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sole 24 ore - 22 giugno 2008
Vita da Nobel La Grazia
e il suo Angelo Dalle lettere inedite della Deledda all'influente
intellettuale De Gubernatis, infaticabile seduttore, emerge la figura di una scrittrice
ambiziosa e tenace - "Sono brutta, non so parlare né vestirmi. Non
m'importa nulla che tu qualche volta mi parli d'amore" Elisabetta Rasy
di
Elisabetta Rasy
Da un paese che definisce "tanto pittoresco quanto
disgraziato" una ragazza sconosciuta di poco più di vent'anni scrive
una lettera in cui si presenta a un "illustrissimo" - così lo
chiama - letterato cinquantenne che non ha mai visto. Con poche frasi, e senza
nessuna timidezza, disegna un autoritratto. Spirituale: "...attraverso il
circolo di montagne deserte e leggendarie che chiudono il mio orizzonte, sento
tutta la modernità della vita, dei tempi nuovi e dei nuovi ideali".
Materiale: "La mia vita è silenziosissima. Vivo in una casetta tranquilla
perduta in una piccola città che è poi un grosso villaggio".
Fisico: "Sono piccola, pallida e bruna...". E lancia un messaggio che
è insieme una richiesta di aiuto e un avvertimento: "Nessuno mi ha
mai aiutato, pochi mi hanno compreso...". Il letterato è l'eclettico
Angelo de Gubernatis, pioniere degli studi indologici in Italia, avventuroso viaggiatore,
fondatore di riviste, docente universitario e, oltre a tutto questo, infaticabile
seduttore. Lei è un'aspirante scrittrice sarda, che parla prevalentemente
in dialetto e non si è mai mossa da casa se non per andare a cavallo sui
monti che circondano Nuoro. Si chiama Grazia Deledda: in famiglia guardano con
preoccupazione alla sua mania di scrivere e con ancora maggiore preoccupazione
si domandano se troverà marito, non essendo né bella né ricca
né sottomessa. È il 1892: la ragazza e l'uomo continueranno a scriversi
per molti anni, fino a quando le parti si saranno invertite e sarà lei
l'illustrissima della situazione. Da tempo conosciuto e considerato una fonte
particolarmente importante per ricostruire la storia giovanile della scrittrice,
il carteggio Deledda-De Gubernatis si presenta ora in una forma nuova e per molti
aspetti più interessante. Sono state infatti ordinate e pubblicate un centinaio
di lettere che il professore, all'atto di consegnare le sue carte alla Biblioteca
Nazionale di Firenze, aveva accuratamente separate con l'indicazione che fossero
aperte e divulgate solo cinquant'anni dopo la sua morte. Lettere prevalentemente
ricevute dalla schiera di scrittrici, pedagogiste, modelle, dame di diversa condizione
che avevano costituito la sua privata corte d'amore, tra le quali anche Grazia,
che con l'astuzia e tenacia che abitano la sua irruenza giovanile riesce però
a ritagliarvisi un posto particolare: lei non vuole diventare l'amante del professore,
anzi, non ci tiene neppure a conoscerlo, invece vuole convincerlo, con mille seduzioni
verbali, a essere per lei un "padre ideale" e soprattutto l'interlocutore
dal quale ottenere quell'aiuto e quella comprensione che dai suoi non ha ricevuto.
Il professore non può che stare al gioco perché nelle sue tante
imprese galanti una giovane donna come Grazia non l'ha mai conosciuta. Ma anche
più di cent'anni dopo c'è qualcosa di sorprendente e irresistibile
nella storia che le lettere della ragazzetta sarda raccontano e che contrasta
con la grigia ufficialità nella quale è stata murata questa signora
delle lettere italiane che vinse, seconda donna dopo Selma Lagerlöf, il Premio
Nobel nel 1926 e le cui opere, già alla fine dell'Ottocento quando non
aveva ancora trent'anni, erano tradotte in tutto il mondo occidentale. La giovane
Grazia, infatti, non coltiva le civetterie della donna fin-de-siècle e
insieme è immune dalla modestia conformista delle ragazze perbene. Ha cominciato
a scrivere, e anche a pubblicare, ancora adolescente, ma quello che riversa sulla
pagina non è un grido del cuore, lo sfogo di una giovinetta sensibile e
appassionata. Quando mette via il libro dei conti della sua dissestata famiglia,
si dedica a letture non per signorine. Nella modesta casa rosa di Nuoro dove vive
con la madre che veste ancora in costume, le sorelle e i due fratelli, riesce
a procurarsi tutti gli autori della letteratura contemporanea non solo italiana:
il suo idolo è Tolstoj, e non solo un idolo, ma un modello. Lei vuole essere
il Tolstoj della Sardegna. Intanto segue la vita culturale, e lega a sé
De Gubernatis, che progetta una rivista di tradizioni popolari, proponendosi come
antropologa sul campo del folklore sardo. Nel corso della corrispondenza il rapporto
cambia: per richiesta del professore, che vuole assolutamente conquistare il cuore
- forse anche il corpo - della giovinetta, Grazia passa dal "lei" al
"voi" arrivando in breve tempo al "tu", ma sta attenta a ribadire
le sue posizioni. "Senza dubbio - gli scrive - è la mia originalità
che ti attira; tu senti che io sono diversa dalle altre ragazze che puoi aver
conosciuto fino ad ora". Mentre lotta con una difficile femminilità
("io sono brutta... per giunta non so parlare, non so vestirmi..."),
con le delusioni sentimentali ("non amo e non posso amare"), con i guai
familiari (un fratello alcolizzato e un altro in carcere), e anche contro le pretese
amorose di De Gubernatis ("Non m'importa nulla che tu, qualche volta, mi
parli d'amore"), Grazia non dimentica di essere ritenuta "la ragazza
più ambiziosa che esista in Sardegna" e fa di tutto per essere all'altezza
di questa reputazione. Il che significa dedicarsi anima e corpo alla letteratura
e insieme mantenere rapporti costanti con editori di varie città italiane,
stringere alleanze intellettuali, istruirsi, informarsi, proporre articoli sugli
scritti altrui e cercare recensioni per i propri, insomma non solo costruire un'opera,
ma edificare una carriera. Così, dalla sua posizione - personale e geografica
- eccentrica, Grazia assume una fisionomia spregiudicata, del tutto diversa da
quella del letterato dell'Italietta provinciale e soprattutto da quella languida
e affettata della scrittrice belle-époque. Il carteggio con De Gubernatis,
tra richieste d'aiuto e confessioni intime, è una sorta di romanzo di formazione
di questa "new woman" italiana intraprendente quanto le sue colleghe
aldilà delle Alpi e dell'oceano. E sorprendentemente sicura di sé:
nel 1896, alla vigilia della pubblicazione del romanzo che le avrebbe dato notorietà
nazionale, La via del male, scrive al suo mentore: "Ho la coscienza d'aver
fatto una cosa non sciocca, non nevrotica, non morbosa, come la maggior parte
dell'odierna produzione femminile italiana". 1Grazia Deledda, "Lettere
ad Angelo De Gubernatis (1892-1909)", a cura di Roberta Masini, Cuec-Centro
di studi filologici sardi, Cagliari, pagg. 440, € 22,00. |