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SOTTOSOPRA
GENNAIO 1989
UN
FILO DI FELICITA' L'avvenimento
della libertà femminile - il negativo nelle nostre
vite - frutto di una storia comune - la
felicità dell'indipendenza - la lingua-ragione
- Allontanarsi
per desiderio - La
prima dimensione - Lavoro
di fabbrica lavoro del pensiero - Fuori dalle geografie
maschili - Fonte
e principi di un nuovo diritto - attualità
del diritto femminile - la madre fonte
del diritto sessuato - Principi
fondanti del diritto femminile Dai
suoi inizi la politica delle donne ha mantenuto un vivo legame con il suo fondamento
soggettivo. Questo legame ha preso forme diverse, come la pratica dell'autocoscienza
o il criterio della verifica soggettiva (per cui una non sostiene per le altre
ciò che non giudica valido per sé) o, ancora, la regola del fare
politica a partire da sé. Dagli inizi, inoltre, abbiamo sperimentato che
la fedeltà alla verità soggettiva ci faceva avanzare in ogni senso,
anche nel senso di una maggiore forza nei rapporti sociali. Non però automaticamente.
Più volte ci siamo trovate nel dilemma fra l'avere forza sociale
e l'essere fedeli al nostro essere donne. Più volte l'oggettività
sociale ci si è presentata in alternativa escludente con la significazione
della differenza femminile. Era un'alternativa di non esistenza: nel tentativo
di avere forza nel confronto sociale, si finiva per tradire l'identità
femminile, ma, d'altra parte, per restare fedeli a sé si rischiava di finire
in una marginalità a sua volta negatrice di esistenza.
l'avvenimento della libertà femminile
Ebbene, a presente questo dilemma non si pone più, ne siamo definitivamente
uscite. A presente, la fedeltà alla verità soggettiva non si contrappone
più all'oggettività sociale. Dal dilemma dell'inesistenza siamo
uscite nel momento in cui il riferimento alle donne è diventato primario
rispetto agli altri riferimenti sociali. Così, per fare un esempio, ci
sono donne indifferenti alla politica delle quote e delle pari opportunità,
perché a loro va bene restare nella maggioranza delle donne che non fanno
carriera, che non occupano posti dirigenti. Una simile posizione, oggi, non la
leggiamo più come pochezza ma come scelta. È infatti una possibile
scelta di libertà femminile, tanto che le stesse sostenitrici della politica
paritaria presentano i loro obiettivi di quote garantite o di azioni positive
come obiettivi limitati, non significativi della volontà femminile nella
sua interezza, dandoci cosi una prova indiretta che l'essenziale, per una donna,
non dipende dal riconoscimento di questo o quel diritto. L'orizzonte della libertà
femminile si è aperto oltrepassando tutti i possibili obiettivi: la donna
che sceglie di restare nella maggioranza femminile che non fa carriera, sta semplicemente
aprendosi una sua strada in questo orizzonte più grande. Una prova diretta
di quello che stiamo dicendo, la troviamo nel fatto che i luoghi sociali occupati
di preferenza da donne, come l'industria tessile per quel che riguarda la produzione,
o le facoltà di Magistero per quel che riguarda la cultura universitaria,
fino a ieri noi stesse li guardavamo come sacche di marginalità, come ghetti,
e invece ora vediamo che sono luoghi favorevoli alla forza sociale delle donne.
(Non sarà un caso, in effetti, che la comunità filosofica Diotima
sia nata proprio in un Magistero.) È importante che prendiamo coscienza
di ciò. La nuova strada che si apre a noi, infatti, è una strada
di consapevolezza. Anzi, è la strada della vera consapevolezza di sé
che ti permette di dire io senza con ciò escludere niente e nessuno,
che alla forza stessa del tuo dire io farà corrispondere la presenza
di quello che tu non sei: è la strada delle nozze fra il tuo io
e la realtà di ogni cosa che è. Non si può percorrerla senza
saperla. Tutte, in un modo o nell'altro, abbiamo sperimentato la negatività
escludente del dire io da parte di una donna. E forse molte continuano a immaginare
di essere ancora esposte a questo dilemma di dover negarsi per fare spazio alla
realtà. Ma in questa alternativa non siamo più costrette. Non c'è
più la contraddizione fra la fedeltà soggettiva e l'oggettività
sociale, fra il partire da sé e l'andare in giro per il mondo. La libertà
femminile è venuta al mondo, è avvenuta. Può esserci, e veramente
c'è una distanza enorme fra il mio desiderio e la realtà data, ma
se voglio colmarla, so che questo non mi separerà più da me stessa
ne dalle mie simili, com'è accaduto in passato. Ci sono scelte da fare
e alcune sono fra loro incompatibili per cui torneremo a dividerci e forse a scontrarci,
ma senza che ciò rimetta in questione la nostra esistenza. Torna
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il negativo delle nostre vite Alcune,
tuttavia, non riescono a vedere l'avvenimento della libertà femminile.
Sono messe in difficoltà dal fatto che il negativo permane nelle
nostre vite e nei nostri rapporti. Allora pensano: non ci siamo ancora. L'impedimento
a riconoscere il nuovo è quasi più forte in quelle che più
hanno lottato per far venire il nuovo. È paradossale ma è così,
forse perché queste più delle altre si sono immaginate il risultato
e il risultato reale, vero, è diverso da quello che esse avevano immaginato.
Il risultato della libertà femminile non è di eliminare il negativo
delle nostre vite, ma di metterci in condizione di conoscerlo e di combatterlo.
C'è un negativo di origine femminile che ci viene in maggior evidenza ora
che abbiamo acquisito qualche mezzo per contenere l'invadenza del negativo maschile.
Il male di origine femminile per millenni è stato demonizzato, cioè
trattato come un male intrattabile e, quindi, come un potente pretesto sociale
per negare alle donne la libera espressione di sé. Noi stiamo imparando
a farci i conti e gli daremo, per così dire, diritto di città fra
le cose negative, forse insormontabili, di questo mondo. C'è, anzi resta
nelle nostre vite un negativo di ergine storica: sfruttamento sessuale, sessismo
sul mercato del lavoro, disprezzo sociale per ciò che ha origine femminile.
