24 Giugno 2015
il manifesto

Comandante Abdalla, l’altra metà del Rojava

di Giuliana Sgrena

 

«Noi non siamo mili­tari, siamo mili­tanti, non siamo pagate per fare la guerra, siamo come par­ti­giane della rivo­lu­zione. Viviamo con il nostro popolo, seguiamo una filo­so­fia, un pro­getto poli­tico. Con­tem­po­ra­nea­mente por­tiamo avanti una lotta di genere con­tro il sistema patriar­cale. Gli altri com­bat­tenti sono nostri com­pa­gni, abbiamo rap­porti poli­tici e di ami­ci­zia», così Nes­srin Abdalla, coman­dante dell’Unità di difesa delle donne (Ypj), mi spiega il ruolo delle donne com­bat­tenti nel Rojava (Kur­di­stan siriano) e il loro rap­porto con l’unità maschile (Ypg).

36 anni, ma ne dimo­stra meno, nata a Dirik nel can­tone di Jezeri, sicura di sé, prima di essere impe­gnata nell’esercito era gior­na­li­sta, non è spo­sata, come viene richie­sto a tutti i com­bat­tenti kurdi, uomini e donne. Da quando è scop­piata la guerra civile in Siria (2011) – e l’Isis (Stato isla­mico in Iraq e nel Levante) ha attac­cato il Rojava distrug­gendo Kobane – Nes­srin Abdalla è in prima linea, è diven­tata una di quelle «eroine» che sono cele­brate non solo in Kur­di­stan ma nel mondo intero.

«In que­sto momento in Kur­di­stan il ruolo delle donne è sto­rico, non solo per le kurde e per quelle del Medio oriente, ma anche a livello inter­na­zio­nale. La nostra lotta mira alla crea­zione di una nuova società par­tendo da una visione eco­lo­gica, il rispetto della natura, l’affermazione dei diritti e dell’identità delle donne. Il mondo ora è insta­bile, vi sono molte minacce, tra que­ste il ter­ro­ri­smo, come donne com­bat­tenti abbiamo molta respon­sa­bi­lità verso tutte le donne.

 

Le donne che in pas­sato hanno par­te­ci­pato alle lotte di libe­ra­zione dei loro paesi ave­vano messo in secondo piano i diritti delle donne pen­sando che li avreb­bero acqui­siti dopo gra­zie al loro impe­gno, ma non è stato così. E per voi non è così…

Il mondo è pas­sato da un sistema matriar­cale a quello patriar­cale e le donne hanno perso la loro iden­tità. Il patriar­cato ha oppresso le donne, che hanno subito vio­lenze anche fisi­che, e pur lot­tando non sono riu­scite a con­qui­stare uno spa­zio nella società. Eppure le donne hanno sem­pre aspi­rato alla loro libertà e ai loro diritti, con la nostra lotta stiamo rea­liz­zando que­sto sogno. Sono le lotte degli anni pre­ce­denti che hanno por­tato alla crea­zione dell’Ypj, è stato l’esempio del movi­mento delle donne del Pkk che per anni hanno lot­tato sulle mon­ta­gne per la loro iden­tità e libertà. Le donne sono state pro­ta­go­ni­ste della pri­ma­vera araba ma que­sto non ha aperto loro una strada per l’affermazione dei loro diritti, la rivo­lu­zione del Rojava invece ha mostrato la forza delle donne. La nostra è una lotta alla quale par­te­ci­pano tutte: dalle bam­bine di sette anni fino alle donne di settant’anni, que­sto ha per­messo la pre­senza fem­mi­nile in tutti i set­tori, anche quello militare.

 

Credi che le donne com­bat­tenti che affron­tano i ter­ro­ri­sti fana­tici abbiano pro­vo­cato uno shock nell’Isis?

Penso che la pre­senza delle donne tra i com­bat­tenti abbia pro­vo­cato un crollo nelle con­vin­zioni e forse anche nella fede dell’Isis. Loro hanno sem­pre com­bat­tuto con­tro eser­citi di uomini e hanno anche vinto, ma ora tro­varsi davanti delle donne deve essere stato uno shock per­ché hanno dichia­rato le donne nemico numero uno. Inol­tre hanno subito decre­tato che se un com­bat­tente viene ucciso da una donna non può andare in para­diso e il suo corpo viene bru­ciato. Quando sono stati loro a ucci­dere una guer­ri­gliera le hanno tagliato la testa e l’hanno mostrata tenen­dola per i capelli come un tro­feo. Que­sto gesto era il sim­bolo di una scon­fitta ideo­lo­gica dell’Isis. Per noi, al con­tra­rio, com­bat­tere que­sto nemico è diven­tato un segno di iden­tità e ha come ipno­tiz­zato, pro­vo­cato l’attrazione verso di noi di donne arabe, assire, tur­che, tede­sche (tra di loro vi è stata anche una martire).

