Libreria delle donne di Milano

Da UNA CITTÀ n. . 115 / Settembre 2003
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Non posso dire: ah sì, sono nata ebrea, però…

Quando Sarfati divenne Salfati e Cohen Collini e poi tanti timbri che sui tedeschi facevano colpo. Gli scout della Brigata ebraica. Quando tra i kibbutzim c'erano discussioni accanite se "sfruttare" manodopera araba. Il disastro attuale, il terribile cinismo di scrivere "Forse uccideremo Arafat". Le difficoltà a discutere in comunità, col dovere di difendere Israele sempre e comunque. Intervista a Renata Sarfati.

Renata Sarfati lavora presso uno studio di traduzioni a Milano, dove vive.

La mia famiglia è originaria dell'impero turco; entrambi i miei genitori infatti sono nati in Turchia; il ramo paterno, poi, è di origine macedone. Il nonno paterno era un funzionario delle poste dell'impero turco per cui tutti i suoi figli nacquero in città diverse. Mio padre a diciotto anni emigrò, dapprima in Francia, dove già si trovava uno dei suoi fratelli, per poi arrivare a Milano, dove conobbe mia madre. Mia madre, invece, era arrivata dalla Turchia a dodici anni, con i suoi genitori, stabilendosi a Bologna e poi a Milano.
La mia è sempre stata una famiglia cosmopolita, forse perché un po' sparsa per tutta l'Europa, e tuttavia molto legata alla cultura e alla tradizione ebraica. Sia mio padre che mia madre però erano assolutamente atei e quindi io non ho ricevuto una formazione religiosa.

Le nostre vicissitudini iniziarono nel '38 quando, a causa delle leggi razziali, fummo costretti a lasciare l'Italia: mio padre, infatti, in quanto straniero non poteva più rimanere né lavorare (faceva il rappresentante per una società di seterie di Como). In un primo momento andammo in Jugoslavia, a Belgrado. Non fu un periodo facile: nel '40 la città fu occupata dai tedeschi e ci fu uno spaventoso bombardamento, arrivato senza preavviso, che io ricordo ancora; per anni è stato un incubo ricorrente: il rifugio, le fiamme, la paura… Presero anche tutti gli ebrei. Fortunatamente noi non eravamo conosciuti; non eravamo iscritti da nessuna parte, e poi mio padre parlava bene il tedesco, perché aveva frequentato la scuola tedesca.
Così rimanemmo un po' sotto l'occupazione tedesca fino a che decidemmo di fuggire in Macedonia, a Skopje, dove mio padre aveva dei parenti. Lì fummo aiutati dal console italiano a Belgrado, una persona veramente straordinaria che aiutò molti ebrei a fuggire; il console ci fece ottenere dei documenti falsi, ricordo che mio padre diventò Salfati e mia madre da Cohen divenne Collini; poi mise sopra ai documenti un sacco di timbri per dargli un po' di importanza, perché i tedeschi erano molto sensibili a queste cose burocratiche. Così, in modo abbastanza rocambolesco, dalla Macedonia riuscimmo a passare in Albania, nonostante le frontiere fossero chiuse e controllatissime.
In Albania c'erano gli italiani, così io potei frequentare una scuola di suore italiane. Andare in quella scuola mi piaceva moltissimo, c'erano i fiori, il mese di Maria, volevo persino fare la comunione... Certo, mi rendevo conto che c'era qualcosa di strano ma non riuscivo a capire bene cosa fosse. Alle mie richieste poi mia madre rispondeva sempre: "Bisogna aspettare papà".
Nel frattempo infatti mio padre era tornato in Italia, rimanendo bloccato dall'armistizio. Mia madre si era così trovata in Albania da sola con noi figli (ci restammo per quasi tre anni). Pensandoci oggi devo dire che fu molto coraggiosa. Allora la preoccupazione principale era che nessuno scoprisse che eravamo ebrei. Anche per questo, di fronte alle nostre domande, si barcamenava sempre dicendo che doveva aspettare il ritorno di nostro padre. In seguito abbiamo scoperto che in realtà lo sapevano già tutti.

