25
marzo 2011
LA
POLITICA DEL PIÙ DEBOLE IN REALTÀ È QUELLA DEL PIÙ
FORTE
di
Biagio Tinghino
Ciò
che accade in questi giorni in Libia mi impone una riflessione su una politica
che utilizza la forza e la violenza per risolvere, solo apparentemente, delle
controversie. Una politica che ha fallito su tutti i fronti. Da un lato un dittatore
sanguinario, fino a ieri "amico per interesse" dell'Italia, rifornito
di armi da tutti quei paesi che non hanno esitato a sostenere il sanguinario dittatore
Gheddafi pur d'avere in cambio rifornimenti di gas e di petrolio, dall'altro lato
una comunità internazionale, che utilizza lo schermo ormai debole della
"guerra umanitaria" per assicurarsi, mettendosi questa volta dalla parte
degli insorti, le importanti fonti energetiche. Uomini (nel senso di appartenenti
non solo al genere ma anche al pensiero maschile), da un lato e dall'altro della
"barricata", che non esitano ad uccidere civili indifesi, che non riescono
a vedere che dietro ogni bomba sganciata da sofisticati caccia c'è la distruzione
delle vite di donne e di uomini, di esperienze e di speranze.
Questo tipo di
politica registra, per l'ennesima volta, il proprio fallimento: umano e simbolico.
Viene messa in essere una politica debole, malgrado i muscoli che mostra,
incapace di tessere relazioni sincere e responsabili, a vantaggio di rapporti
finalizzati strumentalmente a tutelare gli interessi di un capitalismo spietato,
che non ci pensa due volte a perpetrare logiche di sterminio di vite umane e già
per questo, di per se stesso sconfitto dalla propria ferocia. Una politica che
utilizza la morte con la scusa di salvare delle vite (però D'Alema ci spiega
bonariamente che una cosa sono gli interventi militari, una cosa è la politica
che verrà dopo aver massacrato la popolazione libica
), che politica
è?
Una politica che bacia le mani al dittatore libico e poi bombarda
i civili
una politica che fa affari con la famiglia Bin Laden e poi scopre
che si trattava di un cattivo socio e ne fa pagare il conto a un'intera nazione
una politica, amica in armi del dittatore Saddam Hussein, che d'improvviso si
trasforma poi nel nemico distruttore
, può chiamarsi "politica"?
Per me e altre/i con cui elaboro, pratico e condivido una pratica (l'unica
che mi sembra rispecchi l'autentico significato di fare "polis"), densa
di rapporti, ascolto e attenzione a quanto di buono intorno accade e deve accadere,
il termine politica risuona alle nostre orecchie armoniosamente, come una musica
composta a più mani per il bene di chi la esegue, di chi partecipa e di
chi da essa riceve buone risonanze.
Nei prossimi giorni, avrei preferito passeggiare
nelle piazze della mia città, Catania, per goderne la vitalità e
la storia, per condividere momenti di spensieratezza. Purtroppo, invece, sarò
in piazza e nei luoghi di riflessione con le donne e gli uomini della Città
Felice, del gruppo "Uomini dalla differenza" e altri/e delle molte realtà
pacifiste catanesi, per manifestare la mia disapprovazione, il mio senso di disgusto
verso l'ennesima espressione fallica di un potere cieco e spietato, ma non solo!...
Sarò in piazza con la consapevolezza che ciò che deve essere messo
in discussione è il modo perverso di fare e intendere la politica. Mi troverò
e ci troveremo, per affermare ancora una volta "La Politica", non più
come sinonimo di imposizione, potere e violenza ma la mia-nostra politica che
parte invece dai nostri corpi e dai nostri desideri di uomini e di donne, dalla
riflessione di ognuna/o che si sente di costruire relazioni capaci di immaginare
e realizzare passo dopo passo, un futuro diverso e certamente POSSIBILE!!