"Una Città", gennaio 2012

RICORDIAMO ADELE MANZI
mancata alla fine di dicembre 2011, con l'intervista che le avevamo fatto nel 2007 sulla sua esperienza trentennale nei campi profughi in Libano, con quell'idea, portata avanti tenacemente, di far lavorare le donne.
http://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=1606

UNA CITTÀ n. 149 / 2007 Giugno-Luglio

Intervista ad Adele Manzi
realizzata da Barbara Bertoncin

DOVE AVREI VOLUTO NASCERE...
La giovinezza e gli studi in Italia e poi l'incontro con un'associazione nata sulla scia della decolonizzazione della Chiesa, quindi la partenza per il Libano e più di 30 anni nei campi profughi palestinesi con un'idea fissa: far lavorare le donne... Intervista a Adele Manzi.

Adele Manzi, co-fondatrice del Najdeh, organizzazione non governativa nata nel 1977 che opera nei campi profughi palestinesi, ha lavorato a lungo in Siria e in Libano. Oggi vive a Milano.

Sono nata a Balangero, in provincia di Torino. Mio papà, laureato in ingegneria, subito dopo la prima guerra mondiale, aveva trovato lavoro lì come direttore di una fabbrica di viti. Siamo nati tutti e cinque a Balangero, poi la mamma è morta e in seguito ci siamo trasferiti a Torino e poi a Milano. Le radici comunque sono milanesi, il mio bisnonno, Isidoro Bianchi, un noto avvocato, era di Vimercate, e i nonni paterni avevano una drogheria in via Amedei, di qui forse la mia attitudine al commercio. Mi sono laureata a vent'anni, all'Università Cattolica, durante la guerra -era il 1943 - e ho avuto la fortuna di laurearmi con Ezio Franceschini. Forse l'unica cosa che mi è restata dell'università è un certo rigore scientifico. Ancora oggi quando vado a un gruppo e mi danno un testo senza referenza, reagisco male… Dopo la laurea ho insegnato tre anni prima a Magenta poi a Milano; con degli amici avevamo anche fondato una scuola serale alla Manzoni, il preside ci aveva concesso delle aule, insegnavamo a chi non aveva fatto la terza media; ancora non c'erano le 150 ore…
Fino a che non ho lasciato tutto. Tra l'altro mio fratello era stato prigioniero in Germania per ventidue mesi, è stato l'8 settembre che lo hanno portato via, e il suo gemello Nino, che invece era piuttosto vagabondo, avrebbe voluto fare il partigiano poi invece non ce l'ha fatta perché uccidere qualcuno… e poi c'è stato il grande choc della morte di mio cugino, che è uno dei 23 milanesi trucidati a Fossoli, assieme alle altre 44 vittime del massacro. Anche mio padre era morto improvvisamente nel 1942.
Insomma credo che all'origine della mia scelta ci sia stata anche una forte spinta alla fuga. Quando mi hanno detto che c'era la possibilità di fare la governante e che addirittura avrei guadagnato di più che a insegnare sono andata un anno in Svizzera in una simpatica famiglia dove mi occupavo di Françoise, una bimba di 6 anni.
Ero dunque a Losanna quando ricevetti da Padre Stefano Bianchi dei depliant di presentazione delle Ausiliarie Laiche delle Missioni (Alm). Lui era stato il cappellano delle ragazze durante gli anni che avevo passato alla Cattolica e, durante la mia assenza dall'Italia, aveva incontrato a Milano Yvonne Pancelet, la fondatrice di questa organizzazione. Era il 1947, se ricordo bene…
L'Alm era nata in Belgio nel '37, era un'esperienza di avanguardia. Quando ci entrai io si era in piena guerra fredda, '50 e '51 per cui volevano mandare una equipe in America. Ricordo che io non ci volevo andare, piangevo, piangevo. Alla fine sono stata inviata in Medio Oriente, prima in Libano per studiare l'arabo, poi a Damasco per creare un ostello di studentesse universitarie. Negli anni a seguire, anche dopo essere stata trasferita in Libano, ho continuato a frequentare Damasco: oggi le ragazze portano quasi tutte il foulard all'islamica, invece in quegli anni, '53-54, mentre ero iscritta come uditrice libera all'università, al corso di letteratura, l'unica ragazza che aveva il velo, un velo grigio, la ricordo come una sorta di suora, con il bel visino ovale incorniciato… ecco, ce n'era una sola su tutte le ragazze del primo anno del corso.
Ho ancora una foto interessante di quei giorni. Appena arrivata avevo trovato un letto nell'ospedale delle suore salesiane. Lì avevano degli stanzoni vuoti, che affittavano a studentesse universitarie. Un giorno le studentesse che avevo conosciuto mi hanno invitato a fare un picnic e c'è questa foto che per me è storica: un gruppo di ragazze e ragazzi, forse più ragazze che ragazzi, e nessuna è velata.
Allora si usavano invece molto i foulard, al massimo con sotto una specie di veletta di tessuto leggerissimo, che le ragazze potevano abbassare sugli occhi girando nei suq. C'era poi una scaltrezza, ma anche un sentimento leggero, nel capire quando era opportuno metterlo.