Il viaggio di mio padre dall'Albania all'Italia era stato davvero avventuroso. Era voluto tornare in Italia, con i documenti falsi, per poter lavorare e mantenerci, perché la filiale albanese delle seterie intanto aveva chiuso. Così si imbarcò su una nave italiana che però fu silurata e naufragò sulle coste jugoslave. Lui fortunatamente venne salvato da alcuni pescatori. Riuscì così a raggiungere Fiume, dove però rimase di nuovo bloccato.
Mio padre era anche un po' pazzerello: a Fiume aveva scelto di alloggiare nell'albergo che ospitava il comando tedesco; sosteneva fosse "il modo migliore per non farsi notare", perché parlava bene tedesco. Certo, pensandoci adesso, avrà suscitato molti sospetti: un signore solo in un albergo di Fiume, che non si capiva bene cosa ci facesse. Comunque rimase a Fiume per un paio di mesi prima di riuscire a raggiungere Milano, dove rimase sempre nascosto.
In quel periodo di separazione, mia madre dall'Albania gli aveva scritto una lettera -l'unico tentativo di comunicazione in quei tre anni di distacco- e l'aveva affidata a un maresciallo dei carabinieri che stava tornando in Italia; come indirizzo aveva messo quello di una sua amica, ma quest'ultima era sfollata così la lettera era tornata indietro al maresciallo. Allora lui per trovare mio padre pensò bene di mettere un annuncio sul Corriere della Sera. Mio padre quando lesse: "Il signor Michele Salfati è pregato di presentarsi per comunicazioni urgenti", naturalmente si spaventò moltissimo. Non sapendo cosa fare, se presentarsi o meno, decise di mandare un amico, che più o meno avrebbe dovuto dire: "Questo signore lo conosco ma non so dov'è, però magari se c'è qualcosa di grave posso cercare di rintracciarlo". Questa lettera la conservo ancora.
Dopo la guerra tornammo in Italia. I miei genitori mi iscrissero alla scuola ebraica fino alla quinta elementare; lì si parlava di religione e cultura ebraica. La consapevolezza di essere ebrea fino a quel momento non aveva mai avuto un contenuto; certo, c'era la lingua, lo spagnolo sefardita, che i miei genitori parlavano con i parenti, ma per il resto non mi avevano spiegato quasi niente. Il loro modo di spiegarci era stato quello di farci frequentare la scuola ebraica, affinché potessimo avere una formazione culturale, una conoscenza della nostra origine.
Tuttavia, questo non pose fine alla confusione rispetto alla mia identità, alla mia appartenenza: mentre infatti gli amici e compagni di scuola andavano al tempio coi loro genitori, i miei genitori erano assolutamente contrari. Questa sensazione di essere sempre un po' fuori luogo devo dire che è stata un po' una costante di quegli anni: alla scuola cattolica non potevo fare la comunione, alla scuola ebraica ero quella che non andava al tempio… Ricordo che mi rimaneva sempre come una sensazione di insensatezza.
Certo, c'erano i racconti di mio padre, ma riguardavano soprattutto gli eventi della guerra; ricordo che per due o tre anni la sera si faceva regolarmente tardi per ascoltarlo; ci raccontava le sue vicissitudini; addirittura ci faceva imparare a memoria le tappe del nostro percorso di fuga fino all'Albania: Milano-Belgrado, Belgrado-Skopje, Skopje-Urosevac. Per lui era importante che ricordassimo. Però a me questo non bastava.

Il vero momento di svolta fu quando cominciai a frequentare il movimento degli scout ebrei, organizzato dai soldati della Brigata Ebraica dell'esercito britannico. Milano in quegli anni -parlo del '47-'48-'49- era un posto di transito per tutti quelli che tornavano dall'Est, dai campi, in attesa di andare in America o in Palestina.
