| UNA
CITTÀ n. 119 marzo 2004
SCUOLA
CITTA’
intervista
a S. COTONESCHI, G. GIACHI, G. LISI, C. LORIMER, L. PUTTINI
La Scuola-Città
Pestalozzi, fondata da Ernesto Codignola nell’immediato dopoguerra
per educare i ragazzi all’autogestione e all’assunzione di
responsabilità, resta una grande esperienza pedagogica. Elementari
e medie insieme, con lo stesso collegio insegnanti. I laboratori del fare,
il teatro, l’inglese fin dai primi anni. Intervista a Stefania Cotoneschi,
Graziano Giachi, Gabriella Lisi, Cristina Lorimer, Luisa Puttini.
Luisa Puttini,
Gabriella Lisi e Stefania Cotoneschi insegnano rispettivamente inglese,
educazione tecnica e matematica alle medie; Cristina Lorimer e Graziano
Giachi insegnano alle elementari, nell’Area linguistica e nell’Area
scientifica.
La
Scuola-Città Pestalozzi è un’esperienza particolare,
nata con determinati obiettivi, in cui i rapporti con i ragazzi sono molto
più personalizzati che in altre scuole. Ce la potete descrivere?
Gabriella Lisi. Sì, è vero. Ad esempio io, che insegno educazione
tecnica, ho solo tre classi, mentre se insegnassi in un’altra scuola
ne avrei sei, con tre ore di insegnamento in ciascuna. Quindi lavoro con
meno classi e ho più ore da dedicare ad ognuna di esse, con un
vantaggio notevole per la conoscenza dei ragazzi. Inoltre il rapporto
insegnanti alunni è molto elevato (c’è una maggior
quantità di personale rispetto alle scuole cosiddette normali)
e l’organico è molto stabile. Lo stesso vale per i gruppi
classe: può capitare che ci siano ragazzi che hanno fatto insieme
dalla scuola materna fino alla terza media, in un arco di tempo che sfiora
i dieci anni.
C’è da dire, però, che la stabilità non ha
solo aspetti positivi; per i ragazzi il processo di crescita, che non
è mai omogeneo e lineare ma avviene per salti e interruzioni, può
comportare anche rapporti conflittuali o dinamiche negative che, se il
gruppo classe non si spezza, possono diventare anche pesanti. Tocca allora
all’insegnante individuare ed esplicitare questi momenti di rottura
e conflitto, elaborandoli come momenti di differenziazione del ragazzo,
facendoli diventare occasioni di crescita. E’ per questo che, quando
costruiamo il curricolo, non riflettiamo solo sui contenuti disciplinari
ma anche sull’aspetto relazionale del nostro lavoro.
Luisa Puttini. Infatti credo che possiamo dire di aver fatto un buon lavoro
quando i nostri ragazzi, in terza media, dicono: “Basta, sono stufo,
ho voglia di uscire, di cambiare, di proiettarmi”. E’ come
in famiglia: se tutto è andato bene, i figli a un certo punto sentono
il desiderio di andare. Se invece vogliono rimanere sotto l’ala
protettrice vuol dire che forse qualcosa non è andato come doveva.
E ogni tanto capita che qualche ragazzo si senta orfano all’idea
di uscire di qui e provi un certo timore ad affrontare l’esterno,
perché questo è comunque un ambiente più familiare
e protetto, dove i rapporti sono più stretti che altrove e dove
forse c’è un occhio particolarmente attento ai ragazzi che
presentano difficoltà.
Gabriella. E’ come quando arriva il momento di salutarsi, a fine
corso o con i ragazzi della scuola inglese con cui facciamo lo scambio;
noi lo chiamiamo “il lacrimometro”: più piangono più
è stato un successo. Una volta è capitato addirittura che
l’ultimo giorno di scuola, la barista del bar di fronte, quando
siamo andati a prendere il caffè, ci abbia chiesto: “Cos’è
successo, quanti ne avete bocciati?”. E noi: “Bocciati? Perché?”.
“Perché c’erano ragazzi di terza media che piangevano
tanto, non smettevano più”. “Ma piangevano perché
è finita la scuola e l’anno prossimo non saranno più
insieme”. “No, non è possibile!”.
Luisa. Certo, non tutti, nell’arco degli otto anni di frequenza,
crescono allo stesso modo. Alla fine del percorso qualcuno è cresciuto
di più, qualcuno di meno. Perché da una parte questa è
una scuola impegnativa, che fa tante proposte e impegna i ragazzi su tanti
fronti, per cui chi ha buone capacità riesce a costruirsi delle
competenze complesse e ad avere relazioni positive con l’esterno;
però nello stesso tempo, è una scuola che si prende cura
anche dei bambini che hanno difficoltà di apprendimento, che non
riescono a stare fermi, seduti; alla fine del percorso anche loro sono
scolarizzati. Magari non avranno interiorizzato grandi contenuti però
sanno stare in classe, entrano ed escono all’ora giusta, intervengono
in maniera coerente e non urlacchiano più. E ciò rappresenta
veramente un successo educativo, anche se dal punto di vista dei “parametri
normali” questi bambini sarebbero considerati insufficienti. Se
invece consideriamo tutto il loro percorso possiamo dire che i risultati
sono stati ottimi. Ovviamente non abbiamo la bacchetta magica e a volte
può succedere che il successo non arrivi.
Gabriella. Tempo fa sono venute due professoresse del Ministero, che ad
un certo punto ci hanno chiesto: “Ma voi, oltre a scegliere gli
insegnanti vi scegliete anche gli alunni?”. E noi: “No, gli
alunni non si scelgono”.
Cristina Lorimer. Infatti sono bambini assolutamente nella norma. E nella
scelta seguiamo criteri assolutamente espliciti e pubblici: come utenza
abbiamo i bambini del quartiere più qualcun altro da fuori, in
genere fratello o cugino di un nostro ex alunno, quindi già motivato
nella scelta. Per cui, come in tutte le scuole, capitano ragazzi buoni
e disciplinati e altri molto indisciplinati e conflittuali; ragazzi che
imparano subito e altri che hanno tempi molto più lunghi.
Gabriella. Non è infrequente, poi, che ci siano richieste di iscrizione
di bambini portatori di disagi o handicap, anzi forse la cosa qui si verifica
in percentuale maggiore che altrove perché la nostra è una
scuola con una lunga tradizione di accoglienza; offre laboratori, progetti,
ecc. Poi, anche i ragazzi più agitati e difficili, col passare
del tempo perdono la loro carica conflittuale, forse perché in
questa scuola, per esprimersi e ricevere gratificazioni, trovano delle
opportunità e degli spazi diversi, che non sono soltanto quelli
tradizionali del leggere, dello scrivere e del contare.
Ma quali sono le particolarità della scuola?
Gabriella. Potrei farti vari esempi in ordine sparso: per prima cosa,
questa è una scuola senza campanella, ci autoregoliamo tutti sull’orologio.
L’autoregolamentazione è uno degli obiettivi dell’educazione
all’autonomia individuale, alla consapevolezza, anche nelle piccole
cose.