L'associazione Ausiliarie Laiche nelle Missioni successivamente si era chiamata Fraternità Internazionale (Afi), presto infatti si era aperta una discussione sull'ambiguità del termine "laico" e comunque la stessa espressione "missione" nel mondo arabo non si adopera; noi stessi avevamo sviluppato tutta una spiritualità che non era volta alla conversione, era uno spirito molto bello. Dal punto di vista religioso eravamo integrate nella chiesa greco-cattolica, che si rivelò in seguito uno sbaglio, ma allora si credeva che fosse una chiesa ponte. Ad ogni modo, partecipando alla liturgia bizantina, eravamo entrate un po' nella spiritualità ortodossa, in cui c'è molta più libertà. Avevamo aperto un piccolo pensionato per le studentesse che venivano da lontano, chiuso nel 1958 in concomitanza con la costruzione della città universitaria, che prevedeva tutta una serie di strutture.
Una delle studentesse che avevo conosciuto era così diventata direttrice del primo ostello per le studentesse. Un edificio enorme: sette piani. Mi raccontava di ragazze originarie di regioni veramente depresse, con famiglie con sette tra figli e figlie, che grazie a quella sistemazione riuscivano a completare gli studi di medicina, perché costava quasi niente, loro poi si portavano tutto da casa, marmellate, olive, latticini, ecc.
Successivamente feci un'esperienza nel villaggio cristiano di Bassir, a sud di Damasco, in un'area molto povera, dove era stato fondato un centro medico sociale. Ci trovavamo a due chilometri dalla strada internazionale che da Damasco andava ad Amman e da Amman a Gerusalemme. Lì ho sperimentato un po' la vita dei contadini del mondo arabo. Nonostante la miseria, l'artigianato era molto sviluppato; le donne facevano delle cose bellissime, soprattutto delle cinture molto particolari.
E' stato a quel punto che mi è balenata l'idea di far lavorare le donne dei villaggi; avevo cominciato con due vedove del villaggio rimaste senza lavoro, che poi vendevano alle beduine. Poi sono arrivate le cinture di plastica, e così i loro manufatti bellissimi, artistici, dai colori vivi, di lana filata, tessuta, tinta da loro in casa non si sono fatti più.
Lì comunque la situazione era drammatica e psicologicamente per me divenne intollerabile. Dovetti lasciare.

