6 Novembre 2015
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Adele, che ci manca già

di Marina Cosi

Adele Cambria non c’è più, per il giornalismo e per un importante pezzo di storia del femminismo italiani. Se n’è andata nella notte, come ha annunciato il figlio Luciano Valli. Per noi, in particolare, se n’è andata una delle nostre Grandi Madri. Che detto così può far sorridere chi ha avuto modo di conoscerla di persona, visto che fisicamente era molto piccola, un corpo minuto ma con un altissimo concentrato di energia, di intelligenza e di curiosità.

È stata una testarda testimone del diritto, anzi del dovere di ogni donna di essere libera. Partendo da sé. Calabrese, scuole superiori di qua dallo Stretto e università al di là, a Messina: appena acchiappò la laurea, per inciso con un 110 e lode in giurisprudenza, fuggì a Roma.

Era il 1953 e il verbo fuggire lo usava lei, ne sono testimone.

Amava la sua terra ma trovava intollerabile l’oppressione femminile e così la battaglia per la propria libertà la trasformò in una battaglia di libertà per tutte le persone del suo stesso sesso, utilizzando la parola ed il gesto in tutte le loro forme: giornalismo, libri, cinema, teatro, televisione… E presto ebbe la bella occasione di debuttare in un quotidiano innovativo e coraggioso appena nato, il Giorno, fatto da gente come lei: diretto da un accademico medico e da un conte e successivamente diretto da un partigiano e finanziato da un altro partigiano.

Ci lavorò a lungo, la ricordo in redazione, in una delle sue puntate a Milano, ancora nei primissimi anni ’80. Aveva già alle spalle la vicenda di Lotta Continua, direttrice (solo) responsabile trascinata in giudizio dopo l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, così come già aveva scritto e scriveva per altri, fra cui Il Mondo, Paese Sera, La Stampa, Il Messaggero, L’Europeo, L’Espresso, il Diario, l’Unità.

Dall’Unità venne cacciata ma non fu il solo divorzio, tanto che ironicamente titolò un suo libro di memorie “Nove dimissioni e mezzo”. Come a molte colleghe le capitò di “dover” scrivere sotto pseudonimo maschile e così Adele fu Leone Paganini per il Mondo di Pannunzio.

Parallelamente si svolgeva la sua battaglia femminista. Mai però su posizioni estreme, come pure in politica dove fu radicale e socialista. Rifletteva, si confrontava e ne scriveva molto. Aveva anche sul tema una biblioteca sterminata, destinata ora alla Casa internazionale delle Donne. Collaborò a lungo con  Noi donne e  diresse Effe, la prima importante rivista femminista italiana. Fu per inciso amica di Pasolini, altro spirito inquieto, e recitò in tre suoi film. Insomma l’elenco dei suoi libri ed opere teatrali, delle trasmissioni in Rai e a la7, del teatro Maddalena fondato, delle battaglie combattute lo troverete facilmente su tutti i giornali.

Ma quello che ci preme qui ricordare è il ruolo nella crescita di consapevolezza avuto per una intera generazione di lettrici nonché il ruolo di modello per molte giornaliste che si affacciavano alla professione. Una Grande Madre, come furono in molte; cito solo Camilla Cederna, Irene Brin e prima ancora Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff, giù giù sino ad Eleonora Fonseca Pimentel e Cristina di Belgiojoso.

La fonte dell’articolo è Giulia, il network delle giornaliste italiane

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