13 Giugno 2015

L’economia del ‘care’ di Ina Praetorius

Una bella notizia per chi legge in inglese (o in tedesco). Il nuovo libro di Ina Praetorius può essere scaricato gratis qui: http://www.boell.de/en/2015/04/07/care-centered-economy. Si intitola The Care-Centered Economy ed è un viaggio nel pensiero e nella storia occidentale che ci porta nel cuore del presente, ai tanti percorsi di pensiero e di pratiche che delineano un diverso paradigma.

Come viatico alla lettura, mettiamo a disposizione qui di seguito il più recente articolo di Ina pubblicato sul numero 111 di Via Dogana/Pausalavoro. (Giordana Masotto)


Una vita buona per tutti, in tutto il mondo!

di Ina Praetorius

 

Quella che segue è un’autointervista: Ina Praetorius infatti, si diverte molto di più a interloquire che scrivere saggi. Quindi spesso si fa intervistare dalla sua collaudata alter ego Beate Fehle (in italiano suona come Beata Mancanza). Qui parla del convegno “Care Revolution” che si è tenuto a Berlino dal 14 al 16 marzo 2014 presso la Fondazione Rosa Luxemburg.

 

Beate: Che sensazione è stata partecipare con cinquecento persone a un convegno dall’impegnativo titolo “Care Revolution”?

Ina: È stato come arrivare dopo un lungo viaggio. È da più di trent’anni, infatti, che so che il concetto di care/cura può essere la leva per mettere in moto una dinamica politica a livello globale. Nel 1982 è uscito il libro di Carol Gilligan In a different voice (ed. it. Con voce di donna, 1987), oggi considerato il testo classico che ha aperto la strada al concetto di “etica della cura”. Allora leggemmo il libro nel gruppo donne della facoltà di teologia di Zurigo e riflettemmo sull’esistenza di un’etica “femminile” e relazionale. All’inizio degli anni ’90, in un altro gruppo, abbiamo discusso sul lavoro di riproduzione e sull’economia della cura. Quali sono le peculiarità del lavoro di cura? Perché viene svolto gratuitamente o pagato male? Perché non viene considerato nelle teorie economiche? Perché viene considerato dominio delle donne? Che relazione ha con l’economia corrente di mercato? E così via.

Negli anni successivi sono usciti molti testi sull’argomento, per esempio nel contesto della IAFFE (International Association for Feminist Economics) fondata nel 1990. In quel periodo c’era un forte interesse per il concetto di care, che si collegava bene ai dibattiti precedenti sul lavoro di riproduzione e l’economia di sussistenza come anche alle questioni ecologiche. Ma poi il turbocapitalismo degli anni ’90 e la tendenza a decostruire i generi (che fu molto importante, ma ha fatto anche crollare molte certezze) hanno inghiottito ciò che poteva diventare un vasto movimento. Ora però, dopo tanti anni, sembra nascere qualcosa come un movimento per la cura. Non lo dimostra solo il convegno di Berlino, ma anche la campagna americana Caring-Economy (www.caringeconomy.org) e numerose nuove iniziative e pubblicazioni sull’argomento. Da quando in Svizzera la rete Denknetz ha dedicato la sua pubblicazione annuale al tema Care statt Crash (Cura o crash) ci sono perfino giovani uomini di sinistra che se ne occupano, come racconta mia figlia.

 

  1. Così hai partecipato al convegno berlinese che aveva l’obiettivo di fare rete. Com’è andata?
  2. Le organizzatrici si aspettavano l’adesione di una ventina di organizzazioni e 150 partecipanti. Ma le adesioni sono diventate 60 – anche noi come ABC della vita buona – e le iscrizioni 400. Alla fine eravamo 500 circa. Presenze molto diverse: persone handicappate che, insieme ai/alle loro assistenti, volevano riflettere sul diritto a una buona assistenza, madri, padri, bambini/e, comunità di cura autonome, ricercatrici di varie discipline, attiviste per la salute di Roma, la badante polacca Domanska che in Svizzera ha vinto una causa per paga inadeguata. E poi attivisti/e del reddito di base, persone iscritte ai partiti, provenienti da associazioni, dai media ecc. A me ha dato l’idea di una vasta coalizione, quel movimento-contenitore che sto aspettando da decenni.