Il fatto nuovo di cui stiamo parlando non è che queste cose amare sarebbero
sparite dalla condizione umana femminile. Il fatto nuovo è che ora possiamo
combatterle con idee e mezzi autonomi. Questo vuoi dire, almeno, che il male che
ci viene fatto non arriverà più fino a ferire quella profonda intimità
da cui una donna dice: io sono una donna. Torna
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Frutto di una storia comune
La fine della contraddizione fra l'io sono una donna e la realtà oggettiva,
è stata guadagnata da molte, in gran parte femministe, che non hanno sempre
proceduto d'accordo e che anzi si sono a volte contrapposte fra loro e non senza
ragione. Ma il risultato è pur sempre il frutto di una storia comune,
quella del nostro attaccamento politico alla soggettività femminile. L'attaccamento
al proprio io, come tale, non è libertà. Il nostro stare vicine
alla soggettività femminile si riduceva spesso, nostro malgrado, a uno
sterile girare intorno, come fa un cane legato a un albero. Ma in questo modo,
in questa situazione abbiamo finito per vedere chiaramente la necessità
di una mediazione femminile. Per mancanza di questa, a una donna risulta(va)
impossibile dire io senza negare l'altro da sé e qualsiasi sua scelta particolare
portava in sé una specie di assolutismo escludente, mutilato, senza alternativa
altra che una somma faticosa di compiti disparati: la famiglia, il lavoro, la
politica... (Non è difficile mostrare come lo sfruttamento del lavoro femminile
in ogni sua forma, dalla fabbrica al suocero invalido alla raccolta delle olive
al lavoro intellettuale anonimo, faccia leva su questa altalena di negare/essere
negata che non consente di progettare liberamente la propria vita.) La fedeltà
alla verità soggettiva ci ha fatto scoprire che all'esistenza sociale libera
di una donna mancava, in primo luogo, l'articolazione mediatrice fra sé
e la realtà. È questa la vera mancanza etica del nostro sistema
sociale, a monte della mancanza (denunciata con forza da Luce Irigaray) di un
diritto mediatore fra i due sessi. Non esistevano modi per la mediazione sessuata
femminile. Li ha pensati la politica delle donne. Più precisamente, in
ciò consiste il pensiero femminile, per l'essenziale: dar vita a strutture
mediatrici per l'esistenza sociale libera delle donne. La prima struttura mediatrice,
come sappiamo, è stato il gruppo di sole donne. Altre sono poi venute al
posto o in aggiunta, come le relazioni preferenziali fra singole, e altre ancora
verranno, com'è naturale poiché i modi secondo cui il soggetto femminile
entra in circolo vitale con la realtà altra da sé, questi modi fanno
ormai parte della vita sociale e sono quindi destinati a rinnovarsi insieme a
questa. Non tutte le aggregazioni femminili, va detto, hanno la potenza di mettere
una donna in rapporto libero con la realtà. C'erano e ancora ci sono aggregazioni
complementari all'ordine sociale pensato e voluto da uomini. Anche queste, però,
cominciano ad essere contagiate dal primato che nella nostra società va
prendendo per le donne il riferimento a sé e alle proprie simili. Un segno
di autonomia, oltre che un requisito per l'efficacia mediatrice - secondo noi
il segno e il requisito più sicuri nei rapporti fra donne- è la
pratica della disparità. Questa, infatti, ci insegna ad ammirare le
qualità e le azioni di altre donne, dandoci la libera disponibilità
di quelle energie inferiori altrimenti bloccate dall'invidia e quindi messe al
servizio degli uomini. Su questo punto, più che negli altri, noi enunciamo
un'esperienza provata fino in fondo. Non c'è armatura più forte
e semplice, nel confronto sociale, per una donna, della sua ammirazione per la
grandezza femminile con cui entra in contatto. Torna
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La felicità dell'indipendenza
La nostra società ora sa l'esistenza di due sessi e di questo sapere noi
vediamo già le manifestazioni, che sono ovviamente le più varie:
c'è chi reagisce ostilmente, chi strumentalizza; altri, altre sono accoglienti
e si arricchiscono. Stiamo parlando di un avvenimento di natura simbolica, non
di un fatto sociologico o psicologico. Non vuoi dire però che si tratti
di un avvenimento solo mentale. La sua consistenza è anche materiale: la
sua incidenza è sensibile, le sue conseguenze, almeno in parte, sono osservabili.
Fra le conseguenze sensibili e osservabili dobbiamo mettere anche la vena di felicità
che corre fra le donne. Non è riducibile ai progressi materiali ma non
li esclude, non è interpretabile come qualcosa di puramente spirituale
ma gli somiglia. La felicità ci viene dal senso che hanno preso le nostre
vite per sé stesse, senza più imprigionamento in sé stesse.
È un senso praticabile, anzi necessariamente pratico ma con un sentimento
meraviglioso di libertà anche in mezzo agli impedimenti e alle smentite
che ogni pratica della vita comporta. A questo non saremmo mai arrivate con la
politica delle rivendicazioni. La politica delle rivendicazioni ci rappresenta(va)
come oppresse dall'altro sesso, mentre la radice della sofferenza femminile era
l'impotenza del significarsi da sé, per sé, e di entrare nel mondo
con questo segno originale, che non c'era. Bisognava capire questo. Lo abbiamo
capito quando, parlando fra noi al riparo dalla scienza maschile del mondo, abbiamo
avuto la certezza che le donne non vogliono rappresentare, nell'ordine simbolico,
la sua mancanza strutturale ne si soddisfano di essere la sua muta matrice materna
- ridotte, dalla scienza maschile del mondo, a funzionare da significanti dell'alfabeto
primordiale degli uomini, fatto di vuoto-pieno. L'alfabeto primordiale vero è
quello della differenza sessuale e la nostra felicità viene, in sostanza,
dall'uso di questo alfabeto vero. Che mi consente, per esempio, di fare scuola
bene, meglio, restando nella fedeltà alla mia umanità e alla mia
condizione di donna. O di ragionare sul diritto non più come quella che
deve sempre imparare, sempre adeguarsi, ma come quella che può, deve fare
giustizia. O di entrare nella politica con la competenza della mia propria esperienza
e con l'intransigenza di desideri, di bisogni non più subordinati. In questo
consiste concretamente la libertà, poter fare di una condizione umana imposta
un'occasione di esistenza più grande, con i margini per decidere se accettarla
o cambiarla e come. Siamo felici, alcune di noi sono sensibilmente felici, perché
le nostre vite e il mondo in cui ci troviamo a viverle hanno preso un senso indipendente:
un senso che non possiamo più perdere perché non può cambiare
senza di noi. Torna
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La lingua-ragione
Questo senso indipendente, assoluto, che proponiamo di chiamare ragione femminile,
lo vediamo operare praticamente nei rapporti fra noi e con il mondo, anche se
in maniera non appariscente - ma il nuovo nel suo principio non è appariscente,
somiglia piuttosto a un germe che spunta nella terra. Servirà fare un esempio.
Nel femminismo si è sempre sostenuto che la politica di emancipazione e
di liberazione si escludono fra loro. Era e resta giusto in quanto emancipazione
e libertà obbediscono a logiche fra loro contrarie: l'emancipazione è
ricevuta ed è relativa, mentre la libertà si genera da sé
ed è assoluta - sarebbe più giusto dire che è "assolvente",
nel senso che assolve, che scioglie dai vincoli di dipendenza. Ma la loro contrapposizione
viene meno nel momento in cui una donna si rende conto che l'emancipazione più
valida la otterrà grazie alla solidarietà e alle alleanze con altre
donne, senza più passare per la mediazione maschile. Un'emancipazione cercata
per quella via introduce alla libertà femminile. Ci troviamo davanti ad
una traducibilità di cose che erano fra loro distanti fino ad escludersi.
Com'è possibile questo? Una pensa subito alla lingua e al modo in cui funziona
una lingua. Quando parlo, io dò alle mie parole tutto il significato di
cui hanno bisogno per andare nel mondo, ma nell'atto di parlare so che le mie
parole sono destinate a ricevere nuovo significato da chi le ascolterà,
e lo stesso faccio con le parole che ascolto: dò loro significato, pur
sapendo che avevano già un loro significato. Le parole sono così:
capaci di prendere e dare significato, e così esse traducono il mio mondo
in altri ed altri nel mio, con uno scambio il cui cerchio si allarga potenzialmente
all'infinito. Se ora consideriamo la società con i suoi molti sistemi di
scambio, vediamo che l'orizzonte della libertà femminile si allarga grazie
alla mediazione dei rapporti fra donne e che questi operano come i segni di una
lingua. La lingua delle donne articola in sapere la materia, prima opaca, che
era l'esperienza femminile del mondo. Lingua o ragione. Ragione femminile che
nasce come lingua e ne porta in sé alcuni tratti tra i quali, oltre alla
disponibilità di prendere o cedere significato, c'è la capacità
di farmi passare dal mio 10 esistenziale alla realtà oggettiva, e viceversa.
11 movimento politico delle donne si distingue per la sua costante attenzione
verso la parola. La fedeltà al fondamento soggettivo che dicevamo all'inizio,
si è esercitata principalmente come primato della parola. Fra noi la parola
è un fine, non un mezzo. La parola rappresenta la fonte di umanità
delle nostre esistenze. Alla parola ci siamo rivolte per trovare il senso vero
e libero della differenza di essere donne. Le altre cose che circolano o che cerchiamo
di far circolare fra noi, come soldi, agio, libertà di movimento, posti
di lavoro, salute, potere, anche queste cose sottostanno per noi al primato della
parola. Ma non una parola sulla quale potremmo agire come ci pare, al contrario.
Il suo primato le viene dall'essere il senso della realtà che cambia: quello
che le cose vogliono dire. A questa condizione la parola viene prima e può
disegnare il mio rapporto libero con le altre donne, con gli uomini, conil mondo,
con me stessa. Torna
su Allontanarsi
per desiderio
Nel "Sottosopra" del giugno 1987 abbiamo pubblicato un testo sull'Arte
di polemizzare
tra donne di Angela Putino. Pubblichiamo qui la Lettera di Franca Gianoni
alla Libreria delle donne di Firenze, che ci sembra un esempio alto di quell'arte
per le cose che dice e per come le dice. N.d.R.) Ritengo molto positivo che alcune
donne in Libreria abbiano forti e precisi desideri: tenere aperto al pubblico
un luogo significativo, farne un centro moltiplicatore di studi e di cultura femminile.
