30 Luglio 2005
il Foglio

Culla o bottega

Le donne negli anni 70 lottavano “per poter scegliere”, oggi vorrebbero “non dover scegliere”
A.B.

Roma. Mamme italiane di trent’anni. Sono state loro a dare una piccola scossa alla natalità (ed era un po’ che i demografi discutevano di un quasi impercettibile picco), con un calcetto alla lowest low fertilità d’Italia, la bassissima fecondità, e già però i tecnici la chiamano così: maternità di recupero.
Che arriva un po’ più tardi, a volte parecchio tardi, ma arriva. A quella che in Inghilterra è stata definita “la migliore età per avere un bambino: 34 anni”. Dagli anni Settanta a oggi l’età in cui si fa il primo figlio è salita di dieci anni, si sa. Cosa si può fare per riportarla indietro, per alleggerire il pensiero di un figlio, per allontanare un po’ la media da quell’uno virgola tre figli per donna che significa estinzione a non troppo lungo termine? Visto che poi, in Finlandia, Danimarca e Svezia madri biondissime e modernissime e ben più giovani tengono una media di quasi due figli a coppia, visto che in Francia si fanno più bambini (ma anche più aborti). Politiche familiari, è la risposta. Baby bond, una specie di dote “per aiutare a mettere su famiglia e rafforzare l’autonomia dei giovani”, è la proposta della Margherita. Perché sta quasi tutto lì, nella difficoltà, nella precarietà, però non
solo. “C’è stato un cambiamento culturale notevole rispetto a trent’anni fa – dice al Foglio Marina Piazza, sociologa, presidente di Gender, ex presidente della Commissione nazionale per le pari opportunità della presidenza del Consiglio – Allora si lottava nelle piazze, per la libertà, l’aborto e il divorzio perché si aveva in testa uno slogan: ‘Per poter scegliere’, ora lo slogan, se ci fosse, sarebbe: ‘Per non dover scegliere’. Per non dover scegliere, giustamente, tra maternità e carriera, per avere tutto ma anche per non avere troppe responsabilità: c’è più paura, e c’è un desiderio di maternità e paternità che comincia ad aggirarsi, nebuloso, dopo i venticinque anni, per realizzarsi almeno cinque anni dopo”. Paura che la vita cambi, paura delle rinunce. “Se ci si ragiona troppo un figlio non lo si farà mai, ma si tende sempre di più ad aspettare che il desiderio sia sostenuto da elementi di realtà, sia ben protetto da famiglia, lavoro, sicurezza economica”, dice la Piazza. La paura è dovuta anche al fatto che l’Italia “non è una società accogliente nei confronti delle donne e dei figli. Nelle aziende la mentalità è questa: come sono belle le donne, come sarebbe bello se fossero uomini”.
Significa che si apprezzano le competenze femminili, ma si pretendono comportamenti maschili: ti
mando in Olanda, però devi partire tra un’ora; quest’incarico sarebbe perfetto per te, lavoraci anche la sera. “Sono pochissime le aziende, ad esempio, a concedere il part-time, soprattutto ad alti livelli – spiega la Piazza, che sta facendo una ricerca sul rapporto tra maternità e lavoro fra le giovani donne in Lombardia – mentre in Olanda sia madri sia padri hanno diritto al part time per i primi tre anni di vita del bambino: qui si va in congedo maternità e al ritorno la scrivania è stata spostata, si fa un bambino e si viene considerate residuali”. Non solo politiche familiari, quindi, quel che serve è “una politica di conciliazione”, dice la Piazza, un nuovo welfare.
“La questione dell’instabilità lavorativa è l’elemento principale che ostacola o ritarda una maternità – e se il primo figlio lo si fa a 32, 34 o 35 anni, quasi sicuramente non se ne avrà un altro, in Italia la media
statistica è molto vicina a quella reale”. Instabilità lavorativa significa contratti a termine, assegni di ricerca, “un percorso accidentato che prosegue mese per mese e che offre un’autonomia zoppa ma,
nelle fasce più alte, maggiori possibilità di carriera”. Marina Piazza ha incontrato giovani donne con assegni di ricerca all’Università: “Nessuna avrebbe mai fatto il cambio con un lavoro impiegatizio a tempo indeterminato”. In Svezia ci sono molti strumenti di flessibilità, “semplicemente perché tengono
conto che le donne esistono e vanno sostenute”. In Inghilterra il part time viene concesso anche ad alti livelli, e in Francia le imposte vengono pagate sul quoziente familiare. In Italia “c’è la famiglia”. Le nonne, i nonni. “Quest’ultimo rapporto Istat ha segnalato 20 punti percentuale in meno sul lavoro delle donne con più di 45 anni: sono quelle che restano a casa a occuparsi dei nipotini”. Perché mancano i servizi, mancano gli asili nido. “E c’è un altro fattore culturale: nonostante i cambiamenti, vige
ancora, in Italia, la scarsità di condivisione del lavoro di cura” dice Marina Piazza. Cioè la casa, i bambini, la spesa: “il settantasette per cento del lavoro familiare è fatto ancora dalle donne”, i mariti se la cavano alla grande. E per questo piccolo picco di natalità il rapporto Istat ha registrato un altro dato, fa notare la Piazza: “l’aumento dell’occupazione femminile, sempre costante negli ultimi anni, questa volta si è fermato”.

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