Una delle esperienze fondamentali della mia vita è stata quella di lavorare in Libano. Dal '66, per una decina di anni, ho lavorato con il segretariato Ecumenico per la gioventù e gli studenti del Medio Oriente. Bisogna sapere che gli studenti cristiani del mondo avevano sentito il bisogno di federarsi, (nella World Student Cristian Federation) prima che fosse fondato il Consiglio Mondiale delle chiese, e questo lo trovo molto significativo. Così, questa federazione, assieme al World Council of Churchies aveva creato dei segretariati regionali per coordinare un lavoro studentesco giovanile. Il Libano era stato scelto per il Medio Oriente e la persona che ha fondato questo segretariato si chiama Gabriel Habib, un laico ortodosso che aveva lavorato già in Tunisia con i protestanti durante la guerra in un centro di accoglienza per i profughi.
Io allora non avevo alcuna formazione politica, ero di istinto di sinistra e allora lì mi sono trovata bene … E poi il Libano era interessantissimo, soprattutto per gli ambienti che frequentavo, le biblioteche, bellissime...
Comunque, questo ragazzo, Gaby Habib, molto giovane, era davvero brillante. Nelle riunioni vigeva sempre una disciplina che facilitava il dialogo, niente a che vedere con gli incontri a cui ho partecipato in Italia. Io ero incaricata di fare un bollettino di notizie sulle chiese cristiane (ortodosse, cattoliche ed evangeliche) nel mondo arabo. Si chiamava Al Montada (luogo di incontro) e prestava particolare attenzione ai movimenti giovanili e alla presa di coscienza delle Chiese della loro responsabilità sociale. Conoscendo l'arabo curavo l'emeroteca. Grazie a questo bollettino ricevevamo testimonianze dai vari paesi, anche dall'Iraq; io poi le più interessanti le passavo al responsabile.
Poi nel '67 arrivò la guerra. Fu una scossa molto profonda anche per gli arabi cristiani, soprattutto per gli ortodossi, che sono molto nazionalisti. Parecchi studenti che frequentavano il segretariato facevano parte del Movimento della Gioventù Ortodossa, nato in Libano allo scopo di organizzare la chiesa ortodossa. Erano giovani colti e impegnati, molti studiavano all'università americana a due passi dal nostro segretariato.
Nel '68 alla riunione estiva del Movimento della Gioventù Ortodossa decisero che era giunto il momento di mobilitarsi anche sul piano sociale e così iniziarono a occuparsi del mondo arabo e in particolare del problema palestinese. Erano giovani di sinistra, con tutti i limiti e i difetti che caratterizzarono i movimenti di quegli anni, in particolare, a volte, una certa superficialità.
E' stato il nostro centro, il segretariato Ecumenico, che nel '70, cinque anni prima che scoppiasse la guerra civile in Libano, ha avuto l'occasione di ospitare, assieme al giornale francese Témoignage Chrétien, la prima Conferenza Mondiale dei Cristiani per la Palestina. Così ci siamo lanciati in questa avventura. La grande riunione finale si tenne a Beirut, nella grande sala dell'Unesco, distrutta dagli israeliani nell'82 e poi ricostruita. In quello stesso giorno i falangisti organizzavano una grande manifestazione, c'erano già venti di guerra.
Io intanto mi stavo stancando di lavorare alle scartoffie. Fu allora che cominciò un'altra esperienza bellissima: ospitai in casa dei giovani palestinesi. A Zarka, una grande cittadina a trenta chilometri da Amman, ora ingrandita dai profughi palestinesi, le mie compagne dell'Afi avevano fondato un centro medico sociale; lì lavorava una donna palestinese, originaria di Kalkilia, che faceva la domestica per mantenere i figli. Questi tuttavia uno dopo l'altro si erano impegnati nella resistenza palestinese e quando ci fu il Settembre nero furono costretti a fuggire dalla Giordania.
Io già la conoscevo. Prima della guerra del '67, infatti, d'estate andavamo spesso a Gerusalemme in jeep, era una passeggiata. Facevamo tappa a Zarka, proprio da loro, e poi il giorno dopo si andava a Amman, in Palestina. Così quando mi hanno detto che i suoi figli erano in difficoltà ho pensato che, essendo sola, potevo ben riceverli in casa.
