29 Gennaio 2005
Alias

Cini, dal Serpentone alla Casa

Lea Vergine

Quando si farà un’indagine critica sugli architetti e designer donne degli ultimi cento anni sarà troppo tardi. Non si capisce perché non esista nulla di organico sul lavoro svolto dalle sorelle Margaret e Fances Macdonald (gruppo de “I Quattro di Glasgow); da Eileen Gray (la più nota grazie agli scritti dello storico Joseph Rykwert); da Lilly Reich (Verkbund e Bauhaus); da Vanessa Bell (Omega Workshop); da Margaret Kropholler-Staal (De Stijl). E, intanto che ricordiamo queste, si affollano alla mente i nomi di Sonia Terk-Delaunay per tutti gli interventi d’interni come del resto fecero Sophie Tauber Arp e le russe, da Alexandra Exter a Popola a Dan’Ko. E poi Julia Morgan, Cloty Zantzinger, Margaret Leiteritz, Marianne Brandt, Teresa Zarnower, Raili Mietila, Anni Albers, Charlotte Perriaud, Aino Marsio Aalto, Grete Mayer, Maija Isola, Armi Ratia, Ottie Berger, Nanna Ditzel, Wuokko Eskolin fino a Denise Scott Borwn, Alison Smithson, o Judith Chafee…Impressionante vero?!
E’, quindi, con interesse, curiosità (e una certa allegria) che si va a leggere e guardare il libro-intervista che la Silvana Editoriale dedica a Cini Boeri architetto e designer (a cura di Cecilia Avogadro, pp. 165, euro 22,00), passando in rassegna tutta l’opera di architettura lungo un arco di cinquanta anni e quella di design per circa trentacinque.
La Boeri, sin dagli inizi, si caratterizza affrontando i temi della ricostruzione con soluzioni studiate in modo da eliminare quelle differenze sociali che nuocciono alle possibilità di un’esistenza più armonica: dall’Asilo Nido per madri nubili a Lorenteggio al pensionato delle Carline (sempre a Milano, negli anni cinquanta, quando ancora lavorava, giovanissima, nello studio di Marco Zanuso). E qui potrei continuare raccontando, decennio per decennio, un lungo e teoricamente argomentato iter (argomentato nella maniera più propria dalla stessa Cini Boeri), ma certamente ci sarà qualcuno più disciplinatamente preparato di me a farlo, confrontando le operazioni della nostra con quella dei suoi colleghi coevi. Il punto interessante, forse, è un altro.
Alle volte vediamo tra gli architetti verificarsi il fenomeno: prodotto riuscito, identità annullate. Non è il caso di Cini Boeri. Ma prendiamola pure alla lontana. Quando, nel 1986, entrai alla Triennale di Milano, mi misi subito a guardare un filmato su Pina Baush, la strepitosa danzatrice di Wuppertal che ha riformato la coreografia contemporanea. La proiezione continua aveva luogo in un ambiente che riguardava il “progetto domestico” e presentava un piccolo appartamento per due persone. Portava la firma della Boeri, sicchè mi dissi, “toh che rarità, un architetto si guarda intorno e capisce il senso della Bausch. Stranezza”. Per me, allora, e chissà per quanti, Cini Boeri era un nome legato al successo – negli anni settanta e ottanta la resero notissima – di poltrone e divani chiamati “bobo”, “serpentone”, “pecorelle”.
Apro il libro e, come tanti di noi che non sanno di architettura, devo subito dichiarare di essere rimasta felicemente stupefatta di fronte all’immagine di opere come la Casa quadrata e la Casa rotonda a La Maddalena, in Sardegna, e la Casa del bosco, vicino Varese – siamo negli anni sessanta ed Ernesto Rogers ne scrive in modo lusinghiero -; o a quelle di Casa Gramsci vicino Nuoro o, dulcis in fundo, a quelle di Casa Sechi dell’anno scorso, sempre a La Maddalena. Per citarne solo alcune. Questi edifici di uso civile mi sono apparsi molto più significativi degli arredi, il cui successo, mi rendo conto, pure permise a Cini Boeri di ideare e costruire a Bilbao piuttosto che a Stoccarda, a Los Angeles piuttosto che a Tokio o a New York.
Intendo dire che nella distribuzione e articolazione degli spazi esterni e interni si legge una personalità molto più rigorosa (senza essere pesante), molto più ricca di quella che per solito si configura quando si pensa alla professionista milanese affermata. Poi si legge la lunga intervista circostanziata. E allora risultano evidenti caratteri piuttosto rari: l’appartenenza a quella che cinquanta anni fa si chiamava ideologia culturalista ma, al contempo, la dimensione “poetica” di apertura sull’essere e sull’esistere a cui la Boeri non si sottrae mai: l’appassionata riflessione sulle idee dell’avanguardia occidentale, attenta alla cosiddetta civiltà industriale sì ma legata comunque all’impegno etico e politico sapendo collegare invenzione, deduzione e mondo della produzione. Il tutto con un respiro che, manifestamente, andava oltre le tradizioni locali.
Cini Boeri è tra coloro che si sono battuti per una fattiva possibilità di intervento nel sistema dell’imprenditoria e del mercato: scervellandosi (non scervellarsi su qualcosa non è prova di ingegno o di anticonformismo: è solo sciatteria).
Altra peculiarità: l’architettura, nell’architettura, non ha mai omesso l’amore. L’architettura delle emozioni e dei sentimenti… Si può dire? Perché no.
Tra i pregi della pubblicazione – tuttavia molte perplessità lascia una copertina con poltrone e pecorelle (sì, proprio piccole pecore) e una quarta di copertina con una delle più belle case formato francobollo, chissà perché! – c’è il narrare dell’intervistata che riflette la storia, gli entusiasmi e le illusioni dell’ultima metà del secolo appena chiuso. Si parla della Milano degli anni d’oro – agli antipodi di quella odierna ridotta in ginocchio: di Ferruccio Parri e Mondo Crateri (si principia con la guerra); di Gio Ponti e Zanuso: di Luciano Fontana e Aldo Rossi; di Richard Sapper, Ernesto Rogers, Aldo Aldovrandi e della mitica Libreria Einaudi; di Bruno Zevi, Tomàs Maldonado e di tante altre presenze nella cultura d’allora nonché della vita di Cini Boeri.

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