Li hanno realizzati e li realizzano perché hanno tra loro rapporti ben
determinati, non generici, materialmente consistenti. Senza di essi la Libreria
non avrebbe una storia di otto anni. Sostengo che la forza di tali desideri e
l'impegno profuso per realizzarli rende queste donne libere di non collaborare
alla realizzazione di desideri che non condividono. Ho detto in riunione e qui
ripeto che chi ha altri desideri deve prendersi la responsabilità di realizzarli
dove ci sono donne che li condividono. Difendo la libertà delle mie simili
perché senza la loro non esiste la mia. Quanti più desideri si affermano,
quante più identità femminili prendono forma, tanto più il
nostro sesso esiste per sé, e ognuna che voglia ne trae vantaggio. Su queste
premesse riconosco valore alla Libreria e alla ricchezza che produce. Il riconoscimento
dato, il prendere sul serio l'impresa, mi fanno sentire la responsabilità
di esprimere anche per iscritto le mie critiche e le conseguenze che ne ricavo
per me. Ciò che critico di più è la non assunzione
delle modalità di rapporto operanti in Libreria. È come se ci fosse
una paura dell'autorevolezza maturata con tante fatiche, della potenza effettivamente
raggiunta. Una paura anche di ogni discorso che nomini tale potenza. Anziché
interrogare questo turbamento così profondamente femminile si preferisce
il silenzio, o l'affermazione che tutte le modalità - come tutte le donne
- sono ugualmente importanti perché differenti, e ogni differenza vale
l'altra. Pur di non constatare che l'esperienza mette in crisi spesso questo modello,
ci si astiene dal valutarla e dal cavarne conseguenze e modificazioni. Così
la ricchezza conquistata viene in gran parte dissipata, l'autorevolezza raggiunta
viene poco agita. Se ne vedono le conseguenze in alcune precise situazioni:- la
mancata valorizzazione, quindi la scarsa visibilità sociale (che comporta
scarsa trasmissibilità) dell'esemplare rapporto con le docenti di
tedesco;- il non prendere sul serio le riflessioni che alcune donne producono
sulle loro pratiche in Libreria (v. relazione di P. Codognotto a Napoli e le domande
negli appunti scritti da A. Biffoli a proposito di quella relazione, rimaste senza
risposta, del tutto ininfluenti quindi). Il non aver ricavato indicazioni strategiche
dalle pratiche materiali dei rapporti attraverso cui si sono realizzati
dei risultati positivi o anche negativi, ha portato, da una parte, ad opporsi
senza controproposte a chi proposte strategiche ne ha date; dall'altra ha lasciato
senza strumenti quelle che collaboravano con altri gruppi o altre donne della
città, causando dolorose confusioni, equivoci, disistima reciproca (vedi
iniziativa con Gemma Martino, serata di poesia con I. M., il Viaggio, recenti
preoccupazioni espresse pubblicamente nelle riunioni per gli incontri con gli
altri gruppi nel futuro Centro Donna). Un anno e mezzo fa ho chiesto di entrare
nella cooperativa per realizzare due desideri: 1) collaborare a tenere aperto
al pubblico un luogo dove circolasse la parola femminile; 2) fare in esso e con
esso, in questa città, politica di donne: cioè rendere visibili,
trasmissibili i rapporti materiali esistenti tra alcune di noi; elaborarli, aiutandoci
con ciò che altre avevano già elaborato in proposito e sviluppandolo.
Mi pareva infatti - e mi pare ancora - indispensabile che le nostre pratiche entrino
nel discorso, siano socialmente visibili e applicabili dovunque, anche fuori dai
collettivi, dalle Librerie, nei luoghi in cui passiamo il maggior numero d'ore
della nostra vita. In questi luoghi i rapporti tra donne anche quando esistono,
non contano socialmente: ciò
che conta, che plasma le modalità di rapporto è il discorso maschile,
se/dicente universale. Per affermare il mio sesso e vivere meglio lì, non
mi basta la mia iniziativa personale, la mia energia: devo saper instaurare rapporti
concreti con qualche altra donna che lì c'è. Non bastano i rapporti
d'affetto, di simpatia: occorrono rapporti politici volti a modificare quei luoghi
in modo che contengano due sessi invece di uno. Una strategia dei rapporti, elaborata
su pratiche già sperimentate, mi rende più capace, più forte
in questa impegnativa pretesa. Nella cooperativa il mio primo desiderio viene
ancora soddisfatto. Ma è il secondo che gli da senso. Per esso non ci sono
le condizioni di attuabilità: le donne che reggono la Libreria realizzano
giustamente i loro desideri; la tradizione che si è consolidata intorno
a queste realizzazioni ha selezionato l'attuale gruppo tra quelle che si riconoscono
in quei desideri, o comunque non ne sostengono altri con la decisione necessaria
per renderli operanti. Ci ho messo più di un anno a capirlo per le mie
resistenze all'ascolto, e anche perché il ritegno ad usare la potenza raggiunta
ha impedito alle più autorevoli di dire un NO chiaro così convincentemente
motivato. Dopo esser stata in silenzio per vari mesi, per poter ascoltare di più,
e dopo la riunione del 18 gennaio in particolare, l'ho capito. Per questo, fatto
un bilancio delle mie energie non illimitate, delle situazioni in cui debbo o
voglio impiegarle, dei tempi concreti a disposizione, ritengo di dovermi responsabilmente
ritirare dalla cooperativa. Non interrompo affatto i rapporti con essa
- come dimostrano del resto l'energia, l'attenzione e il tempo che ho impiegato
a scrivere questa lettera. (1) Ma la mia presenza interna costa a tutte una dispersione
di energie troppo grande rispetto ai risultati che conseguiamo. Un'eventuale collaborazione
esterna su precisi progetti potrà forse produrre- io spero - effetti
più corrispondenti agli investimenti.
Franca Gianoni (1) Attribuisco grande importanza alle parole scritte da donne
per donne, anche se non sono
"ben scritte": rendono più duratura la comunicazione; lasciano
tracce visibili del nostro operare; mostrano un prendersi sul serio; confermano
che i nostri rapporti, oltre che personali, sono già sociali. Sesto Fiorentino,
febbraio 1988 Torna
su La
prima dimensione
La conoscenza scientifica esige il sacrificio iniziale della soggettività
a vantaggio dell'oggettività. Definire la parte di soggettività
a cui si rinuncia rientra nella ricerca stessa della scienza ed è esercizio
di libertà, perché si rinuncia per scelta in obbedienza alla ragione.
La conoscenza scientifica esige la non cancellazione del soggetto. Bisogna essere
io per rinunciare a io. Scartare, come residuo ininfluente a priori per la conoscenza
razionale del mondo, il fatto che ovunque
entri io il locale mi da la dimensione di lei (Lispector),
è la cancellazione non scientifica del soggetto che ha ostacolato la mia
scelta di oggettività. La reintegrazione dell'osservatore nelle proprie
descrizioni, cercata in molti modi da scienziati e filosofi, va affrontata alla
luce di questa verità, che diventa vincolo. La mia ragione, che la matematica
ha istruito e le donne di Ipazia attivato, non accetta che una rappresentazione,
perché oggettiva, richieda a me un impossibile supplemento di sacrificio
di cui non resterebbe traccia per la futura restituzione: il diverso sesso della
mia soggettività. La mia ragione assume come necessaria la posizione di
un criterio scientifico sessuato per produrre descrizioni che mi includano.
Indagare
le implicazioni radicali dell'assunto è l'appassionante urgenza delle donne
di Ipazia. Condividerlo con le simili, farlo esistere socialmente, dargli la difesa
di un' autorità scientifica femminile, è la strada per costruire
assieme il soggetto che non si cancella con la soggettività. Questa urgenza
non si soddisfa con il solo lavoro del pensiero, esige una pratica che si dà
regole, strumenti, mediazioni atte a verificare le condizioni di in-differenza
del soggetto. P.S.
