19 Novembre 2020

Le Città vicine nell’era dell’emergenza climatica e pandemica

di Simonetta Patanè


Resoconto del convegno


Il 27 settembre scorso si è svolto – online – il convegno annuale delle Città Vicine dal titolo «Le Città Vicine nell’era dell’emergenza climatica… e pandemica» già rimandato una volta dato che il 1° marzo, giorno in cui avrebbe dovuto tenersi in presenza, eravamo all’inizio della pandemia. Purtroppo, la recrudescenza dei contagi ci ha costretto all’ennesimo incontro “virtuale” e abbiamo dovuto rinunciare, ancora una volta, alla calda accoglienza della Casa Mag di Verona e a tutti quei momenti di convivialità che, accanto allo scambio di idee ed esperienze, nutrono le nostre relazioni e che quest’anno avrebbero dovuto trasformarsi in una vera a e propria festa per i vent’anni delle Città Vicine. Il convegno, dunque, si colloca tra la prima e la seconda ondata di Covid 19, un tempo di sospensione – come stanno a indicare i puntini aggiunti al titolo originario – in cui ci siamo trovate/i e ci troviamo fronteggiare un’emergenza ancora più dirompente di quella climatica ma ad essa strettamente connessa. Di ciò che è successo in questo tempo sospeso ne rende conto ampiamente il numero speciale di AP – Le Città Vicine alla luce di questo presente – che ha raccolto le riflessioni sulle trasformazioni che stavano avvenendo dentro di sé e nella città durante il tempo della quarantena, così come gli auspici, i desideri, le nuove prospettive. L’edizione speciale ha fatto da base per l’intera discussione il cui filo rosso si è snodato intorno al tema del cambiamento: quello che non dipende da noi eppure ci trasforma, quello che dipende dai nostri desideri, dal nostro impegno e dalla forza che riusciremo a mettere in campo.

