31 Luglio
2009
La città dell'immota
manet sulla terra ballerina di Alessandra Di Vincenzo
''Ho impiegato molto tempo per riorganizzare i pensieri e le emozioni, profondamente
lesionati da un dolore che ancora oggi non riesco a contenere e ad elaborare.
Quella notte, quella terribile notte che il mondo intero ormai conosce, ha
deviato la mia vita, quella di tutti gli aquilani e quella di coloro che abitano
i tanti paesi limitrofi verso un qualcosa di totalmente differente da ciò
che era stata fino ad allora; ha inoculato in ognuno di noi un senso di incertezza
e di impotenza talmente devastanti da non riuscire ad avere neanche la capacità
di comprendere davvero ciò che ci era/ci è accaduto. Non avrei
mai pensato di dover affrontare un lutto personale e collettivo così grande;
è proprio vero che quando le disgrazie umane non ci coinvolgono direttamente
si può essere estremamente sensibili e solidali (ed anche ciò è
possibile soltanto se le idee di giustizia, che ci fanno stare dalla parte dei
deboli, nascono, crescono e maturano dentro di te, per diventare parte strutturale
del proprio io), ma non si può nella maniera più assoluta comprendere
- neanche lontanamente - ciò che prova chi le vive. Per inciso: al sig.
Travaglio e a tutti coloro che hanno definito il nostro un terremoto di "media
intensità", volendo con questo far apparire L'Aquila come una città
fatta di carta, dico che - non avendo vissuto ciò che abbiamo sentito e
vissuto noi sulla nostra pelle - varrebbe la pena quanto meno di documentarsi
in maniera più seria prima di emettere sentenze a buon mercato, a meno
che tali sentenze non siano il frutto, tutto italiano, della ricerca dello scandalo
e della strumentalizzazione a tutti i costi. Ma torno alle mie riflessioni.
Ho lasciato L'Aquila per molti anni, quando ero ancora in fasce, nonostante
l'abbia continuata a frequentare per legami familiari da parte materna. Sono tornata
a viverci da adulta, iscrivendomi all'Università e, successivamente, per
un ricongiungimento "definitivo" con le mie radici, attraverso i miei
genitori, che nel frattempo avevano deciso di porre lì una base solida
e duratura. Ho amato sempre L'Aquila per la sua estrema, seppur nascosta,
bellezza: una città da scoprire e riscoprire con meraviglia ogni giorno,
nei suoi vicoli, nelle sue piazze, nei suoi palazzi, nei suoi cortili e nei suoi
giardini, questi particolarmente e gelosamente tenuti nascosti alla vista umana.
Una città da osservare - come dicono giustamente in molti - sempre con
lo sguardo in su. L'ho aspramente criticata nel corso del tempo, per quell'indolenza
tipica di molti suoi cittadini, restii ad ogni presa di posizione - spesso anche
a loro stesso danno -, apparentemente insensibili ad ogni sollecitazione e testardamente
ancorati ad una vita senza troppi pensieri, caratteristiche che bene si affiancano
ormai a quelle, più in generale, italiane degli ultimi 30 anni. L'ho
sofferta, perché faticosa da vivere e da percorrere; e l'ho spesso mal
sopportata, per quel suo clima rigido e severo, a me affatto congeniale. L'ho,
soprattutto negli ultimi dieci anni, guardata con infinita tristezza; l'ho vista
lasciata colpevolmente sprofondare in un degrado progressivo che non meritava,
schiaffeggiata e ridotta a poco più di un paese maltrattato e violentato.
Ho pensato più volte di andarmene da questa città. Per la verità,
ho pensato - in un crescendo interiore continuo - di andarmene dall'Italia, da
questo paese piegato su se stesso, senza più alcuna coscienza sociale e
senza più memoria storica, in balia di una schiera di impresentabili, di
piduisti, di mafiosi, di sfruttatori, di fascisti, di fascistoidi e di conniventi.
E invece, sono rimasta a L'Aquila. Ho scelto, giorno dopo giorno, di restarci,
di non abbandonarla di nuovo. Ho scelto, a prescindere dai legami di affetti e
di lavoro che di fatto - gli uni in positivo, l'altro "perché ce l'hai
e non è facile rinunciarci" - mi impedivano di lasciarmi tutto alle
spalle con facilità, di continuare ad investire in qualche modo su questa
città. Così come hanno fatto altre persone, altri miei amici e altre
mie amiche che, nonostante tutte le difficoltà che il nostro territorio
ci ha da sempre riservato, hanno resistito con la loro presenza, dando ognuno
il proprio contributo per farla esistere ancora e, possibilmente, per renderla
migliore. Questa volta è stata la terra ad essere di una perfidia inaudita
(non che anche in questo caso non siano da ravvisarsi gravissime responsabilità
umane: vedi classificazione sismica dell'Aquila da 1 a 2; vedi Casa dello studente;
vedi Ospedale); ha azzerato, in poco meno di un minuto, le vite, le storie, i
ricordi, la città e interi paesi (dell'aquilano, non di tutto l'Abruzzo,
come i media si sono scatenati, in una incomprensibile gara di falsità,
a dire e a scrivere). E' vero, sapevamo - chi più, chi meno - che questa
nostra terra, all'incirca ogni tre secoli, da madre accogliente diventa crudele
matrigna. Una parentesi: mi sono sempre chiesta il vero senso di quell'Immota
Manet che campeggia sullo stemma cittadino. Ho pensato spesso che indicasse proprio
l'immobilità peculiare della sua gente mentre tutto intorno muta e si muove;
ed ho attribuito ad esso, ovviamente, un'accezione del tutto negativa. Ora, dopo
il disastro e ancor più alla luce di ciò che ci ha trasmesso la
storia dell'Aquila, credo che il significato più profondo sia da ricercare
nella infinita determinazione della città e del suo popolo a restare lì,
proprio lì, ricostruendo ogni volta con illimitata tenacia il tessuto urbano
e sociale che la terra su cui poggia destabilizza ciclicamente con estrema ferocia.