Certo, a volte può capitare qualche piccolo sforamento d’orario,
ma fra di noi lo tolleriamo. E poi così i ragazzi non ci tolgono
mai la parola di bocca, non succede che quando suona la campanella dell’intervallo
tutti saltino fuori dai banchi; se poi c’è un discorso che
li prende, se c’è un momento di scambio con l’insegnante
scade l’ora e nessuno dice niente; ce ne accorgiamo perché
arriva il collega a darci il cambio. Anche la mensa è autogestita
ed è per questo che avviene in classe, per evitare l’enorme
frastuono tipico delle sale mensa enormi, ma soprattutto, pur non essendo
un’attività disciplinare, perché per noi rappresenta
un momento educativo importante, che va gestito in prima persona dall’insegnante
e non delegato a personale di serie B.
Luisa. Cerchiamo di dare alla scuola un’impronta democratica, partecipativa.
Ad esempio ricordo che una volta, in prima media, il rappresentante dei
ragazzi alzò la mano e disse: “Luisa, i miei compagni mi
dicono di ricordarti che sarebbe ora di ricreazione”. Non me lo
dissero in malo modo, non cominciarono a scalpitare, si rivolsero per
via gerarchica al loro rappresentante il quale con molto garbo mi fece
presente la cosa.
Gabriella. Faccio un altro esempio: quando finisce la giornata scolastica,
io devo rimanere venti minuti nelle classi a mandar via i ragazzi, perché
non se ne vogliono assolutamente andare, mentre quando suona la campana
di solito nelle scuole tutti i ragazzi scattano fuori. Ecco, qui non suona
nessuna campana, né quella tra una lezione e l’altra né
quella di fine giornata scolastica.
Graziano Giachi. Inoltre non ci sono rigidità, posti inaccessibili
o barriere fisiche. D’altronde la scuola è piccola e ciò
favorisce questa permeabilità: i bambini sanno che ogni spazio,
ogni angolo di questa scuola è anche loro. Qui, infatti non si
parla mai di aule e palestre, ma di spazi, ed ogni spazio può essere
flessibile e reinventabile in qualunque momento. Ovviamente un’organizzazione
del genere ha i suoi pro e i suoi contro, ma per ora i vantaggi ci sembrano
superiori agli svantaggi.
Detto ciò, questo non è un posto dove non si insegni, questo
ci teniamo a sottolinearlo. Ci sono dei momenti in cui l’impegno
richiesto ai bambini è grande, però il clima intorno a loro
è diverso, più disteso, e questo fa sì che, forse,
il momento dell’apprendimento abbia un minore impatto.
E’ per questo che si dà del tu alle insegnanti?
Gabriella. Sì, c’è questa forma familiare di rapporto,
che però non significa mancanza di rispetto. All’inizio può
sembrare una forzatura, in realtà poi, quando si è qui,
viene naturale. Si inizia in prima elementare, con i bambini piccoli,
che danno del tu alla maestra, la chiamano per nome, qualche volta si
sbagliano e la chiamano mamma. Poi si prosegue con questo stile anche
alle medie, perché alla base c’è l’idea di una
comunità che, insieme all’istruzione (che certamente rimane
il nostro primo obiettivo) cerca di imparare anche la convivenza, un’autoeducazione
alla cittadinanza e alla democrazia; una democrazia però che rifugga
dai formalismi.
Noi poi, dopo tanti anni, ce ne accorgiamo solo quando arriva un nuovo
alunno, che avendo già introiettato uno stile di rapporto dove
ci si dà del “lei” e le distanze nei confronti dell’insegnante
sono maggiori, rimane sorpreso da questa forma di relazione più
personale. A volte può capitare di essere fraintesi, e in quel
caso si deve fare un po’ di fatica, ma comunque l’affermare
una forma di rapporto più vicina, più colloquiale rimane
un percorso interessante; in fondo il “lei” non è detto
che sia un segno di rispetto, potrebbe essere più semplicemente
indice di lontananza. Per esempio una volta un ragazzo proveniente da
questa scuola, arrivato all’istituto superiore, ha detto al professore:
“Qui ci trattate come alunni, a Scuola-Città venivamo trattati
come persone”.
Quindi l’obiettivo di fondo, l’educazione alla cittadinanza,
è rimasto?
Gabriella. Sì, l’educazione alla cittadinanza, alla democrazia,
sono rimaste. E a Scuola-Città questo non è solo un progetto
didattico (presente peraltro in tante altre scuole) ma è proprio
un’aria che si respira. Certo, non ci sono più le forme strutturate
di vita democratica delle origini, quando i ragazzi tra di loro eleggevano
gli assessori e il sindaco, come se si trattasse di una città vera,
però cerchiamo di mantenere delle forme di partecipazione autentica,
reale. Per esempio i ragazzi eleggono il loro rappresentante di classe,
dopodiché i rappresentanti delle otti classi (compresi quelli delle
elementari) vanno a comporre il Consiglio dei Ragazzi, che si riunisce
regolarmente, e di cui sono responsabili un collega e il direttore della
scuola.
Cristina. Codignola pensava che dopo il fascismo, ci fosse la necessità
di riformare i cittadini italiani, perciò aveva la visione di una
scuola strutturata come una piccola città, in cui tutti sono importanti
e hanno dei compiti e delle responsabilità verso la collettività.
In tutti questi anni il nostro lavoro, frutto di continui confronti e
discussioni, è stato proprio quello di adattare questa filosofia
ai cambiamenti della società senza tradirne lo spirito, decidendo
di volta in volta ciò che, pur essendo stato importante in quegli
anni del dopoguerra, era in qualche modo superato e quello che invece
doveva essere mantenuto e portato avanti.
Gabriella. Un altro elemento importante è che l’attività
didattica è imperniata su una forma di progettazione e programmazione
del lavoro che noi definiamo “leggera”, vale a dire che a
partire da progetti molto complessi e strutturati, si cerca una progettazione
imperniata su ipotesi di lavoro flessibili e aperte all’intervento
dei ragazzi (anche se l’insegnante, in qualità di responsabile
del progetto didattico ne mantiene saldamente le redini). Anche questo,
secondo me, è democrazia perché se tutte le ipotesi di lavoro
vengono decise dall’insegnante, si arriva al paradosso di negare
i principi stessi ai quali tu vuoi educare i ragazzi.
Anche l’inglese è una particolarità di questa
scuola. Viene insegnato già dalla prima elementare, quindi la nuova
riforma della scuola ricalca praticamente quello che era già il
vostro modello…
Luisa. Sì, è vero, a Scuola-Città la lingua inglese
viene insegnata già a partire dalla prima elementare. Anche alle
medie il monte ore è superiore rispetto alle altre scuole: sono
quattro ore settimanali in prima e seconda media e cinque in terza. A
queste, vanno aggiunte le ore di compresenza con le altre colleghe di
lettere, di musica, ecc. e i gruppi opzionali del quarto biennio (seconda
e terza media), dove si fa teatro e falegnameria in lingua inglese. Tra
l’altro abbiamo sempre impiegato come docenti lettori di lingua
madre, soprattutto nel primo biennio (prima e seconda elementare), perché
contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le competenze per insegnare
ai bambini piccoli devono essere molto elevate, in quanto le attività
sono soprattutto orali, prevedono il gioco, il mimo, la gestualità,
e solo l’insegnante di lingua madre ha quella ricchezza, quel background
che gli consente di proporre filastrocche, canzoni tradizionali, che magari
uno che non è nativo non conosce. E poi, siccome la trasmissione
avviene soprattutto per via orale, è importantissimo l’imprinting
di una buona pronuncia, perché se si memorizzano dei suoni non
corretti da bambini, sarà difficile eliminare gli errori da grandi.