Delle trasformazioni indipendenti dalla nostra volontà, introdotte prima dal lockdown e poi dalla convivenza con il virus, sono state messe in rilievo soprattutto quelle che riguardano il piano intimo delle relazioni: se per alcune l’isolamento è stato vera e propria solitudine, non essendo stata colmata la lontananza fisica delle amiche con gli strumenti tecnologici insufficienti nel restituire l’intimità (Rosanna Macrillò) o insopportabili da usare (Maria Concetta Sala), per altre invece è stata l’occasione per fare una selezione delle proprie amicizie e renderle più profonde (Luciana Tavernini). Anche la relazione con la città sembra aver subito un’intensificazione: tanto nei racconti contenuti nel numero speciale di AP quanto dagli interventi nel dibattito, emerge con forza il «legame d’amore» che ciascuna/o intrattiene con la sua città, un legame «quasi spirituale» (Bianca Bottero). La spiritualità ancor di più sembra caratterizzare il rapporto con la natura: quella “selvatica” che viene osservata dalla finestra riprendersi il suo spazio sul cemento e tra gli alberi sporchi di città, quella della campagna e dei boschi in cui molte si sono rifugiate per la quarantena e per «trovare parole di risveglio cercate, non a caso, nell’opera di María Zambrano “Chiari del bosco”» (Stefania Tarantino). La riscoperta della misura umana del paese, della possibilità di una vita spartana in cui si può vivere con poco, di una comunità femminile in rapporto con la terra (R. Macrillò), della generosità degli orti «che non ci hanno fatto mancare niente» (S. Tarantino), fino al silenzio delle passeggiate tra gli alberi (Adriana Sbrogiò) sono tutte esperienze che parlano di raccoglimento e introspezione, di un tempo lento di riflessione sulle proprie trasformazioni interiori. Tutti argomenti di cui in genere «non si riesce a parlare, perché non trovano spazio nei webinar, negli appelli, nei documenti» (Antonietta Lelario) e che, viceversa, ricevono un’«accoglienza materna» nelle Città Vicine perché da sempre «hanno impostato la difesa della città non solo dal punto di vita dei servizi e degli aspetti funzionali ma su un’interpretazione vasta e su valori vasti» (B. Bottero). L’idea di una «città materna» costituisce, senz’altro, un «salto simbolico ed esistenziale» rispetto alla concezione funzionalista (A. Lelario). Per le donne più avanti con gli anni, definite nel dibattito pubblico più a rischio o più “sacrificabili”, che si sono sentite chiamate in causa, l’introspezione si declina come un moto di stizza di fronte alla scelta di favorire i giovani nelle cure «dopo una vita passata a pagare le tasse!» (R. Macrillò), o come pungolo a «prepararsi alla morte» e a fare un bilancio della propria vita per scoprirne la bellezza e la ricchezza e sentire il bisogno di un riconoscimento verso quelle relazioni, politiche e affettive, che l’hanno resa possibile (A. Sbrogiò). Tra i cambiamenti che stanno modificando le nostre abitudini è stato affrontato anche quello inerente l’uso massiccio della tecnologia che è stata riconosciuta, è indubbiamente utile per continuare a mantenere vivi gli scambi fra noi e, addirittura, ci ha permesso di avere relazioni con persone lontanissime nello spazio che probabilmente non avremmo mai incontrato altrimenti, ma, proprio per questo, anche pericolosa perché rischia di fomentare un certo «attivismo fordista» (partecipare a quel webinar, seminario ecc. tutto il giorno) (Marina Santini) e di farci vivere un’esperienza straniante – e il pensiero va immediatamente alle bimbe e bimbi, alle ragazze e ragazzi costretti alla didattica a distanza. Le tecnologie «ci stanno rapinando di qualcosa di intimo, stanno sottraendo linfa vitale alle relazione umane in tutti gli ambiti» (Maria Concetta Sala), ci stanno cambiando e non sappiamo ancora come, non siamo in grado di coglierne le sfumature ed è necessario osservarle con attenzione e approfondirne l’analisi, ad esempio leggendo il testo di Shoshana Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza (Clara Jourdan).