Milano ovviamente era distrutta. Queste persone allora venivano alloggiate in via Unione, in un palazzo del Comune che era stato affidato alla Comunità Ebraica (adesso c'è una sede della Polizia). Alcune stanze erano state adibite a uffici, c'era anche il tempio, ma la gente era talmente tanta che dormiva nei corridoi, nelle scale. Ho un ricordo molto doloroso di quel luogo, è un'immagine che ho ancora ben presente: erano persone terribilmente provate… molte donne avevano subito degli esperimenti, allora io non sapevo ancora niente, per cui vedere queste persone così…
Tra l'altro due o tre di questi ragazzi erano stati inseriti nella mia classe, in quarta elementare; erano più grandi di noi, ma psicologicamente distrutti, maleducati, impossibili da tenere... La Brigata Ebraica, allora, per cercare di raccogliere questi giovani, ma anche i ragazzi che frequentavano la scuola, aveva organizzato una specie di movimento scoutistico.
Io avevo subito cominciato a frequentarne le riunioni. E' stato lì che ho cominciato veramente ad avvicinarmi alla cultura ebraica. E' stato un momento importante, di ricerca di senso rispetto alle cose che mi erano accadute.
Questo movimento piano piano si è sviluppato trasformandosi in HaShomer Hatzair, un gruppo giovanile sionista di sinistra vicino al partito Mapam (Partito Unico del Lavoratori, legato al movimento kibbutzista).
E' stata la mia iniziazione politica: attraverso questo movimento, ho imparato a leggere Marx, a discutere, a fare politica. Ricordo che facevamo dei campeggi in una fattoria in Toscana, una grande casa di campagna un po' malandata che era stata donata al movimento, e lì la vita era strutturata come nei kibbutz. C'era l'idea di costruire un uomo nuovo; Ber Borochov affermava che il popolo ebraico era rappresentato da una piramide rovesciata, perché non aveva né classe operaia né contadina; quindi per raddrizzare la piramide bisognava liberarsi da paure e condizionamenti, dalla diaspora, e andare in Israele -che nel frattempo era diventato uno Stato- a creare questa base.
Su questo progetto mi impegnai molto: frequentavo assiduamente le riunioni, avevo anche delle responsabilità, organizzavamo campeggi all'interno dei quali si tenevano dei seminari di cultura ebraica e di marxismo, per unire le due cose.
In fondo per me è stata proprio una scuola di politica. Tra l'altro questo movimento precorreva abbastanza i tempi, facevamo cose che all'epoca erano impensabili, come la vita in comune, oppure il fatto di parlare, di confrontarci, di raccontare le proprie difficoltà rispetto al lavoro collettivo, una sorta di autocoscienza ante litteram; era una specie di utopia. Certo, era un movimento improntato su un modello stalinista, anche perché era stato fondato da russi e polacchi, che quindi avevano in testa quel modello.

A diciannove anni il movimento mi mandò in Israele a fare un corso di un anno, per imparare la cultura e la lingua ebraica. Trascorsi sei mesi all'università ebraica di Gerusalemme e sei mesi in un kibbutz dove per metà giornata lavoravo e per l'altra metà studiavo. Colsi anche l'occasione per conoscere alcuni zii e cugini trasferitisi lì. Questa esperienza in particolare mi piacque. Io in Europa avevo una famiglia piccola, composta da poche persone, lì invece trovai una famiglia grande, incuriosita da me, e questa cosa mi trasmise un grande senso di affettività. Infatti poi sono diventata il trait d'union tra loro e il resto della mia famiglia.
Il paese mi colpì moltissimo. Era il '57, Israele era stato fondato da poco ed era ancora molto povero, il cibo era carente, la carne scarsa e la gente lavorava moltissimo. C'erano persone ancora fresche della guerra che non volevano mai parlare del proprio passato, e però nello stesso tempo c'era una grandissima tensione, una forza e una vitalità che mi colpirono e affascinarono: qualcosa si stava formando e tutti partecipavano.