Poi, all’interno della scuola, tutti gli insegnanti di lingua inglese
hanno svolto una riflessione sulla metodologia e sui percorsi di insegnamento
della materia e hanno steso un curriculum (cosa che peraltro si fa con
tutte le materie) in cui si afferma che le lingue si apprendono meglio
quando vengono stimolati e valorizzati tutti e cinque i sensi e quando
sono coinvolte altre capacità, perché è giocando,
facendo delle cose insieme, applicando la lingua in un contesto di comunicazione
reale, durante la vita di tutti i giorni, che si creano delle specie di
ganci a cui gli apprendimenti linguistici rimangono attaccati. Imparare
esclusivamente sulla pagina scritta, sui libro di testo, forse non ha
molta attinenza con la realtà di vita dei ragazzi. E’ per
questo che in terza media avviene lo scambio con i corrispondenti inglesi:
per dare ai ragazzi la possibilità di utilizzare la lingua in un
contesto reale.
Cos’è questo scambio?
Luisa. E’ una lunga tradizione della scuola, presente già
da quindici-sedici anni. I ragazzi sono in corrispondenza con gli studenti
di una scuola inglese, la Oundle and Kingscliffe Middle School di Oundle
nel Northamptonshire, un paesino inglese in mezzo alla campagna, e ogni
anno gli allievi di questa scuola vengono otto giorni da noi, ospitati
nelle famiglie, e la nostra terza media fa lo stesso: ogni anno andiamo
otto giorni in Inghilterra da loro, sempre ospiti in famiglia (gli insegnanti
vengono ospitati dai colleghi).
E’ un’esperienza molto forte, interessante: praticamente tutte
le attività linguistiche in terza media sono finalizzate a questo
scambio, poi all’esame i ragazzi portano argomenti legati all’esperienza
complessiva. E ogni anno con questi ragazzi inglesi si instaurano relazioni
personali per cui a volta può capitare che negli anni successivi
i nostri ex alunni tornino in Inghilterra per conto proprio, mettendosi
autonomamente in contatto con le famiglie.
L’insegnamento della lingua inglese a partire dalla prima
elementare era già presente all’atto della fondazione di
Scuola-Città?
Luisa. No, all’inizio l’inglese si cominciava in seconda elementare,
poi abbiamo pensato che si potesse anticipare l’esperienza, privilegiando
soprattutto il gioco e l’oralità. Infatti non si parla assolutamente
di lingua scritta in prima elementare. Poi, piano piano, si comincia a
riflettere anche sulla lingua, nel primo o nel secondo biennio, soprattutto
quando l’esigenza nasce proprio dal gruppo classe; sono i bambini,
di solito, che a furia di vedere determinate strutture linguistiche chiedono:
“Ma questo qui cos’è? Perché funziona così?
Perché qui è cambiato?”. Allora si prende spunto da
queste domande per esplicitare i meccanismi linguistici e trovare le risposte
insieme. Dalla quinta elementare in poi, invece, la riflessione sulla
lingua diventa sempre più preminente. Abbiamo anche un’attività
che chiamiamo “italese”, che prevede la compresenza degli
insegnanti di inglese e di lettere, all’interno della quale si fa
una riflessione linguistica e si comparano le strutture delle due lingue,
mettendo in luce uguaglianze e differenze e facendo ipotesi sulle loro
cause.
Poi, all’interno dei gruppi opzionali, c’è il gruppo
di teatro, che allestisce uno spettacolo. Il gruppo opzionale ha una durata
quadrimestrale, quindi il primo gruppo fa la performance alla fine del
primo quadrimestre e il secondo alla fine del secondo quadrimestre. Quella
del primo quadrimestre di solito è sempre allestita in tempo per
essere rappresentato per gli studenti inglesi, che arrivano giusto a febbraio.
Grazie a questo, i ragazzi lavorano con una motivazione forte, perché
se non sono abbastanza bravi il pubblico inglese non capisce e non si
diverte. Infatti quelli del primo gruppo sono generalmente più
in tensione rispetto a quelli del secondo, che invece come pubblico hanno
solamente le famiglie e gli amici.
I ragazzi del primo gruppo quest’anno hanno fatto una drammatizzazione
di Cinderella, una Cenerentola rivisitata da Roald Dahl; in doppia versione,
in inglese e in italiano, si sono fatti da soli la traduzione in versi
in italiano.
Ma cosa cambia nel passaggio dalle elementari alle medie? Per
esempio da più parti viene messo in luce che nella scuola italiana,
mentre le elementari funzionano bene, le medie sono un disastro, e il
passaggio per i ragazzini resta molto difficile…
Cristina. C’è da sottolineare che il modo in cui i bambini
si relazionano tra loro alle elementari è molto diverso da quello
con cui si relazionano alle medie. Alle medie il ragazzo è in una
fase delicata e ci sono proprio modi diversi di affrontare il mondo e
la vita. Le medie rappresentano anche un momento in cui si cerca la differenziazione
dall’adulto. Mia figlia recentemente mi ha fatto una battuta: “Sai
mamma, sono così contenta che tu insegni alle elementari perché
io alle mie maestre volevo bene, invece ai professori delle medie nessuno
vuole bene”. Quindi cambia proprio il tipo di relazione. Poi, in
realtà, sappiamo che si creano rapporti molto significativi anche
con gli insegnanti delle medie.
Stefania Cotoneschi. Effettivamente i ragazzi delle medie sono un’altra
realtà, e il salto avviene proprio tra la quinta elementare e la
prima media. Anche se a Scuola-Città lavoriamo in continuità
e già in quinta elementare si comincia a preparare il passaggio
alla scuola media, in questa fase si verificano delle discontinuità,
sia a livello delle discipline che dell’organizzazione oraria, che
incidono molto sul modo di lavorare con i ragazzi. I ritmi sono molto
più incalzanti, ti impediscono di evadere dall’organizzazione
rigida della giornata, perché sai che finisce l’ora e arriva
il collega. Ci sono, sì, due ore consecutive della stessa materia,
il che consentirebbe un certo respiro, però sono ore di cinquanta
minuti per cui prima dell’intervallo di metà mattina se ne
inserisce sempre una terza che ti costringe a dire: “Beh ragazzi,
volevamo parlare anche di questo ma non ci riusciamo, ne parleremo domani”.
E questo almeno io lo sento come un vincolo forte, che in certi momenti
mi disturba. Mentre invece nella scuola elementare si cerca sempre di
avere dei tempi un po’ più distesi.
E poi i ragazzi più grandi sono molto più dispersivi, molto
più attratti da quello che succede fuori dalla scuola; le dinamiche
fra loro diventano più delicate, viene fuori il discorso maschio-femmina,
con tutto quello che comporta; inoltre sono molto più attenti alla
considerazione dell’insegnante nei loro confronti. Bisogna stare
molto attenti: è fondamentale che si sentano rispettati come persone.
Mentre per i bambini piccoli il rispetto dell’insegnante è
quasi implicito perché è rivestito di affetto, quindi passa
per altri canali, nella scuola media bisogna veramente adottare delle
strategie per far sentire loro che tu, insegnante, li rispetti, indipendentemente
dai loro risultati scolastici.
