Verso Genova

Mi sono avvicinata ai temi della cosiddetta globalizzazione qualche anno fa, quando, con alcune amiche lessi il libro di Vandana Shiva "Sopravvivere allo sviluppo".
Con la sua ricerca approfondita e ricca di dati, da una prospettiva molto chiara, cioè quella di una scienziata indiana con profonde radici nella sua cultura, Vandana Shiva fa una critica della teoria del progresso e dei suoi paradigmi: la conoscenza scientifica moderna e lo sviluppo economico.
Quello che mi rimase in mano fu un senso di enorme distanza dalle forme di lotta contro il dominio del capitale occidentale che Vandana Shiva descrive, per esempio quella delle donne del movimento Chipko, che abbracciavano gli alberi della foresta per proteggerli. E, contestualmente alla distanza, un senso di impotenza su quello che io, nell'occidente evoluto, nel momento storico in cui vivevo, avrei potuto fare.
Avevo già incontrato il pensiero della differenza sessuale, che trovava rispondenza in me proprio per la denuncia dell'universalità del sapere e per l'intento di articolare un ordine simbolico segnato dall'esperienza femminile, in un intreccio indissolubile di pratica e di teoria. Qui trovavo finalmente una tensione verso l'unità di pensiero e cosa, e la consapevolezza che le modificazioni efficaci sono soprattutto quelle che quotidianamente operiamo nel luogo della nostra contingenza.
Sicuramente questo mi pacificava rispetto alle grandi questioni di cambiare l'intero mondo…
Ma quando questo movimento si è fatto conoscere al mondo per il modo in cui, con l'irrisione, ha messo in scacco il WTO e le multinazionali che rappresenta, io sono stata felice. Felice che fosse ancora possibile, che ci fosse una nuova spinta che, attraverso la "contestazione al biopotere globale sui corpi" (Ida Dominijanni 7-8) rilanciasse in modo radicale la domanda di senso della realtà, una domanda che ha chiamato diversi gruppi politici alla partecipazione attiva, senza il bisogno di partiti o gerarchie. Condivido con Sara questo sentire, e alcuni articoli della dispensa riprendono questa idea di felicità per il fatto che esista un movimento che vuole un mondo diverso (Vita Cosentino 14-8).
Io non faccio parte del movimento, nel senso che non ho partecipato ai gruppi che hanno lavorato in preparazione agli eventi di Genova, ma desidero restare in ascolto, e anche interloquire e mettermi in relazione con loro perché, come vedremo tra poco, credo che vi siano elementi nuovi che è bene siano visti e interrogati.

Manifestazione bramata, manifestazione detestata

Quanto al fatto di partecipare direttamente alla manifestazione di Genova c'è stato un elemento per me fondamentale (oltre allo scambio essenziale con Sara e gli amici con cui sono andata): questo movimento si muoveva al di fuori di una logica della rappresentanza (pensiamo sempre a Seattle, e poi i 300 mila di Genova non si sono mossi per Agnoletto o le tute bianche). Proprio per questo ero sicura che il mio corpo, assieme a quello di tutti gli altri, potesse costituire una grande obiezione, un ingombro, un'obiezione alle istituzioni sovranazionali, icone della rappresentanza e mediatrici delle istanze economiche dell'occidente capitalistico. Intendo il livello di sapienza dei corpi che significano la loro presenza in un luogo, e di questa presenza ingombrante fanno un'arma politica. Probabilmente è un pensiero ideologico, se non ingenuo. E questo, a posteriori, lo riconosco. Ma è dettato dal mio desiderio grandissimo di trovare una modalità di azione che sia efficace, utile a porre ben in evidenza, anche sulla scena pubblica, la mia obiezione al capitalismo. Un'azione che opponga un simbolo forte al simbolico della forza e del dominio.
Io credo che lo spazio occupato da quella moltitudine di corpi inermi fosse politica, il senso che ne doveva uscire era quello di un'opposizione data dalla presenza non violenta, che opponeva il simbolo del corpo inerme alla forza espressa dai capi degli stati ricchi, occidentali, capitalisti, militari, bellicosi.

Si vede chiaramente ora, con la guerra, la realtà di questo: davanti al colpo inferto ai simboli del capitalismo, da parte di uomini che sono stati pronti a morire, l'unica risposta che si è trovata sta comunque all'interno dell'immaginario della guerra. Per ristabilire un prestigio in declino si dà fiato alla volontà di potenza e di distruzione e si devasta brutalmente una popolazione già sconvolta da un regime dittatoriale.