Essermi arresa ai tempi della pratica non mi ha tolta dall'impazienza di esplorare
intuizioni. Sto salendo per le due strade così diverse eppure legate perché
dell'avanzamento nell'una ho bisogno per avanzare nell'altra.
Angela Alioli di Ipazia Torna
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Lavoro
di fabbrica lavoro del pensiero
Siamo tutte donne iscritte alla C.G.I.L. che a Brescia è il sindacato prevalente.
Alcune di noi sono funzionarie, altre delegate. Il percorso individuale di ciascuna
di noi è segnato dall'esperienza del lavoro di fabbrica e dalla militanza
sindacale. Questa, per noi, è un'appartenenza molto forte e un forte legame.
Con questo legame da qualche anno si è intrecciato quello che abbiamo stabilito
fra noi dando vita al Gruppo del martedì. Da quando è nato, settembre
'87, noi ci riuniamo sempre il martedì, alla Camera del Lavoro, e questo
è diventato il nostro nome collettivo. Abbiamo una pratica che non segue
gli schemi propri dell'organizzazione, per esempio non ci riconosciamo nella divisione
delle donne secondo le categorie (quando diciamo l'organizzazione, intendiamo
il sindacato e per noi il sindacato è la C.G.I.L.). Non solo, siamo anche
contrarie ad esprimere una forma organizzativa che si possa ritenere definitiva
o possa apparire come modello generalizzabile. Noi siamo consapevoli che siamo
insieme perché ci siamo scelte; la nostra scelta è basata su un'esperienza
comune dentro al sindacato e sul desiderio di fare un lavoro politico fra donne.
All'origine del gruppo ci sono due circostanze che hanno per noi un diverso valore:-
la nascita dell'Università delle Donne a Brescia, alla quale noi stesse
abbiamo contribuito; - la richiesta fatta dall'organizzazione, nel luglio '87,
di ricostituire il Coordinamento Donne come una struttura fissa con una sua responsabile.
In quest'ultima occasione ci siamo scoperte contrarie a quella richiesta e a quello
che significava, paradossalmente ci siamo messe insieme proprio perché
contrarie. Sentivamo perplessità ed estraneità ad un percorso e
a politiche sindacali decise in altri luoghi. La proposta dei coordinamenti, decisa
dal Direttivo Nazionale della C.G.I.L., è stata da noi sentita come un
passo indietro rispetto alla stessa elaborazione dei vecchi coordinamenti dove
non era stata formalizzata la composizione: erano infatti aperti a tutte le donne,
lavoratrici, delegate e funzionarie - non avevano peso le diverse componenti politiche
e di sigla sindacale - era stata rifiutata la figura della responsabile sia organizzativa
che politica. Avvertivamo la riproposizione di questa forma organizzativa come
una scelta che ignorava quanto le donne avevano già prodotto nella loro
esperienza. La sentivamo più come un'esigenza/necessità della C.G.I.L.
che non un'esigenza/necessità di donne nel sindacato. Non avevamo più
nessuna voglia di ricominciare a discutere per far passare le nostre esigenze
più avanzate. Abbiamo preso tempo. I nostri primi incontri resero evidente
che potevamo continuare a svolgere un ruolo non marginale nel sindacato senza
dover necessariamente corrispondere alle aspettative e che potevamo restare a
pieno titolo dentro questa organizzazione senza che questo significasse, sempre
e di necessità, seguire le direttive o le indicazioni circa le forme entro
le quali definire la nostra presenza lì dentro. Questa cosa, che per molte
di noi non era una scoperta nuova - in altri momenti delle lotte sindacali l'avevamo
sperimentata - si presentò in quella precisa circostanza come un'esperienza
nuova, con un significato non conosciuto prima. Ricordiamo che generò sentimenti
contrastanti: insieme ad un indefinito timore, quella decisione di prenderci tempo
e spazio per noi, lì, produsse un sentimento di liberazione. Si presentò
come un gesto di libertà; così ci sembra di poter chiamare quel
sentimento di cominciare ad esistere veramente, per noi stesse, che provammo
allora. A quel punto abbiamo deciso di convocare noi, le donne. Abbiamo
dato vita ad un'assemblea nostra per riaprire la discussione sulla presenza
organizzata delle donne nel sindacato. Noi stesse, che eravamo certe che il Coordinamento
non ci andava bene, non sapevamo se ci saremmo date, se volevamo darci, un'altra
forma organizzativa. Per finire, abbiamo deciso che no. A Brescia non c'è
il Coordinamento Donne e non c'è una struttura alternativa. Ci siamo noi
in carne ed ossa che ci riuniamo il martedì alla Camera del Lavoro. Il
sindacato conosce bene che esistiamo e per questo non riesce a capire perchè
non facciamo le rappresentanti e la politica per le donne. Le nostre prese di
posizione si esprimono spesso in forma negativa, perché quello che vogliamo,
spesso, si chiarisce a noi stesse quando ci rendiamo conto che questa o quella
cosa non va bene per una politica di donne (e poi, perché capita spesso,
che dobbiamo opporci ai tentativi di ricondurci nei ruoli prestabiliti). Andiamo
avanti facendo un passo alla volta, così abbiamo la forza sufficiente per
quello che c'è da fare di volta in volta. Ma il nostro discorso nella sua
sostanza è positivo, è un discorso di forza femminile e della necessità
di cominciare ad esistere non come prima, perché una ha un ruolo, una funzione,
una categoria, ma perché c'è in prima persona e, con l'appoggio
delle altre, pensa e fa cose in cui lei per prima si riconosce e così si
rende conto che per essere rappresentata deve rappresentarsi lei stessa. Restiamo
comunque imprevedibili, facciamo veramente ingombro. La forza per cominciare ci
è venuta dall'aver rotto la regola del sindacato, che presume la necessità
per le donne di organizzarsi dentro l'organizzazione. Nella proposta dei coordinamenti
c'è una strumentalità burocratica e noi a Brescia l'abbiamo sconfitta
stabilendo così un rapporto di forza. Noi siamo dentro la C.G.I.L., ma
ci stiamo con la possibilità di darci regole nostre. Questo ha cambiato
il senso della nostra militanza sindacale. L'ha resa più vera e più
efficace. Ci è difficile far capire il nostro progetto a quelle che non
vengono il martedì, ma riusciamo a comunicare loro la nostra nuova forza.
Anche nella nostra esperienza ci siamo incontrate con una pratica ormai diffusa
che è quella di utilizzare le candidature femminili per risolvere problemi
politici esterni, non tanto alle singole donne, ma alle donne collettivamente.
A noi è bastato smascherare l'intenzione che si nascondeva dietro un presunto
interessamento per la causa femminile. Ci va benissimo che ci siano donne nei
posti dirigenti, ma che non sia per rappresentare tutte le donne, la ragione deve
essere veramente il loro desiderio e la loro capacità di essere dirigenti.
Nelle scadenze politiche del sindacato non abbiamo mai parlato per conto di tutte
le donne, non abbiamo mai scritto Tesi; nel proporre nomi di donne negli organismi
non abbiamo ragionato sulle percentuali: abbiamo invece proposto chi era interessata
a fare politica sindacale insieme alle donne. La nostra scelta ha aperto un conflitto
tra la nostra pratica politica e quella del sindacato, soprattutto perché
il tentativo è quello di farci funzionare secondo una logica di rappresentanza
generale. Sappiamo che su questo terreno si gioca il valore della presenza femminile.
Troviamo difficile analizzare come nasca effettivamente la nostra forza. La sua
fonte è femminile, questo è sicuro, come è sicuro che la
sua base sono le relazioni fra donne. Ma è generico, oltre che ormai risaputo.
