29 Novembre 2002
il manifesto

«Cattolici: dalla parte del potere, mai»

Ida Dominijanni

Settantaquattro anni appena compiuti e una voce da ragazzo, membro della commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro («Non è vero che nella Cei tira solo aria di conservatorismo»), sacerdote dal `51, l’arcivescovo di Cosenza monsignor Agostino è stato uno dei protagonisti delle giornate no-global, decisivo non meno della giunta comunale per il loro felice andamento. I passaggi dell’omelia recitata la sera prima della manifestazione alla veglia di solidarietà con gli arrestati da lui stesso convocata non lasciavano spazio agli equivoci: sugli squilibri della globalizzazione, sulla simpatia per il movimento dei movimenti, sul rispetto per la giustizia dei giudici che però è pur sempre seconda al giudizio della storia nonché a quello divino. L’accusa di aver allestito la veglia contro i magistrati era facile prendersela e infatti l’arcivescovo se l’è presa, ma non ha difficoltà a smontarla: «Non era una veglia contro la procura, neanche per sogno, ho ribadito anche nell’omelia il mio rispetto per il lavoro dei magistrati, era una veglia per la pace, in città e nel mondo». Lui, del resto, non è nuovo a schierarsi dalla parte giusta che non sempre coincide con la parte della giustizia; lo fece anche quand’era vescovo di Crotone, durante le lotte operaie contro la chiusura della Pertusola, e ripensandoci viene fatto di chiedergli che ne pensa oggi della vertenza Fiat. «Sono spaventato da questa crisi, è un segno che in tempi di economia globale non possiamo più far leva su una sola fonte di lavoro e dobbiamo davvero progettare quello che si chiama sviluppo sostenibile. Lo vedo dall’esperienza della Calabria, dove in pochi decenni siamo passati da una cultura rurale a una cultura del nulla, cioè del consumo e basta, appannati dal miraggio di una grande industrializzazione mentre bisognava promuovere un’economia di piccola e media dimensione. Lo dice anche il Vangelo, se vuoi essere grande devi partire dal piccolo».

Ecco, dal piccolo. Cosenza è partita dal piccolo, cioè da se stessa, per fare del corteo no-global una festa grande. «E’ stata una giornata di partecipazione e pacificazione, una festa, sì. Perfino troppo festaiola: in queste circostanze bisognerebbe dire qualcosa, oltre che sfilare in corteo. Comunque, la preoccupazione che sotto sotto avevamo tutti, che potesse accadere qualcosa di spiacevole come a Genova, è stata del tutto fugata. Del resto, in mezzo c’era stata la manifestazione altrettanto festosa di Firenze…».

 

Anche a Genova, gli faccio notare, il clima avrebbe potuto essere tutt’altro, se la città non fosse stata in assetto di guerra e se le forze dell’ordine non avessero tracimato; ma prendo atto, il fantasma di Genova pesa e fa ostacolo a una lettura serena del movimento dei movimenti. «Il movimento si stenta a capirlo proprio perché è in movimento, non è un partito, bisogna saperlo guardare nella sua evoluzione e coglierne il messaggio di fondo». Quale? «Questo: dentro una generazione che pareva tutta appiattita sul consumismo, monta una marea di giovani che dicono che il mondo non va bene. Dobbiamo cominciare a dirlo anche noi con loro, guardare dove sta andando il mondo e cercare di farlo andare diversamente». Ma come si spiega, monsignor Agostino, che nei no-global ci sia una presenza cattolica così forte? «Si spiega benissimo: essere cattolici significa essere portatori di un’istanza di giustizia e di redenzione del mondo. Non si può essere cattolici stando dalla parte del potere: è il potere che ha messo e sempre mette a morte Cristo. L’idea che i cattolici stiano dalla parte del potere, è un riflesso che deriva dall’eredità del partito cattolico italiano, che è un’eredità da purificare». E la Chiesa ha anche qualcosa da apprendere dal movimento? «Certo che sì, il movimento la interpella, le domanda una nuova pastorale. Dobbiamo annunciare una parola divina incarnata, calata nella materialità del mondo».

 

Però, monsignore, oggi come oggi le religioni nel mondo ci si calano anche troppo, non la spaventano i fondamentalismi? «I rischi di fondamentalismo ci sono sempre, ma bisogna stare attenti a capire dove passa il confine fra le istanze di giustizia, i giochi di potere, l’uso delle religioni. In Terrasanta, ad esempio, il problema non sono i fondamentalismi, è la sacrosanta rivendicazione di una terra da parte di due popoli che ne hanno entrambi diritto, anche se oggi in entrambi rischia di prevalere la tentazione di espellere l’altro. Bisogna a tutti i costi comporre questo conflitto assurdo, triste, amaro, invece la diplomazia è inerte ed è su questa inerzia politica che si innestano le logiche di potere e l’uso strumentale delle religioni, anche da parte di bin Laden». E queste logiche, arriveranno fino alla guerra in Iraq? «Io mi auguro davvero di no. La guerra si sa sempre dove comincia e non si sa mai dove finisce. Certo, bisogna trovare anche il modo di controllare Saddam: ma avremo pure altri mezzi dalla guerra per farlo, nelle nostre società ad alta tecnologia, o no?» A proposito di società tecnologica, monsignore, nella sua omelia se l’è presa neanche tanto implicitamente con Berlusconi e la sua idea della società delle tre i, informatica impresa e inglese…«Era un riferimento a una mentalità, di cui Berlusconi è interprete. Una mentalità che trascura i valori necessari a una crescita integrale dell’uomo, in primo luogo la socialità. Con la società delle tre i, rischiamo di mettere al mondo solo dei novelli Ulisse, navigatori solitari nello spazio informatico. Una specie di amplificazione pubblica della solitudine individuale».

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