31 Ottobre 2014

DA “VENERI” A “GRANDI MADRI”: COME CAMBIA LO SGUARDO DELL’ARCHEOLOGIA

di Silvia Baratella

 

«Gli uomini primitivi preferivano le obese». No, non è la versione del film con Marilyn Monroe girata al tempo dei Flintstones. È il modo in cui, quand’ero ragazzina, mi spiegavano il concetto di relatività culturale: l’ideale di bellezza femminile, per esempio, era cambiato nel tempo, come provavano certe statuite dell’età della pietra raffiguranti donnone con seni e fianchi ipertrofici, che i primi archeologi avevano battezzato «veneri steatopigie», (“dalle natiche grasse”). In effetti quasi tutti i reperti paleolitici di statuine femminili sono noti come “Venere di…”, intendendo con “venere” non una divinità, ma un ideale di bellezza erotizzante. La più famosa è quella di Willendorf, figurina di calcare trovata in Austria e creata tra 24.000 e 26.000 anni fa.

Le “veneri” sono tra le prime raffigurazioni del corpo umano. Vale a dire che quando l’umanità ha iniziato a rappresentare artisticamente se stessa, si è raffigurata donna. E per farlo ha profuso un grande impegno di tempo, energia, senso artistico e perizia nel levigare e intagliare la pietra con altra pietra o nel modellare la ceramica.

Secondo la lettura che ne hanno dato i primi studiosi – e tanti altri dopo – tutto questo lavoro sarebbe stato fatto – da maschi, ça va sans dire! – sottraendo tanto tempo e lavoro alle attività di sussistenza, solo per produrre oggetti erotici in gran quantità. Un immaginario grottesco, che proietta indietro nel tempo una sorta di paginone centrale di Playboy ante litteram diffuso ad ampia tiratura in tutte le edicole del Paleolitico d’Europa e del Mediterraneo.

Per fortuna c’è stata Marija Gimbutas. Questa etnoarcheologa lituana, pur incontrando fortissime resistenze nel mondo accademico, nella seconda metà del XX secolo ha fatto notare per la prima volta che se i popoli antichi si erano dati tanta pena a riprodurre quella figura femminile, per millenni e su un territorio vastissimo, doveva rappresentare un simbolo potente e di vitale importanza nelle loro culture: in breve, una divinità.

 

Incuriosita dal titolo, il 24 ottobre 2014 ho assistito a una conferenza del Gruppo Archeologico Milanese (http://www.archeologico.org/), La grande Madre del Paleolitico superiore. La storia di una straordinaria scoperta e di un luogo di culto dalla Preistoria ai giorni nostri, tenuta da Eugenio Bacchion.

Vi si è parlato di una gestante morta con la sua bimba ancora in grembo 28.000 anni fa (Paleolitico superiore, periodo gravettiano). Era una donna di Cro-Magnon e i suoi resti sono stati scoperti circa vent’anni dal prof. Donato Coppola dell’Università di Roma Tor Vergata nel riparo sottoroccia di Santa Maria di Agnano, sul monte Rissieddi, vicino a Ostuni (Brindisi). Per questo le è stato attribuito il nome scientifico di “Ostuni 1”.

Era giovane (dallo sviluppo delle ossa, l’età è stimata tra i quindici e i vent’anni) ed è morta poco prima di partorire quella che dall’esame delle ossa risulta molto probabilmente una bambina.

Ostuni 1 è stata inumata dalla sua comunità con tutti gli onori, in una sepoltura contrassegnata da una sorta di cippo di pietra e con un corredo funebre molto ricco: teste di animali, utensili in pietra (raschiatoi, un coltello e altri manufatti); questi ultimi, secondo gli archeologi, simboli della sua appartenenza alla comunità.

La defunta è stata adagiata sul fianco sinistro con le ginocchia piegate, la tempia appoggiata sul palmo della mano sinistra e la mano destra posata appena sopra il pube, come a proteggere il ventre, in una posizione che appare estremamente naturale e che al tempo stesso richiama la posa dei reperti noti come “Veneri di Parabita”: statuette in osso di cavallo rinvenute vicino a Lecce e risalenti anch’esse al Paleolitico (12.000-14.000 anni fa).