Un altro aspetto importante di questa scuola è la collaborazione
tra insegnanti. Io ad esempio quest’anno sono passata dalle elementari
alle medie e devo dire che in questo passaggio mi sono sentita tutorata
dai colleghi in modo sorprendente; e certo non è facile chiedere
aiuto a un collega, magari dopo trent’anni di insegnamento: “Dimmi
tu, perché io in questo caso non so che fare”. Ecco, qui
è normale chiedere sostegno.
Cristina. Il fatto di non dover essere per forza perfetti in tutto, il
poter esplicitare le proprie difficoltà è molto positivo,
perché dà la possibilità ai colleghi di aiutarti,
e questo è bello anche per chi ti aiuta; si instaura un diverso
spirito di collaborazione tra insegnanti. Ad esempio può capitare
che in una classe dei ragazzi entrino in contrasto con l’insegnante.
Allora, ci sono due possibilità. O il tuo collega reagisce dicendo:
“Ma no, con me non succede, con me è bravissimo”, e
questo è ciò che accade normalmente nelle scuole tradizionali,
e ti fa sentire proprio un’incapace, oppure ti rassicura: “Va
bene, probabilmente in questo momento ci sono degli aspetti di quel ragazzo
che ti mettono in difficoltà, magari ti sta sfidando -perché
sono cose che capitano, fasi che si attraversano- me ne occupo di più
io, in maniera che tu possa superare questo momento. Vediamo cosa possiamo
fare insieme affinché la situazione si rilassi e tu possa lavorare
meglio”. Ma questo parte dal presupposto di un lavoro collettivo,
di uno scopo comune, e dal fatto di considerare i ragazzi come persone,
con le loro differenze e conflittualità. E’ importante poter
dire: “Questa cosa per me è difficile”, perché
nessuno nasce avendo superato tutte le proprie difficoltà.
Stefania. Questa cosa vale anche per i ragazzi. Credo che, tutto sommato,
non sia così comune accettare l’idea che una determinata
cosa è difficile anche per l’insegnante. Qui è normale
che un insegnante dica ai ragazzi: “Beh, non vi so rispondere subito.
Cercheremo, vedremo insieme di affrontare questo problema”. Questo
è molto educativo, secondo me.
Cristina. Così com’è educativo dire davanti ai ragazzi:
“Ora chiediamo al collega” perché il messaggio è
che la collaborazione va sempre incoraggiata. E questo vale sia per i
rapporti fra persone ma anche fra discipline.
Come sono strutturati i laboratori?
Gabriella. I laboratori sono quattro, e sono caratterizzati per area disciplinare,
c’è la falegnameria, che è più collegata all’area
tecnica, la biblioteca e il giornale, più legati a quella linguistica,
poi c’è il teatro, che investe l’area espressiva. Si
comincia già in prima elementare, e i bambini li frequentano almeno
una volta alla settimana; la stessa cosa succede alle medie: per alcune
discipline, come educazione tecnica, educazione fisica, educazione musicale,
ecc., il carico di ore e di classi è minore rispetto alle altre
scuole per cui l’insegnante investe il resto del monte ore nei laboratori.
Ma sono una particolarità di questa scuola?
Luisa. So che ci sono molte altre scuole che fanno dei laboratori pomeridiani,
soprattutto di teatro, ma sono in aggiunta al monte ore normale. Qui invece
fanno parte dell’orario scolastico. Poi, esperienze come la cucina,
la falegnameria non sono così comuni nelle scuole a conduzione
normale, qui invece fanno parte del curricolo. Inoltre, di solito, i laboratori
sono più diffusi nelle scuole superiori, perché hanno più
flessibilità, maggiori disponibilità economiche e un organico
più consistente rispetto alle scuole medie. Ci sono istituti, come
il Volta o il Capponi, che svolgono alcune discipline in lingua straniera,
ad esempio geografia in francese, e hanno in atto tanti scambi con l’estero,
mentre invece nelle scuole medie di scambi se ne fanno assai pochi; c’è
qualche soggiorno linguistico estivo con le varie organizzazioni, ma è
tutta un’altra cosa, non è uno scambio, è semplicemente
un viaggetto all’estero.
Questo non toglie che in tante scuole si facciano delle cose bellissime,
molto significative.
Gabriella. C’è da dire che nella scuola -cosiddetta- a tempo
pieno non c’era la distinzione tra tempo scolastico vero e proprio
e doposcuola, era tutto integrato in tempo di scuola complessivo, quindi
anche i laboratori avvenivano di mattina, poi, piano piano… Il modello
che ci viene proposto al momento attuale invece abbassa il tempo scolastico
propriamente detto e dà molto valore a quelle che sono considerate
le discipline di base, cioè italiano, storia e geografia; ne consegue,
per forza di cose, che a venir sacrificate saranno quelle discipline come
educazione artistica, educazione musicale, che verranno sfilate dall’orario
scolastico ed organizzate in laboratori pomeridiani facoltativi. Oltretutto,
in questo modo sarà la famiglia a scegliere, anche perché
spesso sono corsi a pagamento, organizzati dagli insegnanti ma anche da
cooperative esterne. Allora, con l’idea di fare partecipare maggiormente
la famiglia alle scelte scolastiche dei ragazzi, in realtà si privatizza
un pezzo di scuola e si parcellizza una scelta familiare, che non avviene
all’interno del confronto scuola-genitori e non si caratterizza
più come un profilo dell’offerta scolastica.
Cristina. Anche per gli alunni questa scuola diventa problematica: puoi
avere pochi soldi a patto di essere intelligente; uno non può avere
pochi soldi e non essere talentuoso. Secondo me questo è un aspetto
gravissimo. Infatti a me le borse di studio fanno venire un gran nervoso,
è come dire: “Se non hai i soldi ti do la borsa di studio,
a patto che tu sia molto bravo”. E quelli che sono medi, e che se
avessero i soldi potrebbero fare anche loro il proprio percorso? A loro
niente?
Alla fine, un atteggiamento che apparentemente sembra andare incontro
alla gente, in realtà trasmette un messaggio diverso: “Noi
vi vogliamo solo se siete il massimo”.
Invece da voi i laboratori come funzionano? Fanno parte dell’orario
scolastico?
Graziano. Da noi cominciano già alle elementari. Man mano che il
curricolo va avanti, i linguaggi specifici, tipici di ogni area, si trasformano
e si adeguano all’età dei ragazzi. Ad esempio, per i bambini
piccoli il teatro rappresenta uno spazio in cui poter drammatizzare, giocare,
travestirsi, assumere ruoli; poi, da una certa classe in avanti, le competenze
accumulate negli anni precedenti -la capacità di stare in scena,
di drammatizzare le storie- vengono arricchite dai linguaggi specifici,
parallelamente acquisiti, in questo caso l’inglese. Così
i ragazzi possono fare una sintesi delle proprie conoscenze e fonderle
in questa esperienza con maggiore naturalezza. Certo, anche nelle altre
scuole si può fare una recita in inglese, non è questo il
problema, è che qui a un certo punto appare come una cosa naturale.
Così come è naturale che di alcune nozioni scientifiche
o matematiche si possa verificare la significatività in un’esperienza
concreta, fino al punto che anche competenze così distanti come
la matematica o le scienze possono diventare occasioni per fare teatro.
Ma, ripeto, con un elemento di naturalità che penso faccia la differenza.