Andando più a fondo, vediamo che c'è il fatto che ci siamo scelte
e che alla base di questa scelta c'è un progetto forte, ricco anche del
sapere che noi abbiamo accumulato rispetto a questo luogo. Noi non abbiamo rivendicazioni
o richieste da avanzare nei confronti del sindacato. Noi vogliamo essere il
sindacato di donne e uomini, il sindacato che tiene presente la differenza
sessuale a tutti i suoi livelli. In un certo senso noi siamo già questo
sindacato, perché le riunioni del martedì hanno rotto la finta uniformità
di prima. Sappiamo che ciascuna di noi può contare sull'altra anche per
ciò che riguarda il nostro modo di stare dentro le singole categorie, per
esempio nei momenti di contrattazione. Questi scambi ci rafforzano, rafforzano
l'identità femminile e ci aiutano a costruire misure nostre di cui sentiamo
un grande bisogno. Per riuscire a essere noi in prima persona questo sindacato
che ha presente l'esistenza di uomini e donne, ci aiutiamo, oltre che con le relazio-
ni interne ad esso, anche con relazioni esterne, specialmente con l'Università
delle Donne di Brescia. Fra noi e le donne dell'Università c'è uno
scambio. Metterci in rapporto con loro e con altre che vengono all'Università,
come le filosofe di Verona, ci ha dato una distanza interiore dal sindacato. Rispetto
a questo siamo dentro-fuori: non nel senso che saremmo metà dentro e metà
fuori, ma nel senso di aver guadagnato distanza interiore da un ordine vissuto
come dato immutabile. In questo siamo state aiutate dal rapporto con le donne
dell'Università. La creazione di questo luogo e il legame con loro ha contribuito
a rendere più politico il legame fra noi. All'Università noi portiamo
il nostro pensiero con i suoi contenuti e le sue caratteristiche originali, per
esempio, il nostro pensiero è sempre una ricerca collettiva. Un'occasione
per approfondire le nostre idee, è venuta con la discussione sulle quote
garantite. In un primo momento non abbiamo trovato una posizione che ci legasse
con la forza della convinzione. Adesso comincia ad esserci, anche perché
ci siamo misurate su questa questione con la nostra pratica
politica. Siamo contrarie alle quote per molti motivi, alcuni dipendono dalla
situazione, altri sono più di fondo. Intanto abbiamo l'impressione che
con questo discorso delle quote si voglia chiudere sbrigativamente il problema
della presenza o assenza delle donne nel sindacato. Ci offrono questo 25% con
l'aria di dire: vi abbiamo risposto avete avuto quello che volevate. Se si accetta
di ridurre la differenza sessuale ad un semplice calcolo matematico, ad un riequilibrio
di presenza, si indebolisce la possibilità di mantenere aperto un conflitto
che è politico. Per questo sentiamo le quote una svalutazione del sesso
femminile. Un soggetto - maschile - conserva una rappresentanza universale, noi
accettiamo il confino, ci facciamo ridurre a gruppo politico, il conflitto viene
così mantenuto nel 25% , non esce! Le quote portano in sé questo
significato di rimedio di una debolezza, questo ha conseguenze negative in ogni
caso, ma specialmente nel mondo del lavoro dove la cosa determinante sono i rapporti
di forza. Noi abbiamo bisogno di tutta la forza e di tutta l'autorità che
servono nella lotta sindacale,
a vantaggio delle donne ma anche degli uomini. Il meccanismo delle quote proposto
come un tentativo di rafforzare la presenza delle donne si rivela in realtà
come un depotenziamento. Quella che fa sindacato da donna, ma con uomini e donne,
come facciamo noi, si troverà con una base di legittimazione ridotta. Tutte
le presenze femminili saranno messe nel conto del 25%, comprese quelle che avranno
ricevuto la delega anche dei lavoratori maschi, e ciò ridurrà di
fatto il valore del mandato. Inoltre in caso di posizioni fra noi conflittuali
siamo vincolate dal 25%, c'è il rischio reale di comportarci come una componente
- questo fa perdere valore agli occhi propri e altrui. Per finire le quote garantite
non producono autonomia femminile, perché non producono consapevolezza
della realtà, di come funziona, dei rapporti di forza. Le donne che si
appoggiano alle quote per avere spazio nella società, sono più strumentalizzabili
di quelle che costruiscono la presenza femminile con mezzi indipendenti. La maggiore
difficoltà, forse, che ci troviamo davanti è che le nostre vite,
prima ancora che una pensi da sé che cosa farne, sono già invase
da una somma di occupazioni che non lasciano scelta. In questa situazione la politica
sindacale, quando si tratta delle donne, si riduce, nel migliore dei casi e quasi
per forza, a trovare aggiustamenti perché una donna possa assolvere questa
somma di compiti senza esserne schiacciata. Ma questa non è libertà,
è sopravvivenza. È proprio vero che non c'è scelta? Come
far nascere, come far parlare la libertà femminile nel mondo del lavoro?
Stiamo riflettendo partendo da noi per trovare la strada che altre, in caso, riconosceranno
valida anche per sé. Non possiamo dire molto di più perché
siamo solo agli inizi della nostra riflessione su questo tema fondamentale di
far parlare gli interessi femminili per sé stessi e non più in funzione
dei figli, dei mariti, della produzione, o dei progetti politici di altri.
Camera del lavoro di Brescia - Gruppo del martedì
Donatella Alberti (funzionaria FIOM) Luisa Bonometti (funzionaria FIOM) Oriella
Savoldi (funzionaria FILTEA) Vincenza Baiguera (delegata FILTEA) Michela Spera
(delegata FILPT) Laura Tonoli (delegata FIOM) Flavia Re- boldi (delegata FIOM)
Nadia Clerici (iscritta FP) Silvia Spera (iscritta FP) Amalia Viero (iscritta
FP) Maria Zanotti (iscritta FP) Wilma Poli (funzio- naria FIOM) Valentina Paderni
(iscritta FIOM) Adriana Tavelli (iscritta FIOM) Torna
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Fuori
dalle geografie maschili II pensiero della differenza
sessuale è un pensiero intrinsecamente politico, nasce in un mondo in evoluzione
e trasforma questa stessa evoluzione per iscrivervi la libertà femminile.
Non è un'operazione indolore, implica la trasformazione di un ordine ed
il ribaltamento degli attuali rapporti di forza uomo-donna. Se il pensiero della
differenza è già politica, che cosa comporta per quelle donne, come
me, che sono inserite nella politica neutra dei partiti e dei sindacati? Fra le
donne dei partiti e dei sindacati cresce l'attenzione per le tematiche della differenza
sessuale. Ma questa viene assunta da alcune in una maniera che io giudico sbagliata,
in quanto si vorrebbe aggiungerla o integrarla alla politica dei soggetti o gruppi
sociali, come gli anziani, i giovani, gli immigrati, i disoccupati, ecc., servendosi
di teorie o pratiche preesistenti, come il marxismo e l'emancipazione, o di nuove
ideologie, come quella del valore delle differenze in quanto tali. In questa maniera
noi resteremmo interpretate da significati di un ordine senza pensiero della differenza
sessuale e non troveremmo la nostra libertà. La sessuazione del soggetto
esce dai limiti di una data e conclusa società. Le donne non sono un soggetto
o un gruppo sociale, ma un genere umano che sta costituendo le sue mediazioni
per passare dall'immanenza naturale alla trascendenza della sua esistenza sociale
libera. La metafora irigariana del "divenire divine" non ha nessuna
curvatura di carattere ascetico o teologico. Sta a significare la traiettoria
ascendente dell'essere donna dal dato biologico all'umanità, una umanità
distinta in due generi non più riducibili ad un comune genere umano. Il
determinarsi del soggetto secondo la sua differenza di essere donna/uomo determina
quello che è la società, e non viceversa. Quando è viceversa,
noi sappiamo fin troppo bene che non c'è libertà femminile. Contraddizione
e confusioni si moltiplicano soprattutto quando si tratta del lavoro femminile
nella produzione e si vuole conciliare questo obiettivo, caro all'emancipazionismo,
con il pensiero della differenza sessuale. Non per questo dobbiamo rinunciare
a significare la differenza di essere donne nel mondo del lavoro, anzi. Sessuare
l'economia è difficile, non impossibile, a condizione di evitare la falsa
scorciatoia delle pari opportunità, il vicolo cieco del binomio produzione-riproduzione,
le angustie delle attuali settorializzazioni del mercato del lavoro. Circa le
pari opportunità e le quote garantite, dobbiamo renderci conto che in sé
si tratta di politiche di giustizia sociale neutra, sul cui valore per quel che
riguarda i nostri interessi giudicheremo di volta in volta. Sessuare il mercato
significa soprattutto affermare la libertà femminile nel lavoro. Non vanno
sicuramente in questa direzione gli sforzi di modellare il lavoro delle donne
così da accordarlo con il ruolo domestico, promuovendo di fatto un'esistenza
femminile subordinata e dimidiata fra la necessità della procreazione e
quella della produzione. Tutte sappiamo che il lavoro femminile si divide fra
lavoro domestico per la vita e lavoro extradomestico per la sopravvivenza nella
produzione. Ma non ci rendiamo conto abbastanza di un altro fatto e cioè
che nel lavoro produttivo noi donne non affermiamo niente di essenziale per la
nostra identità e quindi non vi sopportiamo neanche l'alienazione della
nostra soggettività, come avviene per l'operaio. Dall'alienazione di sé
nella produzione l'operaio può risalire a sé in quanto soggetto.