 

Ci sono anche italiane?

Ita­liane che io sap­pia no, ma potreb­bero anche esserci.

 

Quali sono i vostri rap­porti con la coa­li­zione occi­den­tale, in pas­sato que­sti inter­venti sono sem­pre fal­liti, pen­sate che insieme riu­sci­rete a scon­fig­gere l’Isis?

Noi com­bat­tiamo per la demo­cra­zia, la nostra porta è aperta anche alla coa­li­zione se ci vuole aiu­tare. Finora ci hanno aiu­tato con i bom­bar­da­menti, anche pesanti. Spe­riamo che l’aiuto non resti solo a livello di bombardamenti.

 

Pensi che una coa­li­zione gui­data dagli Usa sia inte­res­sata ad aiu­tare il vostro pro­getto democratico?

Finora l’aiuto è stato solo attra­verso i bom­bar­da­menti che, sap­piamo bene, non erano fatti per noi ma per scon­fig­gere l’Isis che è un nemico comune. Ma occorre andare oltre: il Rojava ha biso­gno di un rico­no­sci­mento inter­na­zio­nale, vedremo se la coa­li­zione sarà dispo­sta a darci anche un aiuto diplo­ma­tico. Chie­diamo la fine di tutti i mas­sa­cri, anche quello della nostra identità.

 

Il primo aiuto potrebbe essere una pres­sione sulla Tur­chia per­ché ponga fine all’embargo che impe­di­sce il pas­sag­gio di aiuti per i kurdi.

Cre­diamo che se la coa­li­zione volesse potrebbe creare cor­ri­doi uma­ni­tari, occorre aprire le fron­tiere per scopi uma­ni­tari, ma abbiamo biso­gno anche di rap­porti commerciali.

 

Il suc­cesso dell’Hdp (Par­tito demo­cra­tico del popolo, par­tito di ispi­ra­zione kurda) nelle recenti ele­zioni tur­che potrà favo­rire un cam­bia­mento della poli­tica di Ankara?

Sicu­ra­mente quando un par­tito kurdo è forte è un van­tag­gio per tutti i kurdi, loro sono i nostri rap­pre­sen­tanti in Tur­chia, la loro vit­to­ria è una nostra vit­to­ria. Impor­tante è anche che abbiano eletto nume­rose donne (31 su 79), que­sto è un bel mes­sag­gio al par­la­mento turco. Il suc­cesso dell’Hdp può favo­rire una poli­tica comune dei kurdi. Spe­riamo inol­tre che serva a spin­gere la Tur­chia verso un regime più demo­cra­tico per favo­rire anche nuove rela­zioni con la Siria. Noi vogliamo l’autonomia dei tre can­toni kurdi, ma il nostro paese è la Siria.

 

E in Siria, cosa succederà?

La Siria ha fatto la fine di un kami­kaze, ora non c’è nulla su cui costruire. Noi siamo pronti a livello mili­tare per costruire un nuovo sistema demo­cra­tico ma occorre l’impegno poli­tico. L’opposizione siriana non ha un pro­getto per il futuro della Siria e la pro­po­sta non può venire dall’esterno, potrebbe seguire il nostro esem­pio. Noi non aspet­tiamo che la situa­zione si risolva in Siria per rea­liz­zare il nostro pro­getto che è quello di un’autonomia demo­cra­tica come parte di una Siria demo­cra­tica. Il modello pro­po­sto dal Rojava viene apprez­zato a livello inter­na­zio­nale per­ché garan­ti­sce a tutti di vivere libe­ra­mente con la pro­pria cul­tura, iden­tità e reli­gione. Noi com­bat­tiamo solo con­tro l’Isis e siamo pronte a difen­dere il sistema che abbiamo creato, siamo una gamba del nostro sistema.

 

Ma nella Carta del Rojava è pre­vi­sta la smi­li­ta­riz­za­zione del territorio.

Noi vogliamo man­te­nere solo una forza di auto­di­fesa, per gestire il nostro ter­ri­to­rio. In Medio­riente ogni popolo ha biso­gno di autodifesa.

 

In futuro pensi di restare nell’Ypj?

Oggi il nostro popolo ha biso­gno di difesa, que­sto ruolo deve con­ti­nuare in que­sto momento. Quindi per ora non penso ad altro, se un giorno non ser­virà più lavo­rerò dove sarà neces­sa­rio. In pas­sato ho fatto la giornalista.

 

Cosa chie­dete all’Italia?

Innan­zi­tutto un appog­gio poli­tico per il rico­no­sci­mento inter­na­zio­nale del Rojava, poi aiuti per la rico­stru­zione di Kobane, ma anche una coo­pe­ra­zione più ampia. Inol­tre le armi con cui com­bat­tiamo l’Isis sono obso­lete, quindi ci ser­vono anche armi, ma solo per la difesa

 

(il manifesto, 24 giugno 2015)

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