Oltre ai cambiamenti che avvengono in noi e nelle nostre abitudini, si è molto dibattuto su quello che sta accadendo intorno a noi e su come interpretarlo: si tratta di modificazioni reali e profonde o di atteggiamenti opportunistici e strumentali? Uno degli indicatori più eclatanti in questo senso è il linguaggio usato nel dibattito pubblico, anche istituzionale, nel quale sono entrati termini quali cura, relazione, mutualismo e persino “solidarietà” fino a qualche anno fa quasi impronunciabile (Franca Fortunato): quando tali parole-chiave del linguaggio femminista sono pronunciate dal primo ministro Conte o dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen questo è indice di una reale e sostanziale presa di coscienza (F. Fortunato) o è soltanto un uso strumentale, un «sequestro delle nostre parole» (Maria Castiglioni)? Oppure è un insieme di queste due posizioni? «Forse non c’è strumentalità ma l’idea che si debba andare in quell’orizzonte, anche se non è chiara la prospettiva» (Loredana Aldegheri). Viene sottolineato, però, che il linguaggio femminista delle più giovani segnala una costante cancellazione della madre, un vero e proprio «attacco al lavoro fatto dalle donne» (Anna Potito) nel tentativo di «cancellazione della differenza» in favore di un’idea di libertà tutta dentro ad una «cultura della mercificazione» (Daniela Dioguardi). Non si può tralasciare, inoltre, la recrudescenza del linguaggio della violenza e dell’odio, dell’individualismo esasperato che segnala un reale processo di «sfilacciamento delle relazioni» (R. Macrillò). Più in generale, se all’inizio della pandemia, durante il lockdown, abbiamo avuto una forte percezione di una generalizzata presa di coscienza rispetto all’insostenibilità del nostro modello sociale ed economico basato «su un’idea perversa di libertà e autonomia» (S. Tarantino), pian piano la fiducia in un reale cambiamento sembra venuta meno: ben presto si è constatato che «tutti i giochi di potere sono ancora lì» (A. Potito) e se pure è sembrato che ci fosse una «circolarità tra l’esperienza vissuta e il dibattito pubblico e sui social media che avevano fra loro una certa risonanza», ora sembrano essersi nuovamente allontanati essendo il dibattito pubblico tutto orientato alla «ri-organizzazione della normalità» (Chiara Zamboni). Una normalità che peraltro «è stata un imbroglio» in quanto basata sulla «disconnessione maschile che porta a tenere tutto separato anche nell’emergenza» (S. Tarantino). Che si tratti poi di “emergenza” è una questione in sé dato che il termine «ha a che vedere con circostanze imprevedibili: ma siamo certe/i che le attuali emergenze – climatica, pandemica e migratoria – siano il risultato di accidenti che sarebbe stato impossibile presagire?» (M. C. Sala). Il punto è che i cambiamenti in atto non sono altro che l’esplosione di contraddizioni già presenti e già note. Era già chiaro, ad esempio, che lo smantellamento progressivo del sistema sanitario nazionale basato sulla «logica della malattia come risorsa su cui speculare e fare affari», una concezione della sanità centrata sull’ospedalizzazione a scapito di un’assistenza domiciliare «accurata e affettuosa» (A. Di Salvo) e di una «medicina di territorio intesa non solo come cura a domicilio ma anche come cultura sanitaria che implica una vera e propria educazione alla salute» (Maria Vittoria La Grotta) non potevano che farci trovare impreparati e inadeguati a fronteggiare un evento traumatico come la pandemia; ma, indubbiamente, oggi è diventato lampante che «il denaro non compra la salute» e «la produzione di beni e servizi essenziali non possono essere delocalizzati ma devono essere garantiti a livello locale» (L. Aldegheri). Malgrado, inoltre, lo choc procuratoci dal vedere le nostre città «deserte e surreali» durante la quarantena, eravamo consapevoli da tempo che le «città museo» ad uso esclusivo dei turisti non hanno realmente valorizzato l’arte (Laura Minguzzi), che ha la funzione non solo di creazione e diffusione della bellezza ma anche di interpretazione del presente e di espressione della speranza (Katia Ricci). Sapevamo bene che le politiche abitative e urbanistiche dissennate fossero «effimere, incapaci di sostenere la vita», quando, invece, «la città dovrebbe essere il luogo della salute e della protezione della vita» (A. Di Salvo). Semmai, oggi, la pandemia aggiunge l’ulteriore consapevolezza che «occorre un profondo ripensamento della relazione corpo/spazio: i luoghi della città non possono essere destinati a un solo uso, ma vanno messi in connessione tra loro per una maggiore circolarità dei corpi che devono poter tornare a respirare» (Nadia Nappo); si pensi, a questo proposito, allo stravolgimento dell’ambiente domestico che ha modificato la sua fisionomia per fare spazio alla didattica a distanza e al lavoro, mettendo in una continuità assoluta la dimensione pubblica e quella privata (M. Santini).