Il kibbutz dove vissi quei sei mesi era composto perlopiù da vecchi originari di una colonia della Russia, persone di grande qualità intellettuale, scrittori, gente colta e brillante. La mia insegnante, ad esempio, era una scrittrice molto nota in Israele e suo marito dirigeva una casa editrice di sinistra, tipo Rinascita. Ricordo che in quel periodo c'era un grande dibattito in merito alla questione se i kibbutzim dovessero o meno prendere manodopera araba -qualche kibbutz si era ingrandito e non riusciva più a far fronte a tutto il lavoro con la manodopera interna-; rammento grandi discussioni: "Ma allora tu sfrutti gli arabi", "No, perché sono loro a cercare lavoro"; furono in molti a lasciare il proprio kibbutz perché era stata fatta la scelta di prendere questa manodopera esterna.
Devo dire però che in generale il livello delle discussioni era molto ideologico. Io infatti, non riuscivo assolutamente ad immaginarmi in quella vita, la sentivo un po' claustrofobica. E poi mi frenava molto la lingua; già avevo dei genitori che non avevano una vera lingua madre, perderla anch'io, e ricominciare in un paese nuovo, con una lingua nuova, la sentivo come una cosa che non avrei potuto tollerare. Israele mi affascinava, mi piacevano molto anche alcune delle persone che avevo conosciuto, degli ambienti che avevo frequentato, però nello stesso tempo sentivo un'estraneità di fondo. Così fui felice di tornare a Milano.
Mio padre era fermamente antisionista, diceva sempre che la nascita di Israele era stata la vittoria di Hitler, che era così riuscito nell'intento di mandare via gli ebrei dall'Europa. Infatti quando andai in Israele mi osteggiò in tutti i modi, ricordo che dovetti fare delle scene tremende. D'altronde lui era stato contrario anche a tutta la mia esperienza precedente nel movimento. Mia madre era una che lasciava fare, non interveniva; lui invece aveva un carattere molto polemico. Durante l'anno che trascorsi in Israele mi telefonava dall'Italia ogni tre giorni dicendomi di tornare. Anche perché la situazione stava cominciando a peggiorare, cominciavano gli attentati… Certo, non c'era una tensione paragonabile a quella attuale, ma comunque non era un'atmosfera tranquilla.

Tornata da Israele lavorai per due anni, poi mi sposai e nacquero i miei due figli. Devo dire che però da allora ho sempre mantenuto i rapporti con il movimento, e in generale ho sempre fatto parte di gruppi che hanno seguito la vita di Israele, anche contestandolo duramente.
Dopo il '67, quando Israele occupò i territori (allora si sperava che l'occupazione fosse temporanea) lavorai molto con la sinistra italiana e col Pci di allora, che aveva assunto posizioni molto rigide contro lo Stato di Israele; si facevano moltissime riunioni nelle cellule del partito, alle feste dell'Unità o nei convegni: noi cercavamo di far sì che la critica tenesse conto anche delle ragioni di Israele.
Anche i miei figli hanno frequentato un po' questo movimento giovanile, ci tenevo che avessero una conoscenza informale, non religiosa, della cultura ebraica. Però, verso i diciotto anni hanno fatto le loro scelte e hanno perso i contatti con il mondo ebraico; soprattutto mia figlia si è allontanata: ha fatto un suo percorso politico scegliendo di ignorare quest'aspetto. Mio figlio invece si è riavvicinato verso il 1998, quando si è unito a un gruppo di ebrei contro l'occupazione in cui è tuttora impegnato. Va spesso in Israele ed è profondamente indignato contro questo governo, i check point, ecc. Ha fatto anche un'intervista a Amira Hass, che l'ha molto colpito.

C'è poi il delicato rapporto tra israeliani e ebrei della diaspora. Io, in qualche modo, sento che Israele mi riguarda; voglio che esista lo stato di Israele. E tuttavia non voglio che esista così. Ci sono degli errori profondi che stanno alla base della sua fondazione, è uno stato teocratico, e però oggi esiste. Credo allora che l'unica cosa che possiamo fare noi ebrei che viviamo fuori, sia quella di sostenere chi, dentro Israele, sta lottando per un paese diverso. Non sono d'accordo con quelli che dicono: "E' una cosa che non ti riguarda perché non sei israeliano". Non è vero.
