16 Dicembre 2012
alfabeta

La violenza invisibile

Lea Melandri

La violenza manifesta -maltrattamenti, stupri, omicidi, persecuzione psicologica- sta uscendo sia pure lentamente dalla cronaca nera per approdare, in qualche rara trasmissione televisiva, al dibattito culturale e politico. Più resistente a lasciarsi stanare è la roccaforte del potere maschile: la neutralità, quella che il femminismo nella sua fase più radicale e creativa, all’inizio degli anni Settanta, ha definito “la violenza invisibile”.
“Neutri”, per la nostra come per le altre civiltà, sono gli aspetti dell’umano considerati liberi dall’appartenenza a un corpo, a un sesso, a limiti biologici e psichici. Tali sono, in particolare, il pensiero, il carattere e la volontà morale.
Su questa “trascendenza” si è retta finora la loro superiorità e perfezione, ma anche la loro invisibilità come attributi che gli uomini hanno riservato soltanto a se stessi. Per una di quelle felici astuzie con cui la storia rivela i suoi inganni, è dai teorici del sessismo che viene una parola di verità su quello che è stato finora il rapporto tra i sessi.
“Si può ben pretendere -scrive Otto Weininger in Sesso e carattere (1903)- l’equiparazione giuridica dell’uomo e della donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale. Semmai si può rifiutare tutta la barbarie del sesso maschile contro quello femminile senza contraddizione e senza contemporaneamente disconoscere la loro contrapposizione cosmica immensa e senza negare la differenza delle loro nature”.
L’idea che le donne abbiano un “Io (intellegibile)”, “personalità e individualità”, e che il loro Io possa non essere “conforme” ai modelli imposti dalla visione maschile del mondo, non sembra che abbia il dovuto riconoscimento neppure nelle forme di emancipazione di cui sono portatrici le donne stesse. Che si tratti di uguaglianza, parità di diritti e opportunità, occupazione, rappresentanza nei luoghi decisionali, o valorizzazione del “talento femminile”, la prospettiva per le donne non cambia: colmare lo svantaggio rispetto all’ordine storicamente vincente e neutralizzarsi a loro volta, oppure sostenerlo con quei valori aggiunti che sono la sensibilità e la sapienza relazionale. Dovrebbe destare qualche sospetto il fatto che a una crescente femminilizzazione dello spazio pubblico faccia riscontro un pervicace, consapevole silenzio dei media, degli intellettuali e dei politici -salvo rare eccezioni- sull’inedita intelligenza critica prodotta, nell’arco di quasi mezzo secolo, da parte di donne capaci di pensare differentemente la politica, l’organizzazione del lavoro, la divisione tra privato e pubblico, il rapporto con la natura e la convivenza tra diversi.
Come può non venire il sospetto che la maschera della neutralità celi la più insidiosa delle violenze simboliche: la convinzione che le donne non abbiano un “Io”?
Tra le tante separazioni su cui si è costruito il dominio maschile, l’opposizione individuo-genere è quello che permette tutt’ora di considerare le donne alla stregua di un gruppo sociale omogeneo, e l’uomo l’essere che nella sua particolarità e universalità sfugge a qualsiasi appartenenza. La virilità è presente in tutte le forme del pensiero e del potere, ma sembra impossibile per gli uomini nominarla come tale senza vedere restringersi con allarme l’orizzonte della loro storia dentro i confini di quella parziale componente della specie umana che essi rappresentano.
Se non si percepissero ancora oggi come “naturali” portatori di una parola universale e designati per questo al governo del mondo, forse comincerebbero a trovare ridicole le loro foto istituzionali “con signore” –poche e distinguibili solo per il diverso abbigliamento- , consumate le loro contese guerresche, sempre meno credibile il tentativo di spostare sugli esemplari più fragili o più sfortunati del loro sesso la condanna del maschilismo. Quanto pesa sulla subalternità affettiva e intellettuale delle donne dover cercare quotidianamente conferma della loro esistenza e del loro valore in quella che è stata per secoli la misura unica dell’umano perfetto?

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