Dal 10 aprile sono in un albergo a Pescara, sfollata - insieme ad altre circa
30.000 persone - logisticamente e idealmente dai nostri luoghi e dal nostro tessuto
sociale, frantumato in migliaia di pezzi, distrutto come la "mia" amata
città. Poi, come in una sorta di accanimento terapeutico, l'8 giugno
ho perduto mio padre, che aveva lottato per anni, con caparbietà e rarissima
voglia di vivere, contro la sua malattia. Il terremoto, in qualche modo, ha fatto
cedere anche lui e L'Aquila ha perso un altro pezzo di storia. Nello stesso
giorno mi è stato tolto anche il lavoro, perché l'azienda in cui
350 donne e uomini (per non parlare delle diverse decine di persone che lì
dentro si sono succedute negli anni attraverso i più disparati contratti
a termine e che poi sono state, dalla prima all'ultima, gettate per strada - quando
non servivano più - senza tanti complimenti) hanno lavorato per quasi dieci
anni, investendo tutto su di essa, ha deciso di chiudere. Così, senza
alcuna remora. Senza la seppur minima volontà di trattare (per la verità,
mentre scrivo questi miei pensieri, viene tirata fuori dal cilindro aziendale
una "proposta" - se così può essere chiamata -: la richiesta
ai dipendenti, enunciata durante l'incontro con i sindacati a Roma presso il Ministero
dello Sviluppo il primo luglio e confermata senza recedere di un passo il 9 luglio
in un successivo e analogo incontro, di accettare il congelamento dell'anzianità
di servizio a tempo indeterminato, l'abolizione della "quattordicesima",
l'inquadramento dal 4° al 2° livello contrattuale e, di conseguenza, una
retribuzione notevolmente al di sotto di quella percepita fino ad aprile, che
era di circa 1.100 euro mensili; inoltre, la stessa azienda ha dichiarato che
tornerebbero a lavorare soltanto circa 150 persone e le restanti circa 200 resterebbero
in cassa integrazione fino al 31 dicembre 2009, data in cui verrà valutato
dai vertici aziendali se le commesse presenti potranno garantire la ripresa del
lavoro per tutti. Tutto ciò è stato rappresentato come condizione
necessaria affinché resti "aperta" la sede dell'Aquila). Senza
porsi affatto il problema di ciò che tale decisione avrebbe determinato
(ma è credibile che non se lo siano posto? O, più verosimilmente,
lo hanno fatto eccome, ma hanno approfittato proprio del disastro che ci ha colpiti
per "togliere delle tende" che già da anni minacciavano di togliere,
rendendoci la vita lavorativa tutt'altro che serena? E, paradossalmente, mentre
la Transcom le tende le vuole togliere, più di 20.000 aquilani nelle tende
ci sono stati messi e continuano ad alloggiarvi ormai da più di tre mesi,
con la prospettiva realistica di doverci restare ancora a lungo!): un altro terremoto,
devastante quanto quello operato dalla natura. L'Aquila non potrà ripartire
senza lavoro e le persone come me, che adesso più che mai vogliono tornare
lì, saranno costrette a superare una prova ancora più difficile
di quella che già il sisma ci ha regalato in un bel pacchetto con tanto
di fiocco. Ringrazio quanti, sulla costa, ci stanno dando la possibilità
- spesso con gentilezza e sensibilità partecipata - di recuperare le risorse
necessarie ad affrontare anni che saranno per tutti noi durissimi. Ma dovrò
tornare presto a L'Aquila. Resisterò per essa, per la sua gente e insieme
alla sua gente; vigilerò con attenzione e intransigenza affinché
nessuno squalo (con tutto il rispetto per la specie animale) pensi di farne il
proprio banchetto, per riaverla un giorno più bella di prima, socialmente
vivibile e, magari, finalmente apprezzata dentro e fuori le mura come merita;
lotterò insieme agli altri affinché proprio la ricostruzione, che
dovrà essere garantita al 100%, venga decisa dal basso attraverso la diretta
partecipazione degli aquilani e non da scelte calate dall'alto, subite passivamente
e che certamente non rispecchieranno le reali esigenze della popolazione e del
territorio. Forse è davvero questo il senso di Immota Manet: di una
città unica, fondata a tavolino e sorta su una terra strutturalmente ostile
e ballerina; di una città che, quasi contro ogni logica, vuole stare lì,
soltanto lì e per sempre lì. E intanto, mentre scrivo, la terra
continua inesorabilmente a tremare ed a lesionare palazzi, case, monumenti e animi
Alessandra Di Vincenzo
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