 

  1. È stata la crisi attuale a dare nuova energia al movimento? Si parla molto di emergenza della cura, tagli agli ammortizzatori sociali, migrazione di lavoratrici della cura, soprattutto dai paesi dell’Europa del Sud, si parla anche di una situazione insostenibile causata dai tagli al sistema sanitario, sociale e scolastico.
  2. Sì, la parola crisi è già nella prima frase della mozione discussa e approvata nell’assemblea di chiusura. Non penso sia una scelta felice, perché può suggerire l’idea che senza la crisi attuale la cura non sarebbe un problema. Ma quella frase e il tono complessivamente difensivo, rivendicativo e convenzionale del documento, riflettono il contesto in cui è nato il movimento Care. Oggi è molto più chiaro – rispetto a dieci o vent’anni fa – che la politica ufficiale non mira alla vita buona di tutti ma al profitto di pochi. Ce ne rendiamo conto dappertutto: negli ospedali tagliano fino al collasso; madri e padri verificano che i discorsi su programmazione della carriera, conciliazione, equilibrio vita/lavoro, più che risolvere, mascherano la situazione; le persone anziane, se non sono sane e in forma, si sentono un peso per la società; il care-drain, il drenaggio assistenziale dall’Est verso l’Ovest e dal Sud verso il Nord, sottrae alle economie più povere una forza lavoro importante, che viene poi sfruttata nei paesi più ricchi, perché anche qui sono rimasti in pochi a poter retribuire in modo adeguato una buona assistenza. I problemi di cura oggi sono più acuti, ma questo non significa che fossero risolti prima, quando erano le donne a sentirsi ancora “naturalmente” responsabili per questo lavoro necessario.

 

  1. Se ho capito bene, le ideatrici del convegno – in prima linea la lavorista Gabriele Winker di Amburgo – cercano di mettere insieme i vari contesti del lavoro di cura – case private, asili, ospedali, servizi di assistenza – fino allo stress individuale che nasce per la mancanza di tempo e la crescente difficoltà a badare a se stessi.
  2. Sì, ed era ora che accadesse. Nel convegno di marzo si è deciso di privilegiare lo scambio di esperienze tra pratiche di diversi settori di attività. C’erano pochi discorsi teorici, e questo va bene. Il prossimo passo, però, deve essere lavorare a un linguaggio comune, affinché le/i singoli attori capiscano che hanno un progetto comune di trasformazione. A questo punto il nostro ABC della vita buona potrebbe essere importante: infatti, propone e definisce, in modo provvisorio, una serie di concetti. Ora si tratta di ripensare l’insieme in chiave postpatriarcale, al di qua delle linee di demarcazione tra destra e sinistra, liberale, conservatore o religioso: a partire dal fatto che tutti gli esseri umani nascono e sono dipendenti dalla cura, vulnerabili e mortali. E allo stesso tempo sono liberi di organizzare le loro condizioni di vita in modo da fare spazio ai bisogni e ai desideri e sentirsi accolti. Il motto del convegno “Una vita buona per tutti!” è un buon punto di partenza per far convergere le idee.
  3. Come si andrà avanti adesso?
  4. Ora le tante iniziative che hanno aderito dovrebbero fare rete e spiegare pubblicamente che cos’è questa Care-revolution. Ho notato, durante la imponente manifestazione del sabato pomeriggio, che molte/i passanti erano perplessi: Care? Ma cos’è? Non potete dirlo in tedesco? In ambito accademico, soprattutto nella ricerca economica, sociologica, sociosanitaria, nei gender studies, nell’etica filosofica e teologica, è già stato fatto molto buon lavoro. Ma tanti/e non si sono ancora resi conto che il passaggio da una società di mercato centrata sulla produzione di merci e sul profitto a una società di economia domestica, centrata sul bisogno e sulla libertà-in-relazione di tutti gli esseri umani, significa il cambio di paradigma decisivo della nostra epoca. Ora ci vuole un lavoro transdisciplinare di linguaggio e mediazione affinché il concetto-ponte di care/cura possa sprigionare tutto il suo effetto trasformativo.
  5. Grazie per la conversazione. Continuiamo a rifletterci!

(traduzione di Traudel Sattler)

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