Intanto riguarda tutti, in un modo o nell'altro, e poi io là ci sono stata un anno, conosco delle persone, ho degli amici e dei parenti a cui voglio bene e questo non lo posso ignorare. E comunque, la mia vita è stata condizionata dal fatto di essere ebrea, non posso dire: "Ah sì, sono nata ebrea, però…". Ovviamente parlo per quelli della mia generazione; vedo che ad esempio per mia figlia è meno condizionante, per i suoi figli forse lo sarà ancora meno.

L'ultima volta che sono stata in Israele è stato quattro anni fa, in occasione della Pasqua. Sono stata impressionata da una specie di eccesso di vitalità. Ricordo ad esempio l'autobus (sì, ho preso l'autobus, quando si è lì la percezione del pericolo cambia radicalmente) che da Tel Aviv porta a Gerusalemme: era pieno di pendolari, studenti, lavoratori, che durante il tragitto studiavano, scrivevano, tutto in modo frenetico. E così per le strade: la gente fa mille cose, si percepisce una tensione fortissima; è una cosa che mi ha molto colpito e anche incuriosito. Poi c'è una grande varietà di gente, è una torre di babele in questo momento, senti parlare tante lingue…
Tel Aviv, la città dove risiedono i miei cugini, è un luogo assolutamente vitale, che mi piace e mi affascina. Però quando discuti, la gente, alla fine, fa sempre prevalere il problema del terrorismo, per cui, anche se è contro l'occupazione, ritiene indispensabile avere un primo ministro come Sharon, e difende l'operato del governo. Non riescono mai a dire: "C'è il terrorismo ma forse, dall'altra parte, c'è uno stato di disperazione". C'è anche il fatto che molti ormai hanno avuto un lutto in famiglia o tra i conoscenti; sono quasi tutti provati personalmente o indirettamente.
Da Tel Aviv sono poi andata in un kibbutz in Galilea, dove vivono ancora dei miei vecchi amici italiani. Lì ho provato un grande senso di tristezza: il kibbutz era molto bello, curato, le case confortevoli, c'era anche una piscina e intorno una natura, un paesaggio stupendi; era un kibbutz ricco, con una fabbrica, degli allevamenti di pesci, frutta, ecc. Però ognuno viveva in casa propria, come in un paese qualsiasi; la sala da pranzo comune era quasi deserta, la gente cucinava in casa propria oppure andava a mangiare un boccone in fretta. Solo dieci anni fa la sala comune a mezzogiorno era l'occasione migliore per incontrare tutti, parlare, salutare i vecchi amici… Questa volta invece c'era un'aria di smobilitazione: i giovani erano pochi, e perlopiù venivano dall'estero per fare le ferie o degli stages (ce ne sono sempre, soprattutto ragazzi tedeschi). Insomma, era diventato un posto di pensionati.
D'altronde oggi Israele è un paese in difficoltà, per tanti motivi: c'è disoccupazione, miseria, violenza nelle famiglie; il welfare e il sistema pensionistico stanno andando a rotoli e c'è una crisi politica estremamente pericolosa. E' un paese che sta andando rapidamente verso il disastro. E' come se fosse in attesa di una qualche apocalisse. Anche tra gli stessi israeliani, chi può cerca di andarsene. Sono oramai centocinquanta le mense per i poveri, dove non vanno solo gli immigrati, ma proprio gli israeliani, persone, famiglie che si sono impoverite; e questa è tutta gente che vota Sharon, anche se è ridotta a chiedere la carità. La paura è diventata una specie di malattia collettiva. E poi magari leggi sui giornali: "Forse uccideremo Arafat". Questo cinismo è una cosa che a me fa molta impressione. Poi, dall'altra parte, ci sono ancora tutti i dibattiti: la diaspora, Israele, chi è ebreo, chi non è ebreo, un tormentone che va avanti da secoli…

Sono iscritta alla Comunità di Milano, che è abbastanza di destra. Parlando con le amiche, spesso viene fuori il discorso: "Perché non ti togli?". Io non mi tolgo perché finché nella Comunità ci sono ancora alcune persone di una certa generazione a cui sono legata, affezionata, questo gesto non lo posso fare, sarebbe una specie di abiura. E' il gesto simbolico che non mi va di fare. Però di fatto queste persone frequentano la Comunità in maniera molto marginale; invece quelli che se ne occupano, almeno qui a Milano, sono i fanatici, i libanesi o i persiani. Gli ebrei libanesi ad esempio sono ricchissimi, religiosissimi ed estremamente reazionari; addirittura hanno costituito un'altra scuola e un altro tempio perché ritenevano che la scuola ebraica e il tempio esistenti non fossero frequentati da veri ebrei, ma da atei. E sono quelli che difendono Israele ad oltranza. Poi, magari nella dimensione privata possono anche criticarlo, ma, come dire, i panni sporchi si lavano in famiglia. E questo per me è una cosa orribile. D'altronde la Comunità è in mano alle persone che poi la vivono, ed è anche giusto che sia così.