Perché ogni scuola può allestire uno spettacolo teatrale
su Galileo, però la mancanza di artificiosità con cui in
questa scuola si mettono insieme le competenze mi sembra un “in
più”.
Gabriella. In questo modo le competenze rientrano in circolo in continuazione.
Qualche tempo fa una nostra collega ha accompagnato un gruppo di ragazzine
a una puntata di Rai Educational dove si parlava dell’insegnamento
dell’inglese nella scuola dell’obbligo. Ecco, si vedeva che
queste ragazzine, alle quali non erano state assolutamente comunicate
precedentemente le domande, erano molto tranquille, disinvolte; oltre
alla competenza linguistica c’era una certa sicurezza, la mancanza
di timore a parlare con degli estranei, in una situazione di quel tipo.
In fondo, anche il teatro è un confronto con il pubblico. Che il
pubblico sia la tua classe, le altre classi, i tuoi genitori o i bambini
più piccoli, per i quali rappresenti la favola di Cappuccetto Rosso,
non fa differenza. E poi il linguaggio teatrale, così complesso,
è sempre un momento di ricerca di sé, che ha a che fare
con la costruzione di un percorso di autostima. Quando vedo gli spettacoli
che allestiscono i nostri ragazzi penso che non sarei in grado di fare
nemmeno la metà di quello che riescono a fare loro, perché
sono cose molto emozionanti, che fanno ridere, commuovono; fanno parti
buffe, ironiche alcuni prendono in giro se stessi. Insomma, non è
mica facile far ridere il pubblico con quello che stai facendo. Per esempio,
hai visto qualche faccia stupita, qualche lampo di curiosità, quando
sei entrato? Qui c’è gente che continuamente va e viene,
è abitudine parlare, confrontarsi con gli estranei, con la gente
che viene in visita. Secondo me questo è un pezzo di educazione
che non si può realizzare né con un progetto né facendolo
rientrare in un’area disciplinare, ma è frutto di un clima,
di uno stile di vita.
Ritornando ai laboratori alle elementari: quindi non c’è
il maestro unico?
Gabriella. E’ una delle linee originarie. La scuola è nata
infatti con l’idea che, come si dice qui, non ci può essere
il maestro tuttologo, esperto di tutte le discipline, e quindi è
strutturata su insegnanti specializzati in aree, con una ricchezza di
personale che non va però a discapito della relazione. Perché
non è vero che più i bambini sono piccoli, meno è
importante che l’insegnante abbia delle conoscenze.
E’ vero il contrario, soprattutto se pensiamo che quasi tutta la
ricerca pedagogica più moderna identifica nei primi anni di scolarizzazione
il periodo più delicato e difficile, ma anche più interessante
per la costruzione delle conoscenze. Certo, per ottenere questi risultati
deve essere potenziato il lavoro di equipe. Il problema, secondo me, è
che per fare tutto questo, le ore destinate al lavoro di riflessione tra
adulti sono tante e rientrano solo in parte nel calendario sindacale.
E questa è una cosa difficile da accettare fuori di qui. D’altronde
quello dell’insegnante che riflette sul proprio lavoro, che lo documenta,
che si aggiorna e collabora a progetti di innovazione, è un profilo
professionale molto impegnativo, indipendentemente dall’età
dei bambini con cui lavora.
Ma con i maestri specializzati per aree la relazione non ne risente?
Graziano. La relazione insegnante-allievo, con un insegnante solo, ha
alcune caratteristiche che sono ad esempio la chiarezza dei ruoli e l’individuazione
di chi è il depositario delle conoscenze. Se gli adulti invece
sono due, tre o quattro, la relazione si integra e il ragazzo impara che
ogni insegnante è portatore di conoscenze specifiche. In questo
modo la figura e la funzione dell’insegnante, cioè di colui
che conduce l’apprendimento e il gruppo, facilitandone il lavoro,
vengono identificate con più persone. Ma la relazione non viene
sacrificata perché si riproduce con ognuna di queste figure che
di volta in volta rivestono la funzione dell’insegnante. Teniamo
conto che qui il lavoro di cura della relazione viene fatto in maniera
molto accurata. Non è detto che la relazione si sviluppi meglio
con un’unica figura adulta; non sono rari né infrequenti
“accidenti” di percorso che la rendono difficile e problematica,
e in questi casi, se il bambino ha un’unica figura di riferimento
e si gioca tutta la relazione con lei…
Parlavate anche di un progetto sull’educazione affettiva...
Cristina. Sì, è un progetto che si articola in più
settori, assunto da tutta la scuola attraverso una delibera del collegio
docenti, che ha stabilito che la mia cattedra venisse dimezzata, in modo
da potervi dedicare metà dell’orario. Quindi una parte del
mio monte ore la passo in classe, nel tempo restante svolgo delle attività
nelle classi che lo richiedono, in collaborazione con gli insegnanti,
su vari temi relativi all’affettività.
E’ un lavoro che parte da Star bene insieme a scuola, un testo di
Donata Francescato, colei che insieme ad altri ha portato in Italia questa
metodologia, che noi abbiamo chiamato “educazione affettiva”.
Il progetto vuole rendere migliore lo stare a scuola, a livello di relazioni,
di modalità di ascolto e di confronto, perché siamo convinti
che alla base di ogni apprendimento c’è la relazione. E se
a scuola non si sta bene…
All’interno del progetto, abbiamo svolto varie attività:
sulla differenza di genere, sui gruppi, sulla mediazione dei conflitti,
a seconda degli interessi e delle problematiche espressi delle diverse
classi. Con i bambini abbiamo fatto anche un lavoro sul “tempo del
cerchio” (è una traduzione dal circle time inglese). Si tratta
di una particolare modalità di espressione che aiuta i bambini
a parlare dei loro problemi, delle cose che stanno loro a cuore o li preoccupano:
si spostano i banchi e si mettono tutte le sedie in cerchio, dopodiché
-queste le regole- tutti possono parlare o tacere, a seconda degli stati
d’animo; ci si ascolta a vicenda, non ci si giudica, non si utilizza
in altri contesti quello che lì viene detto. E’ un momento
di condivisione di emozioni, preoccupazioni e paure. Per esempio, con
i ragazzi di una classe abbiamo parlato di cosa significa avere i genitori
separati, cosa si prova, quali sono le preoccupazioni, i dubbi; oppure
di che cosa vuol dire avere dei fratelli o cosa accade quando te ne nasce
uno nuovo. Sono temi che nascono dai bambini, che sono i reali protagonisti
del progetto; l’insegnante è solo un coordinatore che al
massimo fa il punto della situazione. Alle elementari cerchiamo di farlo
almeno una volta ogni quindici giorni; alle medie invece un po’
più di rado perché c’è comunque meno tempo,
però è un’esperienza molto significativa. Sempre con
i ragazzi delle medie ci siamo incontrati una volta alla settimana per
trattare temi di più largo respiro; in una classe abbiamo parlato
di cosa significhi essere maschio e femmina, che cosa succede a quell’età,
quali sono le fantasie, le preoccupazioni; in un’altra abbiamo lavorato
sulla mediazione dei conflitti, affinché i ragazzi stessi imparino
a diventare mediatori dei loro conflitti. E’ una modalità
che abbiamo sperimentato per la prima volta e devo dire che è stata
un’esperienza molto bella, sia per noi che per i ragazzi.
