15 Gennaio 2014
Il Quotidiano della Calabria

Il cognome del padre e della madre

di Franca Fortunato

 

Un’antropologa, Giuditta Lo Russo, nel lontano 1995 pubblicò un libro sull’origine della paternità («Uomini e padri. L’oscura questione maschile», Ed. Borla), in cui portava alla luce le ragioni per cui gli uomini hanno inventato, nella lontana età primitiva, la figura del padre. Una questione ancora oggi aperta, come dimostra la vicenda della condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei Diritti Umani, sulla mancata possibilità di attribuire il cognome della madre al figlio e alla figlia, e il conseguente decreto legge del Governo. Per poter capire il senso di quel decreto, è il caso di ricordare quanto Giuditta Lo Russo sostiene nel suo libro. «In quell’età -lei scrive -, quando si ignorava la proprietà fecondativa dello sperma, c’era “ignoranza della paternità” e questo spiega l’allora matrilinearità (discendenza materna) a cui l’uomo poteva partecipare solo legandosi alla madre. Gli uomini si sentivano, così, esclusi dalla generazione della vita e dalla discendenza, il che creava in loro una “situazione esistenziale” insostenibile. È per inserirsi nel processo procreativo che inventarono, sul piano culturale e sociale, la figura paterna e il suo legame con il bambino. Originariamente, perciò, non è il figlio ad aver avuto bisogno di essere riconosciuto dal padre, ma è innanzitutto il padre che ha avuto fondamentalmente bisogno di questo riconoscimento e di dare il nome al figlio. L’uomo ha costruito il patriarcato per risolvere la sua “situazione esistenziale” nel processo procreativo, si è creato un ordine in cui si è dato una posizione di centralità e di dominio. Ha rovesciato la dipendenza naturale dalla madre nella dipendenza sociale della donna da lui, quale padre, marito, fratello. All’origine della creazione della paternità vi è la cancellazione della relazione primaria madre-figlio e figlia, e quando gli uomini conobbero il loro apporto genetico alla procreazione, se ne servirono per rafforzare, ancora di più, un ordine che assicurava loro potere e controllo, nella famiglia e fuori, sulla maternità, svalorizzata nella sua capacità riproduttiva. Quando si riconoscerà che “la madre è più antica del padre”, come scriveva Bachofen, e che si è figlie e figli perché si ha una madre, la questione del cognome ai figli troverà il suo giusto ordine.» Di questo libro parlai per la prima volta, su questo giornale, nel 2001 in occasione del caso di una donna, Anna D., che non aveva voluto che a suo figlio, nato da una relazione extramatrimoniale, fosse attribuito il cognome del padre. L’uomo, sposato, dopo qualche anno di riflessione, aveva deciso di legittimare il piccolo e per fare questo aveva ottenuto anche il consenso della moglie. Così i giudici, sia di primo che di secondo grado, avevano deciso che il minore si sarebbe chiamato come lui, previo abbandono del cognome materno. Anna, allora, fece ricorso alla Cassazione, che accolse la sua richiesta che il figlio mantenesse il suo cognome. Veniamo all’oggi. Un altro caso. Alessandra Cusan e Luigi Farro, genitori di Maddalena, nel 1999 si vedono impedito di registrare la figlia con il solo cognome materno. Si appellano alla Corte europea di Strasburgo e questa dopo anni, in chiave antidiscriminatoria, ha stabilito che i genitori hanno il diritto di dare ai propri figli e alle proprie figlie anche il solo cognome della madre, condannando l’Italia per averlo negato ai due coniugi. Il Governo corre ai ripari e in questi giorni ha approvato un decreto legge in cui si consente alla madre di dare il suo cognome ai figli e alle figlie solo se il padre è d’accordo. Ancora una volta la legge cancella e disconosce il fatto che donne e uomini veniamo al mondo da una donna. È lei che ci introduce nel mondo dandoci “la vita e la parola”, come scrive Luisa Muraro nel suo libro del 1991 «L’ordine simbolico della madre» (Ed. Riuniti). Non c’è simmetria, non c’è parità e uguaglianza, tra il diventare madre e il diventare padre. È finito, grazie alla rivoluzione femminista, il dominio maschile sul corpo delle donne e con esso il “vecchio” patriarcato, dentro cui gli uomini hanno inventato il primato della paternità con la trasmissione del loro cognome. Il “moderno” patriarcato, non potendo far più ricorso a quel dominio, usa la cultura della parità e dell’uguaglianza per neutralizzare la differenza femminile e rendere simmetrica la relazione tra i sessi, cancellando, ancora una volta, la relazione primaria madre-figlia, madre-figlio. Quando il Governo nel suo decreto, riferendosi all’attribuzione del nome materno, parla di “complessa materia” da approfondire con un “gruppo di lavoro presso la Presidenza”, in realtà non fa che nominare il disordine simbolico in cui si muovono uomini e donne quando si ostinano a non voler vedere ed accettare quello che è evidente da sempre: si viene al mondo da una madre.

 

(Il Quotidiano della Calabria, 17.01.2014)

 

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