Un altro motivo, che non vola alto, ma che è stato ed è ogni volta essenziale quando vado in manifestazione è il fatto che lo ritengo un importante momento di incontro e, secondo me, di relazionalità.
Io credo che vi siano forme della politica che si giocano su un piano più ampio rispetto al luogo della relazione duale, su un piano allargato, collettivo, sulla scena pubblica. La scena pubblica è, secondo me, il mondo delle relazioni allargate, il collettivo è il mondo delle relazioni possibili. E io ho il desiderio di mettermi in gioco anche lì.
Tra gli altri motivi che mi hanno spinta a partecipare a Genova c'è stato il ricordo di un incontro, qualche anno fa, con una donna algerina. Con il Gruppo Donne Brianza, invitammo e ospitammo una donna di Orano, che ci raccontò di come fosse importante per loro continuare a fare ogni gesto quotidiano (portare i figli a scuola, andare a lavorare, trovarsi a parlare ecc..), come ognuno di questi semplici gesti divenisse un'azione politica di contrapposizione al regime mortifero, ma di come fosse altrettanto importante uscire nelle piazze e segnare una presenza, per trarre forza dalla vicinanza fisica, per sostenere il desiderio di cambiamento.

Il nuovo e il vecchio del movimento

Quello che in realtà è successo è che la moltitudine inerme, perché era tale nel punto dove io mi trovavo, è stata massacrata dalla polizia, quindi siamo scappati - io personalmente sono scappata - il più lontano possibile da quel posto, divenuto il luogo di altri simboli.
Ma qui non vorrei che si usasse un'interpretazione semplificatoria di questo fatto, dicendo che era il naturale percorso di un evento, segnato dalla spontanea tendenza maschile a misurarsi su un terreno di scontro e di antagonismo.
Ritengo che questa interpretazione possa portare all'opposizione tra un simbolico maschile bellicista e un'essenza femminile che, naturalmente, è incline alla non-violenza. Tra gli scritti della dispensa troverete anche una lettera, pubblicata in internet, di una Black Bloc, che testimonia come tante giovani donne facciano parte di questo gruppo di protesta, la quale rivendica l'uso della violenza come forma di contestazione, operando uno spostamento semantico del termine violenza. Presenta anche le sue perplessità, legate comunque al conflitto tra i sessi: "odio profondamente l'utilizzo di un gergo pseudo-militare da parte dei miei compagni". Ma è estremamente chiara sul punto che il conflitto si debba giocare sul piano simbolico: "l'utilità di una tattica di protesta che prevede la distruzione della proprietà è limitata ma importante. Convoglia l'attenzione dei media sulla scena e manda un messaggio teso a dimostrare che quelle che appaiono come entità intoccabili, le grandi multinazionali, non lo sono. La gente … ha modo di vedere che un piccolo mattone, nelle mani di una persona motivata, può abbattere un muro simbolico".

Anche se ora, come dice la Klein nel suo articolo, "Dopo l'11 settembre, le tattiche basate sull'attacco - pur pacifico - di simboli del capitalismo si trovano in un paesaggio semiotico completamente trasformato. Gli attacchi a New York e a Washington sono stati atti orribili, ma anche atti di guerra simbolici, e come tali percepiti. … le Twin Towers non erano degli edifici qualsiasi bensì "i simboli del capitalismo americano".

C'è un altro motivo che mi vede lontana dall'interpretazione dei fatti di Genova unicamente come il teatro della virilità. Ed è il fatto che io c'ero, con un forte desiderio di esserci. E con me c'erano tante donne, amiche, compagne con cui ho condiviso e condivido importanti percorsi. Le donne c'erano, e il legame con il movimento femminil-femminista, già ampiamente detto, sta nella forma non gerarchica, a rete del movimento, ma anche in una lettura del mondo a partire dalla materialità della vita, che il processo economico di globalizzazione investe nella sua totalità. Sulla base di queste riflessioni, che ho scambiato con le amiche con le quali ho letto Vandana Shiva, che scambio con Sara e con molte altre, in questi scambi materiali, insomma, si costruiscono percorsi di riflessione che possono avere la piazza come momento di incontro e di contatto tra gruppi eterogenei. Per quanto riguarda questo momento della piazza, nei media è emersa solo la contrapposizione, la violenza, e questo è un problema. Ma anche a Davos e Seattle le manifestazioni hanno avuto una terribile repressione da parte della polizia, e, nonostante questo, vi abbiamo letto che qualcosa di nuovo stava accadendo. Quindi, come la pratica della differenza mi insegna, non vorrei fermarmi a ciò che i veicolatori di messaggi fanno passare, ma vorrei che si vedesse meglio quello che già c'era e quello che di nuovo è affiorato.
Per esempio, tutto il movimento di reazione ai fatti accaduti, non solo a Genova ma anche a quelli di settembre e della guerra, nella forma di autonarrazione. Nel suo scritto sul Paese delle donne, Anna Piccolini parla di un "riaccendersi di una passione politica, che da molto tempo era come sospesa". Io dico nella forma di presa di parola e di messa in discussione della propria soggettività, in relazione a ciò che (ci)accade, non tenendo fuori il soggetto narrante dal fatto narrato.
La presa di parola, che per le femministe era stato un momento di lotta e che aveva restituito loro la forza per fare, è oggi un dispositivo politico utilizzato da molte giovani donne ma anche da uomini. E tuttavia non basta, o meglio, è solo l'inizio.
Dobbiamo assolutamente registrare che internet (posta elettronica, siti, liste di discussione ecc.), in questo senso, è stato uno strumento fondamentale.
Non che io ignori i limiti di una contestazione di piazza, intesa come l'unica azione politica possibile, in risposta ad appelli astratti. Ma qui voglio sottolineare che, come diceva Sara, la piazza è solo un momento che segna la tappa di un percorso, iniziato con un lavoro di scambio e discussione, e può essere l'occasione di incontro e di tessitura di nuove relazioni. E poi volevo ricordare, come ha già fatto Sara, il piacere, l'eccitazione, la forza che provo a sentirmi insieme a molti altri che, pur nelle differenze di percorsi, hanno con
me un comune sentire, ed essere felice, ballare, correre…Si può dire, come mi è stato suggerito da Tiziana, "la vita nel suo massimo di ricettività".

