24 Aprile 2020

Rinoceronti o cigni neri?

di Elvira Valleri*


Non so se la pandemia può essere vista come il modo in cui la natura cerca di impossessarsi nuovamente di uno spazio che l’uomo ha progressivamente eroso, ma certamente segnala alcuni aspetti che dovremo tenere presenti. La scienza ci spinge ad approfondire il legame tra gli esseri umani e la natura e sicuramente Ilaria Capua fa bene a sottolinearlo attraverso diverse iniziative volte a precisare e valorizzare il ruolo della ricerca scientifica per la nostra sopravvivenza.

Non vi è dubbio che i ripetuti richiami della comunità scientifica internazionale sullo stato di salute del nostro pianeta siano rimasti senza risposta come pure le ricerche svolte negli anni passati sulla Preparedness for a High Impact Respiratory Pathogen Pandemic della John Hopkins University (2019). In questo report si legge in modo chiaro ed esplicito come tra le cause di diffusione e di morte, vi potrebbe essere il ricovero massivo ed eccedente, rispetto alle capacità delle strutture sanitarie non adeguatamente attrezzate, per questa emergenza. Dobbiamo allora domandarci come mai vi sia stata una così scarsa considerazione per i richiami, gli appelli e gli studi del mondo scientifico, se si tratti di un’eccezione o sia invece la regola; che valore infine abbia l’enfasi posta sulla fatica e l’eroismo degli operatori sanitari costretti ad affrontare la pericolosità del coronavirus senza adeguati sistemi di protezione.

Non si è trattato di un destino o della sorte malevola, ma di una macchina organizzativa che non ha saputo o potuto lavorare in modo adeguato rispetto alla gravità dei tempi e della situazione, pur con tutte le differenze del caso. La giornalista americana Michele Wucker ci incoraggia a sostituire il mito del “cigno nero”, metafora della catastrofe rara e imprevedibile, con l’immagine del rinoceronte grigio che abbiamo davanti ma che scegliamo di ignorare.

Lo stesso discorso vale per un’altra emergenza che al momento non sembra essere tale e riguarda il mondo della scuola su quale è calato una spessa coltre oltre la quale la didattica a distanza (DAD) nasconde le forme più diverse di comunicazione e lascia alla buona volontà d’insegnanti e dirigenti un settore così delicato in un momento di particolare gravità.

Un silenzio assordante copre il mondo dell’istruzione dove lavorano per lo più donne che svolgono la funzione insegnante, i ruoli amministrativi e di pulizia. Orari incerti, modalità di lavoro non omogenee, alcune virtuose, altre inesistenti. Sicuramente molti sarebbero i temi da affrontare non a settembre, ma adesso quando si va delineando la riapertura delle attività produttive.

Mentre i portoni delle scuole rimangono chiusi il mondo dell’istruzione con i suoi operatori non riesce a trovare alcuna visibilità nel dibattito politico. Il tema della formazione/istruzione non ha appeal nel nostro paese; si tratta di un errore capitale che favorisce a cascata comportamenti, pregiudizi e stereotipi che sembrano avere largo seguito, come le fake news, che non si eliminano per decreto o con prestigiose commissioni, ma attraverso un lavoro serio nelle scuole di ogni ordine e grado attraverso insegnanti motivati e partecipi del discorso nazionale.

A tal proposito vorrei sottolineare, con una punta di amarezza, come invece la prospettiva non solo sia rovesciata ma portatrice di un ulteriore e pericoloso deficit di competenza. Nella task force sulle/contro fake news troviamo un drappello di giornalisti, studiosi della comunicazione e divulgatori scientifici, nemmeno uno storico/storica, che invece sarebbero stati guide preziose per capire come e perché nascono le false notizie

Per coloro che studiano e insegnano storia il problema delle fake news non è nuovo. Vale forse la pena richiamare, a titolo esemplificativo, quanto il grande storico francese Marc Bloch aveva scritto commentando le false notizie che erano circolate durante la prima guerra mondiale (Riflessioni di uno storico intorno alle false notizie della guerra). Le false notizie – scriveva Bloch – sono spesso lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti perché una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua origine e dunque solo ad una lettura superficiale può apparire come fortuita. Si chiamano strutture profonde e le storiche e gli storici lavorano attraverso queste categorie interpretative.

La prospettiva storica permetterebbe un’altra interessante riflessione, che appare in questo momento di “ripartenza” essenziale: tutte le crisi che l’umanità ha conosciuto e attraversato hanno ridefinito gli spazi e forse anche il tempo, ma soprattutto le relazioni di genere così come è possibile verificare nel secolo che abbiamo alle spalle.

Il mutato contesto che stiamo sperimentando impone un ripensamento di molti aspetti della nostra vita, fra questi la rilettura delle relazioni di genere appare fondamentale nel momento in cui si disegna una prossima riapertura delle attività produttive che sembra composta, nella mainstream narrative, di una forza lavoro fatta per lo più di uomini, senza responsabilità familiari o che possono delegare alla moglie o compagna la cura dei figli, mentre la presenza e l’aiuto dei nonni non è più disponibile o ipotizzabile. Un balzo all’indietro di almeno mezzo secolo come se fossimo ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso. Chiara Saraceno ha fatto notare recentemente come da tempo le famiglie italiane siano mutate anche se l’occupazione femminile continua a rimanere comparativamente bassa.

Mi auguro che la commissione predisposta dalla ministra Bonetti s’interroghi su questi temi in una prospettiva di lungo periodo e con un’ottica attenta a cogliere come storicamente i grandi mutamenti economici e sociali, oltre che politici, hanno ridefinito ruoli e relazioni tra uomini e donne: dalla più volte evocata peste del XIV secolo, alla rivoluzione francese, alla prima guerra mondiale solo per fare gli esempi più noti.

La posizione delle donne – rispetto agli uomini – non dipende tanto da quello che fanno ma dal valore che socialmente si attribuisce alla loro attività; penso al rapporto pubblico-privato che in queste settimane è stato così forzatamente ridefinito.

Mutare il nostro sguardo sulla storia, incrociarlo con nuove domande e nuovi soggetti, può forse aiutare a comprendere meglio i cambiamenti che stiamo vivendo; metamorfosi complesse e per molti aspetti ancora da interpretare, che tuttavia sembrano assegnare alla presenza delle donne, nel farsi del tempo domestico che stiamo vivendo, una centralità che sarà necessario non dimenticare per coglierne le strutture profonde dalle quali ripartire.


* Elvira Valleri fa parte della Società italiana delle storiche


(www.libreriadelledonne.it, 24 aprile 2020)

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