Questa è una cosa che ha cambiato la mia vita: mi sono trovata a contatto con questi due giovani poveri oltre ogni immaginazione, anche loro sconvolti, che tuttavia avevano questa dignità, questa autonomia anche, ricordo che si preparavano da mangiare da soli, mi pagavano sempre l'affitto, correttissimi... E poi raccontavano, raccontavano, raccontavano. Se solo avessi potuto registrare tutto quello che sentii, della famiglia, del padre, messo in prigione perché si era rivoltato contro gli inglesi durante il Mandato.
Bachir dei due era il più giovane; abbiamo festeggiato i diciotto anni in casa nostra; l'altro doveva averne venti. Erano fedayn, combattenti per la libertà. C'era anche un terzo fratello, più grande, che però non dormiva a casa mia, veniva a volte in visita; era l'autista di uno dei capi del partito a cui apparteneva. Voleva sposarsi, aveva anche una fidanzata che, tuttavia, mentre lui era stato messo in prigione per due settimane, l'aveva lasciato. Così si era rassegnato a fare secondo tradizione. Aveva telefonato alla madre, che aveva combinato con una ragazza brava e carina di cui conosceva i genitori. Aveva arrangiato tutto per corrispondenza, il matrimonio fu celebrato a casa nostra. Ricordo che noi siamo andati a dormire da un'amica francese, Madeleine, l'Ausiliaria responsabile del centro di Zarka, che ci ha lasciato l'appartamento, così che gli sposini avessero un posto dove trascorrere la prima notte di nozze…
Durante l'assedio israeliano dell'estate del 1982, avevo ospitato a casa mia fino a diciassette persone. Io avevo trovato rifugio presso delle suore, una stanza in una specie di seminterrato dove erano state accolte anche due vedove palestinesi con i rispettivi bambini,
Mentre Beirut era assediata, il segretariato dove ho lavorato, era diventato un centro di incontro di persone interessanti, ma non solo: ci passava la gente più strana. Ho conosciuto anche Jean Genet, ricordo che era venuto lì a trovare Gaby Habib, e c'era stato il coprifuoco ma era mattina, erano le dieci di mattina e lui non poteva raggiungere il suo albergo, così lo hanno mandato da me e io non sapevo neanche chi fosse. Abbiamo avuto una lunga conversazione e sono sicura che fu interessantissima, ma ora non ricordo niente, e la sera non mi sono messa a scrivere che cosa abbiamo detto… Così oggi mi resta l'immagine di quest'uomo, dagli occhi grandi e celesti, aperti, come quelli di un bambino…
Nel frattempo i ragazzi che ospitavo mi avevano fatto conoscere il movimento. Già nel '69 c'era stata la liberazione dei campi: avevano estromesso i gendarmi, ed era entrata la polizia palestinese. Questo fino all'82 quando i campi sono rimasti completamente non difesi.
Si pensa sempre all'Olp associandolo ad armi e kefia, ma non è così. Certo, ormai la kefia ha assunto un tale significato che almeno qui bisognerebbe proprio evitare di portarla. Dopo un incontro sui rifugiati palestinesi che avevo tenuto in una parrocchia di Milano, una donna israeliana mi aveva avvicinato e, tra l'altro, mi aveva anche confessato come la vista di una kefia la turbasse, aveva fatto proprio un gesto di orrore.
Comunque, allora l'Olp promuoveva una quantità incredibile di attività a scopo sociale; questo non bisogna dimenticarlo. C'erano anche fabbriche di confezioni. Insomma davano anche lavoro.
Io andai a Sidone, dove, in collegamento con Beirut, ebbi la fortuna di continuare a insegnare il lavoro di ricamo alle donne e alle ragazze che insistevano per lavorare. Ricordo un'impresa, si chiamava Samed, che vuol dire 'quello che tiene duro, quello che resiste', nel senso non della resistenza, ma della tenacia interiore, che aveva venticinque negozi in giro per il mondo; una produzione di artigianato palestinese, soprattutto ricami ma non solo, che veniva diffusa attraverso i vari punti vendita… tutto finito.