Ma la donna non ritrova se stessa, il suo pensiero, partendo dalla materialità
alienante del suo lavoro. Quello che lei vi ritrova è un già pensato,
il "già pensato del lavoro e il già pensato del ruolo domestico"
che insieme disegnano la differenza femmini- le già pensata dall'uomo e
a lui funzionale (A. Cavarero in "Reti" n.2, 1988). Partire dalle sole
condizioni materiali, nel caso delle donne, significa restare strette dentro a
due necessità appartenenti entrambe ad un ordine simbo- lico e sociale
di uomini. Questi separano al produzione dal ruolo domestico e sostengono questa
operazione assimilando la donna per una parte all'uomo lavoratore e per una parte
alla natura con le sue risorse di vita. Per ciò l'obiettivo della doppia
presenza, nella famiglia e nella produzione, non corrisponde alla significazione
della differenza sessuale nel lavoro, come pretendono alcune che confondono la
femminilizzazione del mercato del lavoro con la sua sessuazione. La doppia presenza,
in effetti, non fa che assecondare passivamente una tendenza attuale alla femminilizzazione
del mercato, aumentando la mera presenza quantitativa di donne. La sessazione
è invece opera di quelle donne che nel mondo del lavoro portano un sapere
ed una progettualità originali, ricavati dall'esperienza femminile. Ed
è politica della differenza sessuale valorizzare questo apporto qualitativo.
La nostra politica è politica della parola e delle cose insieme, modificatrice
della realtà data e creatrice del senso della realtà stessa, in
un nesso circolare da cui soltanto può aver luogo la libertà femminile,
in un senso che è insieme materiale e simbolico. Così, per esempio,
la differenza sessuale può significarsi nel mercato del lavoro attraversando
non tanto il nodo produzione-riproduzione, ma semmai quello formazione-lavoro,
che ci presenta un intreccio più vivo fra una parola di donne e l'organizzazione
del lavoro. Un'altra tomba per la politica femminile del lavoro è la settorializzazione
del mercato. Le corporazioni del mercato del lavoro, infatti, disegnano, bene
o male, una presenza di uomini nella produzione e lo stato dei loro rapporti in
essa. Le donne sono fuori dai rapporti di dominio servo-padrone, anche quando
entrano nel mercato del lavoro. Nel mercato del lavoro le donne sono entrate in
posizione aggiuntiva, in sostituzione di "servi" che andavano in guerra
o in momenti di accentuata espansione della sfera produttiva, come un esercito
di riserva, per la carenza di forza lavoro maschile da sfruttare. Il mercato del
lavoro è un territorio in cui l'uomo si è giocato a tutto campo
la sua forza ed il suo dominio sull'altro uomo. Non è una sfera di appartenenza
delle donne e noi sbaglieremmo a rivendicarla pari pari come nostra, anche se
le apparteniamo in parte. Il sindacato rispecchia questa situazione. Il sindacato
non prevede le donne come forza contrattuale. Certo, le ammette, ma non le prevede,
non le mette in conto, e ciò si riscontra nel fatto che le donne difficilmente
entrano nella direzione complessiva. Anche in paesi di più avanzata emancipazione
femminile, il sindacato è rimasto un affare di uomini. Il Coordinamento
donne C.G.I.L., che ha sostituito l'Ufficio lavoratrici - una mera forma burocratica
di tutela delle donne - pur avendo superato la logica restrittiva dell'organizzazione
di cui ha preso il posto, non è riuscito a correggere una situazione che
possiamo considerare strutturale, e cioè la non prevedibilità delle
donne sul mercato del lavoro. Inoltre, parcellizzandosi in coordinamenti di categoria
(braccianti, funzione pubblica, scuola, ecc.), il Coordinamento ha finito per
lavorare più su quello che divide le donne che su quello che le aiuterebbe
a rafforzare la propria identità. Il fatto di essere contadine, insegnanti,
operaie, sono de terminazioni non essenziali alla ricerca di un'identità
femminile e di una visibilità sociale delle donne. Non fa meraviglia, quindi,
che molto spesso, anche contro la volontà delle singole, le commissioni
e i coordinamenti femminili risultino essere più uno strumento di consenso
che un luogo di vero protagonismo delle donne. D'altra parte, una competenza femminile
sui problemi del lavoro e la forza di decidere in maniera veramente favorevole
alle donne, vediamo che cominciano a formarsi grazie a quelle sindacaliste e sindacate
che non tengono conto di categorie e settori, confini per noi poco o niente significativi,
e riescono a coniugare insieme la significazione dell'essere donna con la sessuazione
dell'economia. Le due cose insieme. L'identità di genere non è un'empirica
identità psicologica variante da individua a individua. Come ha sostenuto
Luce Irigaray in una recente confe renza a Roma, l'identità di genere è
la forma oggettiva con cui si esprime la sessuazione del soggetto ai vari livelli
della realtà sociale. Nel lavoro, è il significarsi del soggetto
donna/uomo, impegnato a produrre i mezzi della sua e altrui sopravvivenza. Il
nostro sforzo è di creare le forme oggettive dell'identità di genere
nel lavoro, così che nel lavoro le donne trovino una modalità di
espressione del proprio desiderio, di affermazione di sé, di potenziamento
della propria presenza sociale. Dal movimento politico delle donne abbiamo imparato
che la base per avere identità e visibilità, sono i rapporti fra
donne, rapporti differenziati se condo l'arco di tutta la socialità umana.
Questa è una ragione, la più importante, per cui la politica sindacale
femminile si piega sempre meno alle geografie del sindacalismo. ,, Lo stesso discorso
di superamento di confini per noi insignificanti, va fatto anche per il nesso
produzione-formazione. Qui si tratta di coniugare insieme la sessuazione del soggetto
e la trasformazione dei contenuti educativi, culturali e professionali, operando
un ribaltamento nella sequenza che fi nora tendevamo a subire passivamente. Finora
c'è stata la tendenza a favorire nella formazione quelle professioni che
si adeguano al mercato del lavoro dato. Viceversa, possiamo comincia re a pensare
professionalità capaci di operare sulla composizione del mercato del lavoro,
e lo saranno nella misura in cui saranno espressioni, insieme, di bisogni sociali
e di desideri femminili liberamente, rigorosamente coltivati nel corso della formazione.
Avremo così un mercato del lavoro con ruoli, funzioni, mansioni in cui
una donna, le donne potranno entrare senza esserne mutilate, depotenziate. Naturalmente,
ruoli, funzioni, mansioni, profili professionali, non sono le sole coordinate
del mondo del lavoro. Il prodotto del lavoro in gran parte è determinato
dai contenuti della tecnica, della scienza, della cultura. L'identità di
genere nel lavoro si affermerà man mano che avanzerà "la rivoluzione
scientifica oggi in corso" (L. Muraro sul Sottosopra blu) nella quale
sta emergendo il soggetto epistemico femminile. Di nuovo, vediamo le ragioni profonde
che inducono le donne a non restare confinate nelle geografie sociali maschili,
ma a collegarsi fra loro da un campo all'altro per dar vita a nuove pratiche sociali,
a nuove forme di pensiero. Giovanna Borrello Torna
su
Fonte
e principi di un nuovo diritto L'essere delle donne dentro
e fuori dal diritto - oggetto di norme ma nominate con il nome del padre
e del marito - ha disorientato per anni la nostra passione giuridica. Il lavoro
legislativo emancipazionista (tante leggi di parità con gli uomini, contraddette
peraltro da tante leggi di tutela della specificità femminile) non ci impegnava
intellettualmente poiché tutto l'apparato teorico era già definito
dal pensiero progressista maschile. Non ci restava quindi che difendere bene,
come avvocate, le donne che volevano separarsi dal marito e le pochissime lavoratrici
che utilizzavano le leggi di parità. Il gran numero di cause matrimoniali
nelle quali si verifica un enorme scarto fra le responsabilità sociali
che le donne si assumono verso i figli, da una parte, e le loro esitanti e modeste
domande al giudice, dall'altra, e il pochissimo uso che esse fanno delle leggi
di parità, tutto questo ci ha spinte ad interrogarci sul conflitto fra
i sessi nel diritto. È evidente, infatti, che le donne vivono e si muovono
in una società regolata dal diritto e non in una realtà in cui esse
starebbero da una parte e la società dall'altra, così come è
evidente che sono le relazioni sociali tra uomini e donne, con la forza e la parola
normativa dei primi rispetto alle seconde, che rendono le donne impotenti ad agire.