Poi, certo, c'è da dire che le Comunità Ebraiche costituiscono una piccola rappresentanza ufficiale ed è abbastanza comprensibile che si conformino alla maggioranza, al governo, e non con eventuali minoranze che lottano. Ad esempio Amos Luzzatto, che non si può certo dire che sia un reazionario, quando deve prendere posizione su Israele a nome dell'Unione delle Comunità Ebraiche sta molto attento e misura ogni parola, perché ogni ebreo si sente come una specie di paladino che deve andare in giro con la spada a difendere Israele contro il nemico, contro tutto il mondo, che non si sa perché ce l'ha con lui.
Certamente anche il fatto di non vivere in Israele conta molto; non condividere il disagio, i rischi, la paura, genera, sì, un senso di colpa, ma soprattutto porta a dire: "Noi dobbiamo difendere questo luogo al di là di quello che fa, non abbiamo il diritto di interferire, perché non viviamo lì. Il nostro compito è quello di difenderlo e basta".
Andrée Ruth Shammah tempo fa ha organizzato un dibattito nel suo teatro, il Pierlombardo; le sue parole mi hanno colpito: "Noi non dobbiamo giudicare Israele, dobbiamo solo difenderlo agli occhi del mondo, qualsiasi cosa faccia". Ecco, io questo modo di pensare non lo posso condividere. Come non potrei accettare di difendere un figlio stupratore, allo stesso modo non potrei mai difendere un figlio che va nei territori occupati a fare del male; non potrei sopportarlo. Invece l'atteggiamento della diaspora è proprio questo: difendere il governo che rappresenta Israele, qualunque sia; tu non sei lì, non voti, non corri pericoli, quindi non hai il diritto di giudicare, devi soltanto difendere l'esistenza di Israele agli occhi del mondo.
Mio figlio, tempo fa, ha cercato di organizzare un dibattito con il rappresentante dell'Olp a Milano, una Donna in Nero e alcuni membri della comunità; avrebbe voluto farlo in comunità, ma gliel'hanno impedito: "No, è impossibile, non si può fare". Finalmente, dopo varie insistenze e trattative, si è potuto fare nella sede dell'HaShomer Hatzair. E' riuscito a far venire alcune persone, perlopiù amici e suoi ex compagni, anche loro su queste posizioni -Israele sbaglia però va difeso- e ne è uscita una serata incredibile. Il rappresentante dell'Olp è stato moderatissimo, molto attento, sull'occupazione ha detto cose che dicono tutti, niente di eccessivo, la Donna in Nero ha portato delle testimonianze e ha parlato dei check point… Ebbene, la reazione è stata un'immediata levata di scudi: "Voi kamikaze…", una tensione incontenibile. Poi, verso le undici, la discussione ha cominciato a sciogliersi e l'atteggiamento di difesa aggressiva ha cominciato a cedere a un'articolazione del discorso: "Sì, è vero, questo è vero, quest'altro è vero". Alla fine si era creata quasi una situazione di fiducia: "Forse possiamo parlarne, forse possiamo dire che anche Israele ogni tanto fa qualcosa che non va bene". Alla fine, uno addirittura ha detto: "Bisognerebbe fare più spesso queste discussioni", uno che fino a quel momento si era scagliato continuamente contro i relatori, che aveva interrotto, che non aveva lasciato parlare. E' come se di fronte ad estranei -figurarsi un palestinese- non volessero ammettere niente, però poi, di fatto, in fondo in fondo tutti hanno voglia di articolare maggiormente il discorso. Sanno come stanno le cose però non possono riconoscerlo, perché la psicologia è che il mondo gli è ostile e vivono le critiche come un tradimento. A volte, dopo un attentato, telefono a mia cugina in Israele, e lei risponde: "Che vuoi? Questo è il destino di essere ebrei".