Insomma, «il presente è incardinato su contraddizioni vecchie» (L. Aldegheri) sulle quali le donne hanno già prodotto molto sapere. In particolare, nei loro venti anni di vita le Città Vicine «hanno fatto un lavoro enorme ed eroico per intelligenza e forza» (B. Bottero) e non a caso nell’edizione speciale di AP «c’è già tutto: abbiamo posto come potrebbe essere la nostra visione del mondo» (Mirella Clausi), incentrata sugli «immaginari di futuro desiderato» (M. Castiglioni). Un sapere femminile che viene da lontano, come molte hanno riscontrato rileggendo, durante il lockdown, le pagine della Kollontaj, della Luxemburg (L. Minguzzi) o dei classici del femminismo anni ’70 «che avevano già detto tutto» (Donatella Franchi). Ma è anche un sapere circolante, viste «le molte donne (filosofe, scienziate, politiche, amministratrici ecc.) impegnate nella vita pubblica che hanno fatto di questi temi il centro della loro attenzione» fino al punto che «ecologia e femminismo nella percezione diffusa formano un continuum» (A. Di Salvo). Dunque, è da qui che occorre ripartire, dalla «fiducia nel lavoro già fatto, e nella passione declinata da tutte noi nei rapporti individuali e spirituali mantenuti nonostante l’isolamento» (Maria Letizia Montalbano). «La ricchezza è l’esserci, in un rapporto costitutivo non solo con le persone vicine. Su questo, che è l’essenziale, possiamo portare il conflitto» (C. Zamboni). Esserci sì, ma in movimento perché «nell’esserci non ci accontentiamo mai, abbiamo un desiderio di andare oltre» (A. Lelario); esserci, inoltre, radicandosi al suolo e, contemporaneamente, mondializzarsi, come suggerisce Bruno Latour: «per tener insieme le immagini opposte di suolo e di mondo» (M. C. Sala). Il che significa che sebbene sembri che sia già stato detto tutto oggi vi è un contesto nuovo: «quaranta anni fa non c’era il Forum Sociale Mondiale di Barcellona» (B. Bottero), «tutto quell’insieme di realtà auto-organizzate e autogestite che hanno costruito un movimento internazionale che cerca di erodere la globalizzazione neoliberista» (L. Aldegheri). Allora, bisogna che lo sguardo si ampli e tenga conto che le medesime contraddizioni si declinano in modi molto diversi a seconda di chi si è e di dove si vive nel mondo a cominciare dalla distinzione, a cui siamo poco abituate, tra ambienti urbani e ambienti rurali.

Dunque, ci sono dei nodi della trasformazione verso i quali siamo attrezzate. Proprio perché donne, siamo abituate al cambiamento perché «il nostro stesso corpo è investito da trasformazioni indipendenti dalla nostra volontà ma che accettiamo e questo ci permette di rispondervi creativamente. Siamo attraversate/i dal cambiamento e dobbiamo impegnarci a credere di poterlo orientare» (L. Tavernini). Il problema vero, allora, è quello di «raffinare la strategia dell’esserci» (L. Aldegheri), perché se pure è chiaro che «la civiltà delle relazioni e la città della cura sono i due pilastri intorno ai quali gira tutto il discorso» (M. Castiglioni), è pur vero che «ne parlano tutti e il punto è fare in modo che la nostra parola e la nostra competenza venga fuori con forza» (Giusi Milazzo). Sicuramente è importante «continuare a organizzare incontri, dare informazione su questi temi e fare pressione sulle istituzioni» (Luciana Talozzi) ma è anche vero che non basta: «più che fare un ulteriore passo, occorre fare uno scatto in avanti» (L. Aldegheri). In questo senso, ci si è chiesto: «sono più efficaci le pratiche di democrazia diretta e progettazione partecipata o le pratiche antagoniste degli anni ’70? Quali incidono di più sul cambiamento?» (M. Castiglioni). Probabilmente queste pratiche sono entrambe necessarie: cercare l’interlocuzione con le istituzioni, avendo fiducia nelle donne di governo e nelle amministratrici (Mirella Clausi), molte delle quali attuano «politiche che rispecchiano importanti avanzamenti nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale» (B. Bottero) e che hanno dimostrato, nella gestione della pandemia, di avere uno «sguardo lungo e lungimirante» scegliendo «di fronte al rischio vita/morte o rischio economico la vita» (M. Santini); aprire conflitti laddove vi è una sordità e un’impraticabilità della relazione. Ma il conflitto deve nutrirsi di una forza che può derivare solo dal fare rete fra noi, aumentare i nostri incontri: esigenza che è stata sentita da tutte/i.


(www.libreriadelledonne.it, 19 novembre 2020)

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