A fianco di queste esperienze, c’è un’attività
di sportello che si svolge il martedì nell’intervallo pranzo,
durante il quale i ragazzi possono venire a parlare dello loro questioni;
sono venuti singolarmente, a coppie, a gruppetti, a seconda delle necessità,
oppure, a volte, anche su mio esplicito incoraggiamento: “Mi piacerebbe
sapere cosa pensi a proposito di questo problema specifico”. Allora
i ragazzi vengono e hanno la possibilità di parlare. Da parte nostra
non c’è alcun atteggiamento di giudizio.
Inoltre, abbiamo organizzato degli incontri serali con i genitori, incentrati
su temi che stavano loro a cuore: come parlare della guerra ai bambini,
come usare la televisione, cosa significa l’autonomia, quanti soldi
dare per la paghetta e se darla, come intervenire sui compiti, se aiutarli
o meno. A volte emergono richieste di approfondimento su tematiche particolari,
ad esempio cosa significa fare gruppo per un bambino; quali sono le aspettative
che i bambini hanno dalle loro famiglie e dalla scuola. E’ importante
tra l’altro segnalare che la gestione stessa degli incontri è
stata di gruppo, i genitori si sono confrontati, aiutandosi e dandosi
reciprocamente dei suggerimenti per cui in realtà il mio compito
è stato più che altro quello di raccoglierli e rimetterli
in circolo per renderli utilizzabili da tutti.
In questo progetto è prevista anche una forma di supporto agli
insegnanti che desiderano impegnarsi in prima persona nelle proprie classi.
Tutto questo lavoro, infine, ha portato alla stesura di una specie di
curricolo dell’educazione affettiva.
Sono cose che si fanno anche in altre scuole?
Cristina. So che all’educazione all’affettività ci
sono degli accenni anche nella riforma, ma non sappiamo come verrà
messa in pratica. Nelle altre scuole è frequente che ci siano sportelli
(forse più nelle scuole superiori) oppure la presenza di uno psicologo.
Qui, la caratteristica particolare è che io svolgo sia la funzione
di insegnante che di psicologa. All’inizio abbiamo avuto qualche
perplessità perché temevamo una confusione di ruoli, in
realtà, poi, proprio il fatto che i ragazzi mi conoscessero già
ha fatto sì che non mi considerassero un’estranea.
Gabriella. Progetti di questo tipo vengono portati avanti anche nelle
altre scuole, ma di solito hanno la caratteristica di essere in qualche
modo “puntiformi”, di interessare cioè solo una determinata
classe in un determinato anno, senza casomai ripetersi o estendersi a
tutta la scuola; spesso, del resto, sono legati soprattutto a possibilità
offerte dall’esterno, dal quartiere o da altri enti, e accolte da
quel singolo insegnante o consiglio di classe. Invece per noi aderire
a un progetto del genere significa investire tutta la scuola, partecipare
tutti insieme ai lavori di preparazione e realizzazione, utilizzando parte
del monte ore delle nostre discipline. In fondo, è un modo, anche
per noi, di fare formazione interna, di crescere come insegnanti e di
acquisire determinate competenze. Anche questa è una caratteristica
di Scuola-Città; io, infatti, sono convinta che tutto ciò
che ho imparato, come insegnante, l’ho appreso qui dentro dai miei
colleghi. Teniamo presente che ora per chi vuole insegnare ci sono le
lauree abilitanti, mentre ai miei tempi c’erano solo le lauree specialistiche,
che non comprendevano affatto riflessioni sulla didattica e sui metodi
di insegnamento.
Certo, anche noi iniziamo con esperimenti in classi pilota, che procedono
poi per contaminazioni successive. Ad esempio, su quest’attività
di educazione affettiva ha iniziato Cristina nella sua classe, anche in
maniera un po’ spontanea, poi piano piano si sono aggregati anche
gli altri insegnanti.
Cristina. Col tempo, addirittura è stato deciso di fare un laboratorio
di adulti per mettere a punto un curricolo per l’educazione affettiva.
Di qui il mio parziale distacco dalla classe per poter lavorare in tutte
le altre. Quindi è stato un lavoro di maturazione collettiva, che
peraltro ha presentato le difficoltà tipiche di un’attività
nuova: “Ma questo cosa significa? Che dovremo fare meno matematica?
Qual è il senso di questa cosa?”. Ci sono stati anche momenti
di discussione piuttosto animata, come sempre quando le cose ti stanno
a cuore, ma è stato comunque un percorso in cui la scuola è
cresciuta. Perché l’aspetto importante della questione è
che su un tema così nuovo per la scuola italiana, come l’educazione
affettiva, ci siano già delle sperimentazioni in atto che hanno
dato risultati positivi.
Gabriella. Riflettere sulla relazione è importante perché
è un aspetto pervasivo, che va al di là delle materie e
delle discipline, però io ho bisogno di un approfondimento costante
anche rispetto al mio campo disciplinare, altrimenti mi sento scoperta.
Se si insegna male la matematica, è ovvio che dopo si ha bisogno
del momento di recupero psicologico. Per spiegare il mio lavoro mi piace
usare una metafora: il paradigma della complessità è come
andare in bicicletta, per stare in equilibrio bisogna muoversi, perché
se si sta fermi si cade, e ci vogliono entrambi i piedi per pedalare.
Un altro aspetto che mi colpisce è che qui c’è
una continuità forte tra elementari e medie. I ragazzi sono tutti
qui, nei corridoi, si incontrano, si conoscono…
Luisa. Sì, c’è una continuità vera, anche fisica
perché siamo nello stesso edificio. Ed è una continuità
che riguarda anche gli insegnanti, perché fanno tutti parte dello
stesso collegio docenti, per cui i contatti sono stretti, si lavora sempre
insieme. Poi, nel cosiddetto biennio “cerniera” (quinta elementare
e prima media), quasi tutti gli insegnanti delle medie cominciano a lavorare
in compresenza coi maestri delle elementari. E comunque i ragazzi li incontriamo
tutti i giorni nei corridoi, li vediamo muoversi, comportarsi nelle varie
situazioni, i colleghi ce ne parlano, insomma li conosciamo già
prima che arrivino nelle nostre classi.
Poi c’è una continuità di curricolo, un esempio particolare
è la storia: i vari periodi storici non vengono ripetuti identici
alle elementari e alle medie. Qui si comincia l’attività
storica vera e propria a partire dalla quinta elementare, fino ad arrivare
in terza, dove si fa anche il secondo dopoguerra, che di solito non si
fa mai. In terza e quarta elementare, invece, si fa attività di
storia in maniera più propedeutica, imparando a rendersi conto
del valore del tempo, di che cosa significa il passaggio delle generazioni,
il vissuto dei propri nonni e bisnonni...
Gabriella. Poi, quando in terza media studiano il secondo dopoguerra,
lo fanno con un approccio di tipo progettuale; più che seguire
il libro di testo raccolgono e utilizzano una serie di documentazioni
e fonti storiche di vario genere: film, video, giornali, canzoni. I ragazzi
vengono invitati anche a consultare le famiglie, visto che è un
periodo di storia abbastanza recente…
Con i ragazzi usiamo spesso anche la metafora degli occhiali: “Proviamo
a guardare, ad esplorare questa cosa con gli occhiali dell’italiano,
della matematica, ecc., e vediamo cosa si può imparare”.