Limiti e problemi

I limiti che ho visto nella manifestazione di Genova (per altre manifestazioni non è stato così) sono stati il perdersi delle relazioni vive, quelle che mi portano in piazza, e quelle che nella piazza vado cercando.
Le manifestazioni non sono il luogo privilegiato per una lotta politica, e questo non lo metto in dubbio. Ma l'esortazione a disertarle, pena la scomparsa dei dispositivi di azione politica che normalmente ci orientano nel mondo, si scontra con il mio desiderio di esserci. Io vado nel mondo, e mi muovo con la misura e la forza che mi viene dalle relazioni con le donne. In quella situazione, però, che a un certo punto è stata di massima costrizione, ho sentito il problema dell'efficacia di una pratica che in un contesto ristretto, familiare funziona, che nel rapporto giocato principalmente nella relazione duale funziona, mentre lì era impossibile si verificasse.
E' per questo motivo che sento in qualche modo non più rimandabile una riflessione sulle forme della politica che si giocano su una scena più ampia, sulla scena pubblica, collettiva, che non coincide necessariamente con la manifestazione. E' ciò che, in parte, è si è verificato dopo Genova, quando io e Sara abbiamo sentito l'urgenza di mettere in parole la nostra esperienza. Ritengo infatti che una delle ricadute concrete di questo rivolgersi a un contesto più ampio sia proprio la presa di parola, non il ritegno quando l'esterno, la scena ampia, contamina.

Parlavo di massima costrizione. A Genova ho provato un senso di mancanza totale di libertà. Una libertà di livello elementare, la libertà di un corpo che è presente e si può muovere, può camminare.
Io so (davvero con il corpo e le parole) che la libertà femminile è un fatto. Un fatto che è potuto accadere grazie al femminismo, ma che ora non è più in discussione. In realtà credo che di essa si debba ancora discutere, a partire da nuovi termini di riferimento. Io sono, mi sento una donna libera, nei rapporti affettivi e nel lavoro. Non ho da dimostrare una libertà che ormai costituisce il mio abito mentale. Questa libertà, tuttavia, si scontra con nuovi e diversi dispositivi di non-libertà, o di potere, rispetto ai quali la libertà guadagnata, solo faticosamente riesce ad opporre un'utile ed efficace resistenza. L'inevitabile senso di impotenza che da ciò scaturisce, che sento in me scaturire, mi induce a scivolare sul pericoloso crinale della rivendicazione dei diritti, con tutto ciò che può significare in termini di profonda contraddizione rispetto a quella che Tiziana, con una magnifica espressione, ha chiamato la "mia casa", che è la politica delle donne, di cui oggi, mi permetto di mostrare i lati in ombra.
Con ciò voglio dire che non intendo depotenziare, in una logica oppositiva, questa politica che è la mia casa. Ma credo che il pensiero rischi di involvere verso ripiegamenti che portano all'afasia, cosa di cui ho personalmente avuto esperienza, a Genova ma anche con i fatti che sono seguiti. Quello che mi ha lasciato il movimento delle donne si basa unicamente, e non è affatto poco, sulle relazioni e sul partire da me. Io da qui, se mi è consentito, vorrei partire per pensare ciò che ancora non è stato pensato, per non restare in un vuoto di pensiero e di pratiche.