In altre parole, la relazione uomo-donna è già iscritta nel diritto
e vi è iscritta in maniera che schiaccia la donna. L'interrogarci è
stato produttivo poiché è partito dalla nostra stessa estraneità
e ostilità ad ogni intervento legislativo in favore delle donne, così
come ad un impegno teorico nel quadro giuridico dato. Siamo arrivate alla conclusione
che il problema per tutte, alla radice, è il medesimo: siamo inserite a
pezzi nell'ordinamento giuridico. E possiamo essere tutelate dalla legge e usarla
solo per quella parte che vede i nostri interessi coincidenti con quelli degli
uomini. Dove, invece, si apre un conflitto fra uomo e donna, ad esempio nella
famiglia o nel lavoro, percepiamo immediatamente che di tutela si trattava
e per di più inadeguata, nonostante i vari aggiustamenti. La ragione è
semplice: l'ordinamento giuridico esistente non prevede il conflitto fra i sessi
e, quindi, non lo regola. Per questo, come giuriste, siamo impedite all'innovazione
teorica se non osiamo affrontare i principi fondamentali del diritto esistente.
La legislazione emancipazionista, che non li mette in discussione, deve nascondere
il fatto della grande incertezza femminile ad avvalersi della legislazione anche
quando questa andrebbe a nostro vantaggio. Ci siamo interrogate, dunque, sulla
nostra impotenza ed abbiamo cercato di lottare contro la legislazione emancipazionista
non tanto per gli obiettivi che proponeva, sostanzialmente ragionevoli, ma perché
colmava i vuoti dell'ordinamento riguardo alle donne, togliendo smalto
e significato a quel non esserci per intero che per noi era la cosa più
viva, e perché estendeva la regola data del diritto senza porre la necessità
di un diritto originale delle donne. Torna
su attualità
del diritto femminile II gruppo delle giuriste
di Milano, di cui facciamo parte, ha scelto il processo come luogo più
concreto e rigoroso per capire che cosa vogliamo dalla legge e per disvelare l'apparentemente
paradossale posizione femminile che avverte la conquista dei diritti di cittadinanza
e parità come negazione della propria differenza sessuale e, quindi, non
considera questi diritti come agibili in concreto. La nostra intelligenza teorica
si è svegliata solo quando abbiamo individuato la fonte del diritto femminile:
i rapporti di scambio fra donne (per noi, nei processi, la relazione fra avvocata
e cliente, e quella fra avvocate che si associano nella causa, e quella fra una
giudice ed una avvocata, ecc.), il sapere e il desiderio che li sostiene e la
misura della modificazione che la lotta delle donne ha operato nei rapporti di
forza fra i due sessi. Rappor ti e relazioni nei quali si vanno precisando gli
interessi femminili, la forza e il sapere che abbiamo guadagnato, i conflitti
fra le donne e delle donne con gli uomini che la consapevolezza produce, e la
necessità delle mediazioni. Da qui prendono esistenza le norme di un ordinamento
sessuato di origine femminile, che riflettono i valori costitutivi dei rapporti
che le donne allacciano fra loro. A partire da queste norme sarà possibile
iscrivere nel diritto i principi della mediazione fra i differenti valori dei
due sessi, principi che oggi mancano nell'orizzonte monosessuato maschile. A noi
sembra che tre siano le acquisizioni da cui dovrebbe procedere la riflessione
femminile sul diritto: il disvelamento operato dalla presa di coscienza femminista
del do minio di sesso in tutti i linguaggi, compreso quello giuridico; la vacuità
della moltiplicazione di leggi e diritti che non hanno concreto inveramento (L.
Muraro); il principio dell'inviolabilità del corpo femminile. Affermare
questo principio significa non solo che lo stupro è un reato - lo riconosce
tale già la vigente legge penale - ma che le donne non vanno riportate
alla misura maschile (stupro simbolico). L'iscrizione nel diritto delll'inviolabilità,
a nostro parere, non è questione di legge penale bensì di costituzione
dell'ordinamento giuridico. Alcune, soprattutto le politiche di professione,
spesso ci chiedono che cosa intendiamo con "differenza sessuale". Bene,
per noi la differenza si sostanzia nella libertà femminile e nella inviolabilità
del corpo delle donne. L'iscrizione di tali principi è diventata attuale,
pochè molte donne si rappresentano inviolabili: hanno acquistato autonomia
di giudizio, forza, sapere e una socialità altra rispetto a quella
ritagliata per loro dal patriarcato. Inviolabili, quindi, anche nel caso di una
eventuale violenza carnale, poiché inizia a farsi strada una giustizia
femminile. I sessi sono due e questa dualità si da esistenza con l'iscrizione
simbolica della differenza femminile. I sessi restano due anche dopo l'avvento
del diritto femminile, che produrrà, come è tipico del diritto,
regole e mediazioni universali, cioè che valgono per donne e uomini. Infatti,
quello femminile è un diritto sessuato che nasce dalla constatazione che
i sessi sono due: la sua universalità è una forma storicamente e
logicamente nuova, che domanda riflessione anche filosofica. A questo proposito
forse serve osservare che la donna può diventare madre di una figlia come
di un figlio e che, privilegiando la genealogia femminile in quanto le da forza
e nome, non mancherà di avere cura dell'esistenza del figlio e del suo
rapporto con lui. Per concludere, diciamo che il diritto femminile si pone come
tertium nel conflitto fra i sessi. Esso assolve questa funzione per la
ragione appena detta, che nasce dalla constatazione che i sessi sono due e si
sviluppa mantenendola. Torna
su
la
madre fonte del diritto sessuato
Le norme del diritto che ci sono state presentate come universali sono, in realtà,
un insieme di regole che strutturano una società ove le donne non sono
contemplate come soggetti. Tali norme lasciano le donne prive di diritti soggettivi
(L. Irigaray). Il diritto che conosciamo, perciò, è segnato dall'impossibilità
intrinseca di essere veramente valido per tutti i soggetti. La pretesa che esso
sia universale, è una finzione che ha potuto reggersi solo grazie alla
mancanza (o all'estrema debolezza) dei rapporti sociali fra donne. Concretamente,
ci siamo chieste come possiamo iniziare ad operare. Abbiamo allora preso in considerazione
il diritto scritto che conosciamo, il diritto del genere maschile, e abbiamo facilmente
constatato che esso non costituisce un tutto monolitico. La norma giuridica scritta
nella costituzione, nei codici, nelle leggi, se ci si spinge oltre l'apparenza
è, in realtà, frammentata: si enuncia come regola generale astratta,
mentre rappresenta la soluzione mediatrice di un conflitto d'interessi contrastanti
che si esprimono nell'orizzonte monosessuato maschile. A seconda dei mutevoli
rapporti di forza fra gli interessi mediati, la medesima regola della mediazione
(norma giuridica) si modifica al punto da esprimere contenuti diversi, talora
perfino contrapposti. La nostra pratica ci ha insegnato che questo fenomeno si
verifica non solo negli ordinamenti giuridici di tipo anglosassone (Common Law)
ai quali è connaturata la formazione processuale della regola, ma anche,
nonostante l'apparenza di una codificazione normativa rigida, negli ordinamenti
giuridici di tipo latino. Anche in questi la regola del diritto scritto è
suscettibile di interpretazioni tanto difformi - in relazione ai casi della vita
sottoposti a giudizio, quindi in relazione agli interessi mediati - da modificare,
fino a capovolgerli, i contenuti della mediazione. Se nel processo si modifica
la regola giuridica che media gli interessi in conflitto, si può, come
abbiamo già sottolineato, usare il processo come strumento
di produzione di nuove regole di diritto. Inoltre, ed è la cosa politicamente
in questione, noi pensiamo che questa pratica sociale sia la modalità più
valida per produrre diritto femminile. È il processo, infatti, un momento
istituzionale in cui le donne (avvocate, utenti, magistrale) sono soggetti della
mediazione che si compie. Se esse si collegano in una relazione privilegiata,
finalizzata ad un progetto che ha una misura sociale e palesa i valori che esse
vogliono affermati come loro propri nella società che le include, questi
valori si contrappongono come un polo altro rispetto a quelli che hanno
corso nel contesto sociale maschile. Il processo registra il conflitto e il livello
dello scontro, svela nell'urgenza della contrapposizione l'inesistenza di regole
di mediazione fra i valori differenti di cui i due sessi sono portatori e, nel
suo compiersi, esprime la mediazione possibile fra gli interessi sessuati confliggenti.
