| Dicembre
2011
Almanya La mia famiglia va in Germania Scenografia
e regia: Yasemin e Nesrin Samdereli, Germania 2010 di
Elisabeth Jankowski Un
film di buoni sentimenti che sono veramente buoni. Le due sorelle registe ripercorrono
la storia della famiglia. La narratrice e nipote dell'emigrante Hüseyin racconta
al più giovane, nato da madre tedesca e dal figlio, già nato in
Germania, di Fatma e Hüseyin, la storia della famiglia perché non
rimanga una macchia bianca sulla loro carta dei sentimenti. Canan, la nipote,
studentessa di 22 anni e narratrice, è incinta ma il padre di suo figlio
non è né turco né tedesco, è uno studente inglese:
il processo di mescolamento non si ferma una volta accettata l'apertura ad altre
culture. Prima Hüseyin e poi anche Fatma e i primi tre figli erano arrivati
a Dortmund nella Ruhr. Nel 1961, l'anno della costruzione del muro, quando cessa
il flusso di rifugiati dall'est, vengono firmati dei trattati tra la Germania
e la Turchia per far arrivare un gran numero di lavoratori. La Ruhr, oggi luogo
di parchi, musei, teatri, festival e siti di archeologia industriale, ha un tasso
altissimo di disoccupati perché la famosa industria pesante che l'aveva
resa ricca e popolosa, meltingpot alla tedesca, è diventata un nostalgico
soggetto da film. Le due sorelle Samdereli, nate loro stesse a Dortmund sulla
Ruhr (Yasemin ha studiato cinema all'accademia di Monaco), mettono in scena una
commedia per prendere in giro, a mio avviso, quel conflitto, principalmente maschile,
che si sviluppa attorno alla tematica dell'identità. Infatti il piccolo
protagonista Cenk Yilmaz mette in moto tutto il racconto che serve a spiegare
perché lui non sa rispondere alla domanda se è turco o tedesco.
Non viene scelto né dai compagni turchi né da quelli tedeschi per
giocare nella squadra di calcio della scuola. E lui non sa da quale parte stare.
Non conosce nemmeno più il turco mentre i figli della coppia e la nipote
più grande parlano ancora la lingua d'origine. Una storia che si muove
sull'asse maschile, dal nipote al nonno - per fortuna molto pacifici e simpatici,
cioé dei patriarchi buoni, come scrive la storica rivista femminista "Emma"-.
Gli uomini determinano le azioni, mentre le donne in gran numero presenti nel
film muovono gli uomini verso una conclusione che rovescia il loro chiodo fisso
che è appunto l'identità e il ritorno a casa vincitore. Il film
narra la storia di Hüseyin, quando riesce a ricongiungersi con la moglie
e i primi tre figli. Sono loro, la bambina e i due bambini, che guardano questo
mondo straniero con i loro occhi. Sulle prime hanno grande paura della Germania
perché la gente del piccolo paese dell'Anatolia gli aveva raccontato che
in Germania la gente mangia carne umana, beve sangue ed è molto sporca.
Specialmente il Cristo sofferente sulla croce incute terrore ai bambini. Ma i
figli di Hüseyin e Fatma si abituano presto e vogliono festeggiare anche
loro il Natale come i tedeschi. Sono sedotti da alcune cose autentiche della cultura
locale. Difatti, è solo la seduzione che può far desiderare l'integrazione
e la relazione con gli altri. La Germania ha fatto molta fatica a essere un
polo d'attrazione che entusiasma gli immigrati perché la cultura tedesca
era essa stessa scossa fin dalle fondamenta dal proprio passato violento ed era
solamente occupata a rielaborare le proprie colpe. Non era capace, in quel momento,
ad offrire gioia, amore e curiosità per lo straniero e non aveva più
un rapporto sereno con la propria lingua e la propria cultura. Gli immigrati erano
solamente attratti dal Miracolo economico della ricostruzione postbellica e non
desideravano trovarvi una nuova patria. Oggi invece gli stati europei chiedono
agli immigrati di accettare come legge la cultura del paese d'arrivo, un fatto
deprecabile ma non perché sia sbagliato chiedere adesione al paese dove
si vive ma perché questa legge e questo dibattito dimostrano tutto il fallimento
della nostra cultura: non è riuscita a convincere che i nostri valori siano
preferibili. Il nonno e sua moglie, comunque, all'inizio del film, ottengono
il passaporto tedesco. La figura del nonno, pronto a integrarsi al suo arrivo
ma ora assolutamente disinteressato ad acquisire la nazionalità tedesca,
è in contrasto con il desiderio della moglie che ha voluto e ottenuto caparbiamente
questo documento. Sono le donne che, come dice una ricerca inglese, creano, nella
migrazione, i legami e sono loro che hanno meno fantasmi per la testa perché
la loro "terra" da sempre sono le relazioni ma non i luoghi e le costituzioni.
