la mia vita e il mio punto di vista sul conflitto e sulla pace della quale tutti parlano. Il mio primo incontro con "veri" palestinesi (non quelli che gli israeliani vedono ogni giorno in televisione, i politici da una parte e i terroristi, o guerriglieri se volete, dall'altra) avvenne durante il mio terzo anno di università, durante una serie di incontri sponsorizzati dal "Truman Institute for Peace" e organizzati dall'Università ebraica assieme all'Università palestinese di Gerusalemme, Al-Quds, diretta dal Dottor Sari Nusseibeh. Gli incontri ebbero luogo in un Hotel di Gerusalemme Est [quartiere palestinese della città vecchia n.d.c.]. Ogni incontro cominciava con una lezione su un argomento (riguardante il conflitto), seguito da un dibattito e poi da una cena. Devo ammettere che la cena era la parte più divertente e importante della serata (e non perché mangiavamo gratis), ma perché era durante le cene che avevo più possibilità di parlare di cose di tutti i giorni con i palestinesi, studenti proprio come me. In questo modo ho scoperto l'essere umano dietro i titoli dei giornali. Comunque, la svolta decisiva della mia vita fu quando partecipai a due seminari della durata di tre giorni ciascuno, organizzati dalla "School of Peace" di Neve Shalom (letteralmente vuol dire Oasi della Pace, e in Arabo - Wahat El-Salam - una comunità rara in Israele composta di famiglie ebree e arabe). Questi due weekend mi permisero di incontrare dei palestinesi in un contesto più profondo e personale al di fuori dall'ambito accademico. Recentemente ho letto un articolo sul "Jerusalem Post" che descriveva l'incontro tra insegnanti palestinesi ed israeliani in questi ultimi tempi. Il modo in cui quell'incontro veniva descritto sul giornale e i sentimenti espressi sia dagli israeliani che dai palestinesi mi sembravano molto familiari, anche se bisogna dire che questo incontro ha avuto luogo in un contesto politico molto più teso e con cattivi sentimenti, mentre io ho avuto l'opportunità di partecipare a questo genere di incontri e di dialogo durante gli anni di "pace". L'articolo iniziava dicendo che "era la prima volta che loro (gli israeliani) incontravano dei palestinesi che erano alla loro pari, professionalmente e socialmente. Per molti palestinesi, invece, era la prima volta che incontravano ebrei israeliani senza divisa militare". Infatti questi incontri, per gli insegnanti, ma posso dire anche nella mia esperienza, riuscivano a creare una sensazione di eguaglianza. A Neve Shalom non c'erano occupanti e occupati (nel senso letterale della parola) nelle classi, ma solamente due gruppi di persone che provavano ad andare d'accordo. Non sto dicendo che durante questi due weekend non vi erano momenti difficili. In effetti ce ne sono stati alcuni e non soltanto quando si simulavano i negoziati di pace, ma anche nei gruppi uni-nazionali (dove israeliani e palestinesi discutevano tra di loro) vi erano complicazioni. Erano domande che toccavano questioni emotive come il senso di colpa collettivo, la vergogna, il cercare di capire chi è il colpevole e nello stesso tempo tentare di capire le paure dell'altro che uscivano continuamente. La cosa importante non era il mettersi d'accordo su chi avesse torto o su chi si dovesse vergognare, ma il fatto che queste questioni potevano essere discusse apertamente. Abbiamo ascoltato noi stessi e abbiamo controllato le nostre paure e preoccupazioni e - cosa più importante - abbiamo ascoltato "l'altro". Allo stesso tempo rimaneva la questione pratica e politica del raggiungimento di un accordo - accettato all'unanimità - che doveva essere risolto. Non era affatto un compito facile e non sono nemmeno sicura che alla fine fossimo stati tutti d'accordo sul risultato finale. Ciònonostante e considerando il fatto che avevamo avuto così poco tempo a disposizione, sono più che certa che un accordo sarebbe stato raggiunto con il consenso di tutti i partecipanti. Comunque, quello che voglio dire è che l'enorme rilevanza di quei weekend era senza ombra di dubbio il lato umano. Erano le facce, i sorrisi, la rabbia, la timidezza, e la sofferenza che mi hanno permesso di attribuire ai palestinesi un volto umano. Erano vulnerabili, pieni di paure e di domande proprio come noi. Allora, chiederete, qual è il significato di questi incontri e di questo dialogo per il futuro? E come è possibile portare un cambiamento attraverso il dialogo? Torno alla domanda e ai problemi che menzionavo all'inizio: il problema grande degli israeliani è che si rifiutano di ascoltare. È forse possibile che un israeliano stia ad ascoltare un palestinese quando si rifiuta di ascoltare un israeliano con una opinione diversa? Il dialogo esiste purtroppo solo tra chi è gia d'accordo, Gush Shalom parla con "Jewish Voice for Peace" e "Donne in Nero" parlano con "Ebrei contro l'occupazione". Quello che vorrei fare è seminare i semi del dialogo con gente che non è necessariamente d'accordo con me, o meglio, con gente che si rifiuta di darmi l'opportunità di esprimere la mia opinione o di ascoltarmi. Mi rendo conto che questo aspetto può sembrare marginale, ma aprire il dialogo tra israeliani ed ebrei in generale e accettare la legittimità dell'opinione del "altro" potrebbe facilitare il dialogo con l'"altro" concreto: il palestinese. La mia esperienza personale e il mio incontro con "l'altro" è stata una vera svolta; mi ha aperto interamente un nuovo concetto di pace. Pace non è solo "Free Trade Zones" [aree di libero scambio commerciale n.d.c.], pace non è nemmeno niente più terrorismo, o niente più stato di guerra. Pace è coesistenza che permette alla gente di vivere con dignità. Pace è ascoltare e non delegittimare, anche se quello che dice "l'altro" ti fa sentire un po' scomodo e non a tuo agio. Pace è accettare che anche "l'altro" ha sentimenti ed è intelligente abbastanza per avere una visione politica sul mondo. Pace è dialogo. |