Non è l’unica somiglianza con questo tipo di sculture: la donna di Ostuni è stata adornata con quattro braccialetti di conchiglie, due intorno ai polsi e due agli avambracci, e con un copricapo sontuoso, costato di certo moltissimo lavoro: una calotta realizzata con minuscole conchiglie forate e infilate insieme in ordini concentrici. Gli stessi ornamenti sono rappresentati proprio sulla “Venere di Willendorf”: una parure letteralmente divina. Ostuni 1 non è tuttavia l’unica a indossarla. L’archeologo ci racconta che altre due donne di Cro-Magnon di epoca gravettiana sono state rinvenute con gli stessi ornamenti nel sito dei Balzi Rossi (IM) e nella grotta di Paglicci, sul Gargano. Il legame fra le singole donne e la dea madre era quindi ricorrente, e anche diffuso su un territorio molto vasto per un’epoca in cui ci si spostava solo a piedi (i cavalli allora erano solo prede di caccia).

Il pregiato copricapo di Ostuni 1 era impastato di ocra rossa, che secondo gli studiosi è un simbolo di rivitalizzazione, ovvero serve ad augurare o portare salute alla parte del corpo così colorata (per sanarla in vista della rinascita, penso). Il rituale di sepoltura dev’essere stato imponente e deve aver coinvolto tutta la comunità per diversi giorni. Tutto l’apparato di ornamenti, corredo funebre e cippo è stato interpretato come un processo di divinizzazione della giovane defunta, che forse veniva così trasformata in uno spirito tutelare o in una dea-madre. Difficile conciliare questa scoperta con l’immagine di una società in cui le donne sarebbero state solo modelle per figurine erotiche.

Il luogo della sua sepoltura e gli immediati dintorni sono divenuti nelle epoche successive luoghi di culto. A partire da lei? Non si sa. Ma per decine di migliaia di anni, tutte le diverse culture che si sono succedute in loco vi hanno depositato offerte votive. Gli scavi, tuttora in corso, continuano a scoprirne i reperti, sia arcaici, sia di epoca storica. Il sito ha ospitato anche un tempio in periodo ellenistico. Non è ancora stato attribuito con certezza a una specifica divinità, ma le fitte iscrizioni che ricoprono i cocci non ancora ricostruiti presentano ricorrentemente la sillaba “tras”. Gli archeologi ipotizzano che possa essere la parte finale di Demetras, genitivo di Demeter. Se così fosse, siamo di fronte a un’altra madre divina: la madre di Kore/Persefone, uno dei pochi miti sul legame tra madre e figlia filtrato attraverso la cultura patriarcale.

Del resto, il riparo sottoroccia si chiama “Santa Maria di Agnano” perché al suo interno ospita anche una cappella di epoca cinquecentesca, dedicata appunto alla Madonna. Contro una delle pareti naturali è stato eretto e intonacato un muro appositamente per realizzarvi un bell’affresco rappresentante una madonna con bambino: il più potente simbolo sacro della maternità del cristianesimo (che com’è noto non riconosce alla donna caratteristiche divine).

Pensare che un tale filo ininterrotto abbia attraversato tante culture diverse, che spesso ignoravano completamente le precedenti, è emozionante. Immagino che nei passaggi epocali ci sia sempre stato un momento in cui le nuove civiltà venivano in contatto con le vecchie, e che in qualche modo le più antiche facessero in tempo a trasmettere la nozione della funzione sacra del sito, anche poi se ogni cultura lo reinterpretava in una chiave diversa. Mi piace immaginare che siano state le donne a trasmettersi quella conoscenza da un’epoca e da una cultura all’altra, in una lunghissima genealogia simbolica femminile.

 

Gli studiosi che lavorano su Ostuni 1, pur essendo perlopiù uomini a partire dall’archeologo che dirige gli scavi, non condividono per niente il grottesco immaginario dei loro predecessori: se nella conferenza del G.A.M. ogni reperto è stato citato con la denominazione con cui ormai è noto, e si è quindi fatto il nome di molte “Veneri”, questi manufatti sono stati presentati come oggetti di culto ed Eugenio Bacchion ne parla in generale come di “grandi madri paleolitiche”. Dopo la conferenza, chiacchierando con lui, ho scoperto che ritiene scontato che nel Paleolitico vigesse il matriarcato, da un lato, perché non si conosceva il ruolo dell’uomo nella procreazione, e dall’altro perché gli uomini si allontanavano più spesso dalla comunità per cacciare e quindi non dovevano essere loro a governarla. La prova che Marija Gimbutas ha fatto bene a non arrendersi.

sil

La grande madre di Willendorf

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