Ma per poter fare questo bisogna avere davanti un oggetto concreto e non
qualcosa di astratto, immateriale; non l’idea del bello ma casomai
un giardino, perché poi l’attività è duplice:
in primo luogo c’è l’elaborazione dell’immagine,
delle sensazioni, che quel giardino rimanda, e successivamente la sua
esplorazione attraverso i linguaggi disciplinari. Così, quando
arrivano in prima media, i ragazzi hanno già l’idea di cosa
fare con l’italiano, con la storia, con la matematica e sono essi
stessi a formulare le ipotesi su quello che si può esplorare e
imparare da un oggetto o da un ambiente. Ogni disciplina costituisce un
metodo di analisi e di lettura del mondo che, da solo, è imperfetto.
I vari linguaggi disciplinari vanno allora rimessi tutti insieme e ricollegati
alla complessità dell’individuo, anche attraverso i percorsi
delle emozioni e delle sensazioni fisiche; non dimentichiamo, infatti,
che il primo approccio con la realtà, le prime conoscenze, avvengono
attraverso i sensi.
Questo processo avviene anche per la matematica, che a prima vista sembrerebbe
la materia più astratta e lontana dalla realtà: noi ricerchiamo
situazioni concrete alle quali applicarla, affinché i ragazzi capiscano
che anch’essa è uno strumento indispensabile per capire un
pezzo di realtà, strumento senza il quale quell’oggetto o
quella situazione ci risulterebbero incomprensibili.
Quindi la formazione viene vista come un intreccio di tutti i canali che
l’uomo ha a disposizione per conoscere: quello intellettuale, quello
emotivo, quello fisico, quello della fantasia. E quando un canale di apprendimento
è bloccato, magari quello intellettuale, per rimetterlo in circolo
bisogna agire su un altro. A volte per sbloccare un ragazzino in matematica
conviene fare un po’ più di teatro...
Poi, fra l’altro, con questo metodo si costruiscono anche relazioni
personali tra colleghi che non sono quelle di semplice condivisione del
lavoro. Non siamo solo colleghi, qui c’è una comunità
che lavora, che apprende insieme... E noi sperimentiamo ogni giorno che
questo non solo è possibile, è anche molto stimolante.
Parlando di apprendimento attraverso canali sensoriali ed emotivi,
che importanza può avere un giardino come il vostro?
Graziano. Qui c’è un ambiente naturale invidiabile, un labirinto
naturale; per un bambino è un sogno poter scorrazzare in un arbusteto
di questo tipo.
Ma era già annesso alla casa?
Graziano. No, questo giardino risulta, storicamente, dalla fusione del
chiostro della chiesa di Santa Croce col giardino della famiglia Corsi,
che abitava nell’edificio accanto, una famiglia ricca e importante
di Firenze. In più, abbiamo utilizzato gli annessi di questa casa,
le stalle, ecc. In un secondo momento, il Comune è intervenuto
e ha trasformato anche l’abitazione nobiliare accanto in una scuola,
la Vittorio Veneto, e ha reso utilizzabile il giardino. Infine, tre o
quattro anni fa, il giardino ha subito un intelligente restauro strutturale
che ha tenuto conto del disegno originale ottocentesco, però, nello
stesso tempo, anche del fatto che attualmente è il giardino di
una scuola. Allora sono stati inseriti campi esplorativi, vialetti, punti
di gioco, di cui i bambini possono far parte senza sentirsi schiacciati
dalla significatività del monumento, e nello stesso tempo, evitando
di comportarsi come se fosse una landa di terra di cui fare quello che
si vuole.
Cristina. Fra l’altro di questo giardino usufruisce anche la Vittorio
Veneto, la scuola accanto, perché anch’essa vi si affaccia.
Tra i ragazzi delle due scuole, quindi, ci sono momenti di incontro e,
a volte, anche di scontro; c’è chi ritrova gli amici della
materna, ma ci sono anche momenti di contrasto. Prima c’era una
rete che divideva i rispettivi spazi, ora è stata tolta, per cui
non ci sono più confini, è tutto aperto e si vive insieme,
facendo i turni per i campi di calcio, ecc. Anche questo è un lavoro
non da poco, continuamente da affinare.
Graziano. Inoltre nel giardino si affaccia una biblioteca comunale di
quartiere per bambini; quindi anch’essa ne usufruisce, soprattutto
in occasione di un concorso letterario che si tiene una volta all’anno.
Sentendo tutti i vostri discorsi, sembra che ogni insegnante si
faccia carico della scuola in toto…
Stefania. E’ quello che ci ha permesso di andare avanti relativamente
bene anche nel periodo in cui siamo stati senza direttore e proprio un
insegnante si è fatto carico di tutto. Nella scuola, generalmente,
ogni insegnante ha il suo pezzettino, magari anche importante, però
sempre un pezzettino, e non ha il quadro intero della situazione. Da noi
succede il contrario, un po’ perché la scuola è piccola,
quindi più gestibile, e poi perché per ognuno di noi venire
ad insegnare qui è stato il frutto di una scelta; scelta che non
riguarda una singola materia, ma lo spirito e i metodi di un’intera
scuola.
Ma quali sono le motivazioni che vi mandano avanti?
Cristina. Forse la possibilità di lavorare in gruppo. In questo
senso la nuova riforma sta andando in direzione opposta perché
con la proposta dell’insegnante prevalente si elimina l’opportunità
di lavorare insieme. Noi addirittura abbiamo degli momenti extra scolastici
in cui ci troviamo tra adulti per fare dei laboratori scientifici, linguistici,
ecc., all’interno dei quali discutiamo sui contenuti delle nostre
discipline e su come insegnarle. In questo modo, confrontandoci continuamente
come gruppo, ci sosteniamo reciprocamente e l’entusiasmo gira; se
qualcuno in un determinato momento si sente un po’ a traino ha sempre
qualcun altro che lo sprona ad andare avanti. C’è una battuta
molto divertente di una collega che è andata ad insegnare in un’altra
scuola e parlando col direttore, ha detto: “Vengo da una casa e
mi hai messo in un condominio”. Ora, questo è un pregio,
ma per certi aspetti può essere un difetto perché se il
primo momento di socializzazione è così accogliente magari
i ragazzi... Però è anche vero che, come dicevano gli indiani,
c’è tutta la vita per incontrare difficoltà, perché
dobbiamo cominciare fin da piccoli?
Del resto i progetti nascono grazie al fatto che ci sono più insegnanti,
che quindi possono avere momenti di compresenza e affrontare temi comuni
da angolazioni diverse. E questo è un elemento che fa gruppo, che
motiva moltissimo, perché ognuno sente che la propria parte è
importante ai fini del tutto. La nostra forza nasce proprio dal fare delle
cose insieme. Qui sei chiamato a partecipare alla vita della scuola nella
sua interezza; non è un luogo dove fai le tue ore di lezione e
te ne vai. Purtroppo anche questo è un aspetto in controtendenza:
oggi vengono privilegiati il rendimento e l’iniziativa individuale
e l’insegnante viene incoraggiato a fare solo la propria materia.
Gabriella. Ora una parte del nostro monte ore viene investito nel Centro
Risorse, dove si fa documentazione della nostra sperimentazione, allo
scopo di diffondere e rendere esportabili i nostri modelli anche ad altre
scuole. E’ un modo di metterci al servizio della scuola, di non
fare le cose solo per noi.