Ma così non se ne esce. Ripeto, l'unica possibilità, l'unica strada per me è quella di sostenere in Israele le forze che sono contro l'occupazione, che non sono poi così esigue. Purtroppo, non riescono a costituire una forza reale, ad avere una loro consistenza, una loro unità; e non so nemmeno che tipo di visibilità e di capacità di pressione abbiano in Israele. Sono talmente tante, disperse e frammentate, che non si riesce neanche a seguirle…

Sarebbe bello uno Stato di arabi e ebrei insieme, ma mi rendo conto che non è una strada percorribile. Puoi affermare il principio teorico, ma nella pratica non passa, tanto più se instauri la legge del ritorno anche per i palestinesi, com'è giusto che sia. La federazione allora forse è una soluzione più praticabile e ricca di possibilità: potrebbero essere due Stati distinti però avere degli scambi, che anche ai palestinesi porterebbero benessere e crescita economica.
Qualcuno ha proposto che Israele entri a far parte dell'Unione Europea. La trovo un'idea un po' inquietante. Allora si vuole che Israele sia proprio un'emanazione dell'Europa, dell'Occidente (se vogliamo parlare in termini di due mondo contrapposti), ma questo creerebbe un ulteriore abisso tra palestinesi ed ebrei, quando ce ne sono già tanti. Che senso ha? Se cominci a dire: "Siamo qui, però siamo un'altra cosa"…
Io resto dell'idea che quando la gente vive vicina, alla fine si creano delle relazioni; l'ho potuto constatare anche durante i miei viaggi in Israele, parlando con i kibbutzim che vivono vicino ai villaggi arabi: nonostante tutto quello che succede, ci sono ancora delle situazioni in cui ebrei e palestinesi hanno delle relazioni. Ho letto in alcune interviste che molti palestinesi che vanno a fare gli operai in Israele (anche se non è una situazione di parità) hanno un buon rapporto col loro datore di lavoro. Per fortuna l'umanità delle persone esiste e produce dei fatti, prende vie inattese.
Ma se Israele dovesse diventare un pezzo d'Europa, sarebbe veramente la fine di ogni possibilità di dialogo. Se per i palestinesi non ha senso, allora non ha senso neanche per Israele. Tra l'altro dobbiamo ricordare che chi è andato in Israele sapeva di lasciare l'Europa per andare a vivere in Medioriente, anzi era una scelta ragionata e precisa: "Basta con l'Europa dove abbiamo sofferto tanto", quindi ora è paradossale e inutile volersi riconoscere nell'Europa.