Si possono portare molti esempi presi dalla letteratura e dal cinema. Racconto
quello di mia nonna polacca che è tornata solo una volta a casa in Polonia
dove doveva restare per un mese ma dopo dieci giorni era già di nuovo in
Germania, a casa sua, e non ha più preso in mano la valigia. È nell'emigrazione
che le donne cercano di liberarsi del patriarcato anche se restano tutta la vita
dedite alla cultura e lingua d'origine. Belle le scene delle valigie. Le donne
e i bambini trasportano sempre il loro mondo, se è un mondo amato, dall'altra
parte, per lasciare traccia dei propri sentimenti. Non sono le cose in sé
che entrano in valigia, per esempio un vaso di marmellata, ma ciò che gli
oggetti trasportano di significato. Tessono dei legami con le cose che passano
da una parte all'altra e viceversa. Anche in modo drammatico, come nel film di
Fatih Akin "Ai confini del paradiso" dove si scambiano delle salme fra
la Turchia e la Germania. In Italia la problematica ha molti tratti in comune
con quella in Germania. Basti pensare al caso di Hina Saleem. Le ragazze, alcune
figlie di origine mussulmana, sono combattute tra veline e velate ma comunque
la stragrande maggioranza è attratta dagli aspetti più gioiosi e
democratici della società italiana. Amano gli studi e gli amici coetanei.
Ma la storia del film è contemporaneamente anche la storia di ognuno
degli attori di origine turca. Vedat Erincin, il nonno, un patriarca simpatico,
è arrivato in Germania nel 1978 per studiare all'università. Nel
frattempo è diventato attore rinomato e cofondatore del teatro Wupper-Theater
di Wuppertal. Anche Lilay Huser (la nonna) era venuta per studiare a Krefeld e
assieme a Vedat ha fondato il Wupper-Theater. Oggi è un'attrice famosa
in Germania. La comunità turca ha visto una grande affermazione nell'ambito
della televisione e del cinema, non per ultimo con il famoso regista Fatih Akin,
vincitore di un premio alla Berlinale. Nel mondo dello spettacolo si può
parlare di un'integrazione riuscita. Famosissima è l'attrice Sibel Kekilli,
già protagonista della "Sposa turca" di Fatih Akin, che però
rappresenta la faccia conflittuale della convivenza fra le due culture. Principalmente
personaggio ribelle in tutti i film dove fa l'attrice, si rivolta violentemente
contro la cultura dei genitori che non capiscono il suo desiderio di libertà
femminile e la puniscono, come nel film "Die Fremde", con la morte del
piccolo figlio. Sono i padri e i figli maschi che cercano di contenere il desiderio
delle figlie femmine di abbandonare la propria cultura d'origine, almeno così
la vedono loro. Anche se in verità questi personaggi femminili non vogliono
abbandonare la propria lingua e cultura e non vogliono, soprattutto, perdere i
propri legami e affetti, ma desiderano solamente amare, nel proprio padre, l'uomo
e non il patriarca. Il film dialoga fortemente con gli altri film sulla migrazione
nei quali sia donne che uomini sono disegnati con tratti alquanto violenti, soprattutto
i padri, nonni e fratelli. È il fratello maggiore che uccide il figlio
della sorella nella "Die Fremde" perché la famiglia non si debba
vergognare di fronte alla comunità degli immigrati. Le sorelle Samdereli
mettono in scena dei fratelli completamente diversi, il più piccolo è
quello più curioso e dolce e l'altro, il grassone, è un po' ingenuo
e lento. Non saranno certamente loro a estrarre il coltello per uccidere, anzi
i due fratelli, in eterno conflitto fra di loro, cercano di risolvere la relazione
fra loro. Alla fine come all'inizio, dormono nel letto assieme e cercano di sopportarsi
a vicenda. Le registe ci portano in un mondo meno drammatico, nel quale gli uomini
sono visti dalle donne con simpatia ma senza soggezione. Hanno davanti un futuro
di donne libere, libere soprattutto di mettersi in relazione con gli altri della
famiglia, come loro lo desiderano. E anche di diventare cancelliera della Germania.
Angela Merkel viene nominata varie volte e sembra quasi far parte della famiglia
allargata. Bellissima la parte finale del film quando al funerale del nonno
vediamo tutti i personaggi principali con davanti a loro la loro stessa figura
di 40 anni prima. Avvolgendosi su se stessa la trama riesce a portare alla soluzione
i conflitti individuali. Il ritorno alle origini è una specie di rinascita
dalla quale si torna più liberi di prima. Solo uno resta nel paese di origine.
Ormai separato dalla moglie e disoccupato ha bisogno di capire meglio chi è:
desidera costruire la casa del padre.
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