Luisa. Io credo che questa scuola dia delle opportunità notevoli;
siamo sempre al corrente della didattica più aggiornata, siamo
coinvolti in progetti di vario tipo e collegati con vari enti, con l’università;
abbiamo la possibilità di essere sempre a contatto con una scuola
viva, proiettata in avanti, che raccoglie gli stimoli, le proposte e le
sfide. Qualche tempo fa siamo stati scelti dall’università
per portare avanti un progetto di educazione ambientale importante e innovativo.
Un progetto che ci ha arricchiti sul versante della metodologia, e che
poi abbiamo applicato anche in altri ambiti, in altri progetti. Inoltre,
alcuni nostri insegnanti hanno collaborato anche con la facoltà
di Scienza della formazione, su progetti di ricerca.
Un altro elemento importante è che la scuola noi la sentiamo come
un vero e proprio luogo di cooperazione. Qui tra gli insegnanti non ci
sono quelle distanze che puoi trovare ad esempio nelle scuole molto grandi,
dove praticamente hai contatti solamente con i colleghi del tuo consiglio
di classe e poco più. Qui ognuno si sente veramente parte di un
gruppo, di cui fanno parte non solo i colleghi, ma anche i ragazzi, i
genitori, il personale. E poi l’avere un organico arricchito rispetto
alla normalità ci consente di avere più compresenze, di
fare esperienze con gruppi più piccoli.
Infine, anche per me il Centro Risorse è importante, ci consente
tutta una serie di opportunità e di scambi che fuori di qui è
difficile trovare: oltre al lavoro di documentazione facciamo i formatori
in corsi di aggiornamento con pacchetti formativi elaborati da noi, che
andiamo a presentare nelle altre scuole; facciamo da tutor agli studenti
e agli insegnanti in formazione, ecc.
Non c’è il rischio che una scuola così impostata
con una sua storia particolare, non riproducibile altrove, resti veramente
una cosa a sé?
Gabriella. Questa è una giusta osservazione. Ce l’hanno detto
anche quelli del Ministero: “Non vi offendete, ma sembrate una scuola
privata”.
Cristina. In realtà è una considerazione significativa,
perché vuol dire che qui mettiamo tutta quella cura che di solito
si trova solo nella scuola privata, dove l’utenza paga. C’è
da dire che qui il numero di ragazzi è forzatamente limitato a
causa degli ambienti ristretti. Ogni anno le domande di iscrizione alla
prima elementare sono quasi il doppio dei posti disponibili. D’altra
parte, una scuola sperimentale forse è giusto che sia piccola,
perché deve appunto sperimentare, per poi rendere esportabili i
propri modelli anche a scuole che hanno ben altri numeri.
Gabriella. A questo proposito, c’è da dire che noi cerchiamo
di fare documentazione di ciò che è esportabile, proprio
a livello di modelli di lavoro, stili di insegnamento, approcci metodologici.
E’ per questo che ci siamo proposti anche come centro risorse per
altre scuole e altri colleghi.
Cristina. Ultimamente abbiamo ricevuto qualche critica e stiamo riflettendo
molto su come fare a mantenere il nostro impianto metodologico aumentando
però il numero di alunni. Cerchiamo di andare verso l’esterno
in modo che questa scuola sia veramente un laboratorio di ricerca.
Ma quanto conta la scuola nella vita di questi ragazzi?
Cristina. Restano a scuola otto ore e spesso nel tempo libero vanno a
casa di questo o quel compagno, oppure rimangono qui a fare musica o attività
in palestra. I bambini di sei, sette, otto anni, lavorano anche otto-nove
ore al giorno.
Graziano. Questa scuola tende anche a rendere più fluido il passaggio
tra l’esperienza familiare e quella scolastica. Una delle nostre
preoccupazioni, infatti, è che la vita dei bambini qui a scuola
sia in qualche modo in comunicazione con la vita familiare, quella del
fine settimana. Che non significa dire: “Ci avete dimostrato la
vostra fiducia scegliendo questa scuola; adesso, da qui in avanti ci pensiamo
noi”. Ci pensiamo noi, ovviamente, per tutto quello che riguarda
l’apprendimento ma, siccome la vita dei ragazzi non è fatta
solo di questo ma anche di esperienze concrete, ci deve essere un continuum
tra scuola e famiglia: un bambino di sei, sette anni sta otto ore a scuola,
poi, alle 16.30, quando esce va in un posto completamente diverso, con
modalità di rapporti differenti. E’ per questo, per rendere
questo passaggio il più sereno possibile, che la scuola è
aperta all’esterno, al quartiere, alle famiglie.
Quindi anche il rapporto con i genitori qui funziona bene? Altrove
mi dicevano che ormai il genitore è diventato il sindacalista del
ragazzo…
Cristina. Molto dipende dall’atteggiamento con cui ci si pone. Non
tutti i genitori sono così collaborativi, alcuni ti mettono in
difficoltà, però se si parte dal presupposto che stiamo
lavorando insieme nell’interesse del ragazzo... Certo, se l’insegnante
si pone con l’atteggiamento: “Ora ti dico tutte le cose brutte
che ha fatto tuo figlio”, allora è chiaro che il genitore
si mette subito sulla difensiva. Invece noi cerchiamo, nel limite del
possibile, di dire: “Il ragazzo ha un problema. Cosa possiamo fare
insieme per sostenerlo?”. Questo però significa cambiare
totalmente visuale; ovviamente non sempre si riesce a instaurare un rapporto,
capita il genitore che dice: “No, il problema è vostro, siete
voi che sbagliate”. Poi ci sono genitori che telefonano, vengono
qui, raccolgono materiali, trascorrono le serate in riunioni, fanno volontariato
per tenere aperta la biblioteca di pomeriggio per consentire ai bambini
lo scambio dei libri. E’ nata anche un’associazione molto
attiva, il Gasc (Genitori di Alunni di Scuola-Città).
Inoltre, noi, come scuola abbiamo un progetto con una città brasiliana,
Florianopolis, si chiama “Brasile è un aquilone”, che
prevede uno scambio culturale e professionale fra insegnanti. Ebbene,
i genitori hanno organizzato una giornata di festa, qui in giardino, per
raccogliere finanziamenti e hanno fatto tutto loro: il banchino dei vestiti
usati, i venditori di bibite, la sfida di pallavolo a pagamento.
Graziano. E alla fine abbiamo incassato 2.500 euro, che servono in parte
per il sostegno economico al gemellaggio (questo progetto prevede anche
un contributo economico perché le scuole brasiliane sono in condizioni
di necessità materiale). Ecco, la gestione organizzativa di questo
scambio è interamente in mano ai genitori.
Di nuovo torna questa cosa di assumersi oneri ed onori: il piacere di
fare la festa ma anche la fatica di girare, telefonare, raccogliere materiali,
passare le sere dopo cena a discutere.
Anche il modo in cui si sono mossi ora che la scuola versa in una situazione
di difficoltà, nel rispetto del loro ruolo, nella consapevolezza
della loro funzione, ci ha davvero meravigliato. Del resto la domanda
è comune: “Che cosa possiamo fare, ognuno nel proprio ruolo,
affinché la crescita dei vostri figli sia il più armonica
e positiva possibile?”. E se la domanda è comune e condivisa
anche le risposte saranno più omogenee. Certo, magari pure dialettiche,
però a favore di una sintesi e non di uno scontro.
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