Che ruolo ha la shoah, un passato così pesante in tutto questo? Qualche tempo fa il ministro della cultura del partito Meretz, una donna molto in gamba, aveva posto fine ai pellegrinaggi ad Auschwitz per gli studenti delle scuole superiori. Fino ad allora, i ragazzini di diciassette anni, al liceo, avevano nel programma scolastico un viaggio ad Auschwitz con gli insegnanti, da cui tornavano assolutamente traumatizzati: "Tutti ci odiano, tutto il mondo ci odia", altri addirittura arrivavano a dire: "Ma allora abbiamo fatto qualcosa"; per loro era veramente uno choc tremendo. Allora questo ministro della cultura ha detto: "Basta con questi pellegrinaggi; alimentano la sindrome di essere odiati da tutti, accerchiati; in questo modo alleveremo una generazione di traumatizzati". Poi però è caduto il governo, lei è stata licenziata, e credo che i pellegrinaggi ora siano stati reintrodotti. Faccio un altro esempio: l'ultima volta che sono andata a Tel Aviv, mi sono recata a vedere il museo della diaspora, e lì ho incrociato una scolaresca, accompagnata da un'insegnante. I ragazzini avranno avuto quattordici-quindici anni e anche l'insegnante era molto giovane, sui venticinque anni. Nel museo c'era tutta la documentazione iconografica, con foto e documenti vari, sui campi di concentramento e l'insegnante commentava: "Ragazzi, negli anni '40 il mondo odiava gli ebrei e ha fatto questa cosa; poi, per fortuna, è nata Israele così adesso stiamo tranquilli". Mi ha fatto venire un'indignazione…
Ecco, la cosa terribile, che a me fa molto impressione, è che Israele è uno Stato fondato su una tragedia. E la tragedia continua. Quando ci penso mi viene un senso di orrore: non so se Israele sarebbe nato se non ci fosse stato lo sterminio.
Certo, c'erano i sionisti idealisti che sarebbero andati ugualmente e avrebbero costruito una comunità, ma sarebbero vissuti insieme con i palestinesi. D'altronde ci sono sempre stati degli ebrei che andavano a morire a Gerusalemme, o che andavano a vivere in Palestina singolarmente; c'è gente che vive in Israele già da tre o quattro generazioni, ma senza un'idea di Stato. Il sionismo conteneva in sé l'idea di Stato, però di fatto gli ebrei europei non avevano alcuna intenzione di andare in Palestina a crearne uno prima della tragedia della shoah. Forse si sarebbero limitati a dare soldi, offerte, magari per piantare degli alberi, cose di questo tipo. Nel '48, quando fu creato lo Stato e scoppiò la prima guerra erano passati solo tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo passato era così pesante e così vicino che lo Stato di Israele ha assunto, di fatto, il senso di una sorta di riscatto. Il fratello di mia madre, che non aveva nemmeno fatto il servizio militare ed era totalmente estraneo a certe cose, tuttavia quando Israele vinceva le varie guerre si sentiva così fiero, così orgoglioso, da arrivare a dire: "Finalmente noi ebrei non siamo più le vittime". Nel '57, quando andai in Israele, l'esercito non era percepito come qualsiasi altro esercito del mondo; lì c'erano i tuoi amici, i soldati facevano l'autostop, erano visibilmente stanchi, la divisa non era mai a posto. La formazione era molto severa, però poi c'era questa familiarità… C'era un po' l'idea che Israele aveva un esercito perché bisognava difendersi, ma non era un vero esercito.
E poi ci sono i grandi paradossi: se da un lato da un certo punto in poi è scattata una pesante enfasi sulla shoah, dall'altro, in Israele per anni e anni parlare della shoah è stato veramente un tabù (e se tu chiedevi, com'è capitato a me in Israele, da che paese venisse qualche sopravvvissuto, si rifiutavano di rispondere, ti dicevano: "Non voglio dirlo, voglio solo dimenticare"). A essere idealizzata era la lotta del ghetto di Varsavia, e quindi l'eroismo ebraico, la ribellione; di tutta la tragedia accettavano di parlare solo di quello: "Non siamo stati delle pecore", perché la gente si vergognava e aveva il bisogno di ribaltare quest'immagine, che è venuta fuori con la seconda guerra mondiale, degli ebrei che si sono lasciati portare al macello senza reagire, senza un gesto di ribellione. Sono accadute anche delle cose tremende, processi, ebrei dei ghetti denunciati dal consiglio ebraico, esperienze spaventose, ma presenti anch'esse nella nascita dello Stato ebraico. Perché dico tutto questo? Perché la situazione è complicatissima e intricata, ricca di paradossi.
C'è poi un altro aspetto: in ambito ebraico si trascorrono ore, giornate, a discutere di queste vicende, e questo spesso crea lacerazioni, divisioni e rotture irreparabili anche in seno alle famiglie. E' veramente impressionante il coinvolgimento emotivo e la passionalità che questa storia suscita.