Sono vissuta in Libano dal '62 fino al '99. In Israele però non sono mai andata. L'ultima volta che sono stata diciamo in Palestina, era ancora sotto la Giordania. Era l'inverno del '66 e vi abbiamo trascorso Natale e capodanno. Giusto un anno prima della Guerra dei sei giorni, durante la quale Israele occupò tutta la riva occidentale del Giordano.
Allora era tutto più semplice: si partiva al mattino da Beirut e si arrivava a Gerusalemme con un servizio di taxi. Ricordo che si arrivava a Amman, e poi si cambiava. L'ultima volta, quando siamo arrivati sulle alture che dominano il Mar Nero, c'era un tramonto stupendo. Gerusalemme era nascosta dietro le montagne, ma lo spettacolo era davvero suggestivo. Già allora mi ero imposta di non mettere mai più piede in Israele. Non immaginavo che degli israeliani avrei dovuto conoscere proprio la parte peggiore, quelli venuti ad assediare Beirut.

Nel '77, assieme ad alcune donne libanesi e palestinesi, avevamo fondato l'associazione Najdeh, che significa "soccorso" con l'idea di portare nei campi profughi un po' di doposcuola (dalla scuola elementare fino alla terza media si occupa l'Unrwa), ma soprattutto formazione professionale. In particolare l'obiettivo era quello di coinvolgere le donne in piccole imprese produttive.
Quando ci fu il massacro di Sabra e Chatila, io ero a Sidone dove appunto mi occupavo di far rinascere questi laboratori per il ricamo dopo l'uragano dell'invasione israeliana. L'abbiamo saputo all'indomani, il 15 o il 16 settembre, perché gli israeliani avevano messo il coprifuoco; ricordo di aver visto sul giornale una fotografia del massacro e poi questi camion che si muovevano da Israele verso Beirut. Comunque appena possibile sono andata a Beirut. Arrivata ho subito chiesto notizie delle nostre colleghe di Chatila e mi hanno detto che erano tutte sane e salve. Intanto erano arrivati tutti i giornalisti…
Io però avevo uno scopo prioritario: dovevo occuparmi dei nuovi rifugiati. Insomma, forse semplicemente non me la sono sentita, ma non ho voluto andare a vedere. Anche quando c'erano dei bombardamenti, c'era sempre qualcuno che correva in ospedale a vedere i feriti. Io, conoscendomi, ho sempre pensato di dover prima tutelare il mio equilibrio. Ricordo una ragazza marocchina venuta per aiutarci che era dovuta andare a riconoscere un amico francese all'obitorio. Ecco, lei non ce l'ha fatta poi a rimanere.
Lavorando nei campi profughi ci si imbatte intanto nella incredibile tenacia dei palestinesi. Dopo il massacro, Leila Shahid, allora rappresentate dell'Olp a Parigi, una donna straordinaria, di famiglia borghese, è andata lì e si è data anima e corpo.
Sono riuscita a tornare a Sidone prima che il cerchio attorno a Beirut si stringesse, c'erano bombardamenti, mancava l'elettricità. Comunque io sono riuscita ad arrivare, tra l'altro avevo una bella sommetta da spendere. I primi giorni li ho passati a prendere contatti e a cercare di capire cosa si poteva fare, dopodiché mi sono detta: qui la prima cosa è ridare lavoro alle donne.
Era stato il suggerimento di una carissima amica libanese, sposa di un ingegnere palestinese, ad aprirmi gli occhi: "No, Adele, non andare alla Croce Rossa a cercare pacchi da distribuire, fai lavorare le donne!". Io intanto avevo scoperto che accanto a dove alloggiavo c'era una scuola letteralmente invasa dai rifugiati. Ricordo che un giorno mi sono decisa e mi sono presentata chiedendo: "Ci sono delle donne che hanno voglia di ricamare?". C'era una ragazza nel cortile e delle donne nel ballatoio, tutte si sono messe a guardarmi… Poi sono scese con il modello delle cose che stavano ricamando.
E allora ho cominciato ad andare in giro a comprare il materiale e poi avevamo quella scuola come punto di distribuzione. Mi avevano concesso una stanza vuota; fu un successo oltre ogni aspettativa: a un certo punto ho dovuto mettere un banco per impedire alle donne di entrare. E non era una distribuzione di viveri, era una distribuzione di lavoro!
Eppure non ce n'è una che mi abbia mai chiesto una scatola di latte in polvere, niente, era questo lo spirito con cui si cercava di reagire a tutte le tragedie.

Francamente non ho mai avuto nostalgia dell'Italia. Forse è nella mia natura. D'altra parte, lo spirito della nostra associazione era proprio quello di partire rompendo tutti i ponti. Purtroppo ancora oggi il missionario è erede di un passato coloniale spaventoso. Il fondatore della nostra nostra associazione, il Padre Vincent Lebbe, era rimasto scandalizzato dal vedere in Cina le cattedrali cattoliche sorte nel deserto di situazioni drammatiche. Noi insomma nasciamo sulla scia della decolonizzazione della chiesa cattolica. Sono partita per il Medio Oriente nel 1950, e la prima volta che sono tornata in Italia era il '56, erano già passati sei anni. Da allora presi a tornare ogni due o tre anni, prendendo il biglietto dei trentacinque giorni andata e ritorno. Sono tornata definitivamente per il settantesimo compleanno di mia sorella, la Pasqua del '99. E qualche giorno dopo è scoppiata la guerra in Kossovo. Io, in genere non guardo la televisione, ma allora ero ospite di una mia amica che ovviamente aveva la tv. Fu tremendo: alla vista di queste masse, queste donne con i loro foulard, con i bambini, i vecchi, per me era come assistere all'esodo dei palestinesi. E così mi ci sono subito buttata, Donne in nero, Associazione per la Pace… E' stato quasi un moto compulsivo. Il giorno di Pasqua, siccome per andare da mia sorella dovevo passare per il Duomo per cambiare la metro, mi sono fermata e ho visto delle manifestazioni… E lì è scattato qualcosa: l'idea di poter fare qualcosa di attivo… Mi sono unita alle donne che "volantinavano".
Ho sempre pensato che il Medio Oriente fosse il posto dove avrei voluto nascere. In fondo quello trascorso lì resta per me il periodo più felice, perché ho potuto dare libera espressione a quella che in fondo era proprio una sorta di vocazione: occuparsi dei più poveri, dei più sfortunati, aiutandoli però a rendersi autonomi, a sfruttare le proprie risorse.
Paradossalmente arrivare qui in un momento tanto tragico, con delle emergenze in corso, la guerra, i kosovari, ha fatto sì che lo stacco fosse meno traumatico...
E comunque ho trovato subito una nuova impresa in cui imbarcarmi: vendo ricami palestinesi, e non come beneficenza, ma come affermazione della cultura di un popolo oppresso.