Vengono così ad esistenza regole di fonte femminile, l'ordine monosessuato
maschile è scalfito e comincia a crearsi un ordine dei due sessi. Nel processo
si vede in concreto come la libertà maschile limiti quella femminile, e
viceversa. Naturalmente bisogna sapere che cosa è in gioco, poiché
il prius da cui partire, per noi la libertà femminile, è
fondamentale per la lettura del diritto. Come giuriste abbiamo individuato alcune
regole che ci paiono fondamentali e che qui offriamo alla discussione per arrivare
a costituire alcuni principi fondanti del diritto femminile. Il valore fondamentale
è costituito dalla fedeltà alla propria identità sessuale,
dall'affermazione di un'identità umana femminile, resa possibile dalla
valorizzazione della genealogia femminile (L. Irigaray). I diritti soggettivi
delle donne, quindi, possono venire all'esistenza solo se sono strettamente correlati
ai loro corpo-mente sessuati, solo se danno riconoscimento e valore alla differenza
sessuale. I principi cardine del diritto di origine femminile possono ipotizzarsi
o conflittuali o convergenti o autonomi con i principi del
diritto maschile. La libertà, la inviolabilità del corpo e la forma
dei diritti politici sono esempi di principi concettualmente autonomi. Esempio
di diritto convergente può essere la normativa per la repressione della
violenza sessuale. Il diritto maschile interviene con una normativa repressiva
del reato a tutela dell'ordinato svolgimento del rapporto fra cittadini. Il diritto
femminile, autonomamente ( ma in modo almeno parzialmente convergente quanto agli
esiti del consorzio sociale) garantisce la inviolabilità del corpo delle
donne attraverso la valorizzazione della genealogia femminile, la responsabilità
della donna madre verso il proprio sesso, quindi verso il sesso della donna stuprata,
la sottrazione di solidarietà al figlio stupratore come espressione di
autorità materna esercitata nel nome del proprio sesso. Esempio di normativa
conflittuale dei due generi, è nel diritto della coppia e della famiglia.
Il diritto femminile in questo caso è conflittuale con quello maschile
in quanto la libertà di un genere limita quella dell'altro. L'ordinamento
giuridico attuale non contempla il diritto della coppia, come per prima ha fatto
vedere Luce Irigaray. Nella famiglia vige formalmente l'indifferenziato, per cui
ogni membro adulto è responsabile della famiglia, mentre in realtà
agisce la forte disparità fra il potere del padre e quello della madre.
Anche nei doveri-diritti di fratelli e sorelle si notano spesso gravi disparità.
Manca, in generale, una mediazione fra i due sessi, quindi una regola, un diritto
differenziato, misurato sul valore e sui bisogni rispettivi dei due generi. Qui,
il principio fondante della libertà femminile, può calarsi, ad esempio,
nel diritto della donna a decidere quanto al proprio corpo fecondo deciden do
il numero delle maternità, quanto alla iscrizione dei figli come suoi propri
discendenti nei registri dello stato civile e quanto ai diritti-doveri reciproci
fra madre e figli (cfr. L. Irigaray in "II diritto delle donne" n. 1,
Bologna 1988). Torna
su
Principi
fondanti del diritto femminile Siamo dunque già
in grado di nominare alcuni principi cardine di un ordinamento giuridico sessuato.
Essi sono: - la libertà femminile - l'inviolabilità del corpo femminile
- nuove forme politiche capaci di registrare l'efficacia del desiderio e la progettualità
dei, delle singole, efficacia e progettualità che non trovano finalizzazione
al bene comune in una società come la nostra, formalmente governata secondo
il principio maggioritario e il sistema della rappresentanza. I principi cardine
dell'ordine sessuato sono destinati a cambiare profondamente la Costituzione italiana
(A. Cavarero). Quando la Costituzione è stata stesa ed approvata, le donne
erano mute quanto alla libertà femminile (forse identificandola con quella
maschile) e all'inviolabilità del corpo. Si può quindi affermare
che il patto costituzionale non è stato sottoscritto dalle donne. Vero
è che queste hanno successivamente compiuto degli atti, come partecipare
alle elezioni e accedere ai pubblici uffici, che possono apparire come una forma
di adesione. Questa però era condizionata, nel senso che si esprimeva nelle
forme e negli ambiti determinati dal diritto e dalla politica maschile, come se
esse dicessero: accettiamo di esprimerci con le parole che ci avete dato, ma solo
nei limiti delle parole che ci avete dato. Tant'è vero che hanno (abbiamo)
decisamente rifiutato la rappresentanza di sesso non votando di preferenza per
le donne. In questo modo si rifiuta lo strumento principale offerto dalla democrazia
borghese per difendere i propri diritti. Tale rifiuto risponde ad una ragione
profonda e cioè che la differenza sessuale è un fatto qualitativo,
non riducibile ai numeri, come le quote di rappresentanti in parlamento e in altri
organismi, enti o istituzioni. Le femministe non si sono contate per fare le loro
scelte, per prendere decisioni, per conquistare nuovi ambiti di esistenza sociale.
Si sono mosse e si sono regolate secondo il proprio desiderio e progetto spesso
individuale o quasi, ascoltando in questo desiderio quella che il più delle
volte si è rivelata una ragione profonda, condivisa da molte ma ancora
inascoltata. Così esse hanno evitato di sottostare allo schiacciamento
della maggioranza, seguendo piuttosto l'andamento dei rapporti d'amore, d'amicizia
e familiare, dove non si vota e dove le cose vanno bene se vince la libertà.
Non sappiamo assolutamente ne vogliamo suggerire la forma che potrà avere
la costituente delle donne perché abbiamo orrore della fissazione
delle forme politiche. Abbiamo perfino esitato ad usare la parola "costituente"
nel timore che le politiche di professione se ne impadroniscano come slogan senza
una pratica adeguata. Siamo però in grado di affermare che la Costituzione
italiana è messa in questione e che dovrà aprirsi ai principi fondamentali
del diritto femminile. Il pensiero politico e giuridico maschile si è incagliato
sul rapporto uguaglianza-differenze, sul funzionamento della democrazia numerica,
sull'estensione dei diritti senza la capacità di pensare gli strumenti
e gli istituti per attuarla, cosicché le proclamazioni del diritto non
hanno alcun inveramento. La discussione, quindi, è più che aperta
e l'elaborazione giuridica delle donne sarà preziosa per gli uomini come
per le donne. Mariagrazia
Campari e Lia Cigarini Su
questi temi abbiamo fatto riferimento a:
- Luce Irigaray, Sexes et parentés, Minuti, Parigi 1987 (in preparazione
la traduzione italiana: Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1989)
- Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg
& Sellier, Torino 1987, secondo capitolo - Adriana Cavarero, L'emancipazione
diffidente. Considerazioni teoriche sulle pari opportunità, in "Reti"
n. 2 (1988) - Luisa Muraro, Tra forza e diritto, in "L'Unità"
17 nov. 1988 - Convegno del gruppo giuriste di Milano sul tema: Inadempienza
dei padri e spazio di libertà per le donne, Palazzo delle Stelline
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