9 Marzo 2015
il Manifesto

Post-patriarcato

di Alberto Leiss

Non è da ora che nume­rose parole-chiave cul­tu­ral­mente e media­ti­ca­mente for­tu­nate ci avver­tono di qual­cosa di inquie­tante: viviamo un tempo che sem­bra inca­pace di defi­nirsi per il suo pre­sente o anche per il suo desi­de­rio di futuro, e che si ras­se­gna quindi a iden­ti­fi­carsi con espres­sioni un po’ vuote, il cui senso imme­diato è quello di annun­ciare sol­tanto che un tempo pre­ce­dente è finito.

È la cele­bre con­di­zione «post-moderna» descritta alla fine degli anni ’70 da Lyo­tard, riem­pita via via da un modo di lavo­rare dive­nuto «post-fordista», da una cul­tura cri­tica «post-marxista» e «post-strutturalista», e via decli­nando que­sto sen­tirsi immersi in qual­cosa di cui l’unica cosa certa è che non è più quello che era una volta. Le scarse defi­ni­zioni al pre­sente non sono poi per nulla ras­si­cu­ranti: viviamo in un mondo «liquido», in una «società del rischio», strut­tu­rata in «non luo­ghi». Anche le anti­che cer­tezze patriar­cali sono venute meno. Ne scri­veva il gio­vane Lacan già negli anni ’30, e un testo del fem­mi­ni­smo ita­liano del 1996 (Sot­to­so­pra rosso. E’ acca­duto non per caso) ha dichia­rato la “fine” del patriar­cato, giac­ché al pre­do­mi­nio maschile è venuto meno il cre­dito femminile.

Che cosa ne è seguito? La discus­sione è aperta. Una delle ipo­tesi – viviamo nel tempo del «Post-patriarcato», nell’«agonia di un ordine sim­bo­lico» non ancora con­clusa — è avan­zata da un breve ma intenso libro (edito da Aracne) di una gio­vane stu­diosa fem­mi­ni­sta, Irene Straz­zeri. Va subito detto che l’autrice, pur non esclu­dendo che da una fase per­corsa da «sin­tomi» allar­manti e da «sfide» dif­fi­cili possa anche rie­mer­gere una forma di «neo­pa­triar­cato», si dimo­stra fidu­ciosa che alla fine possa nascere un tempo capace di essere vis­suto in modo posi­tivo. E lo annun­cia in esergo come solo una donna può fare, dedi­cando il testo «al bimbo che aspetto, e al mondo che gli auguro».

Il libro – come aiuta a capire l’introduzione di Elet­tra Deiana – è utile anche per incro­ciare le ela­bo­ra­zioni di un gio­vane neo­fem­mi­ni­smo che sta aprendo vari ter­reni di ricerca met­tendo le ela­bo­ra­zioni del fem­mi­ni­smo sto­rico (ita­liano e occi­den­tale, ma anche post-coloniale) a con­fronto con la let­tura dell’attuale crisi glo­bale e del domi­nio della «ragione» neo­li­be­ri­sta. Una fase nella quale il capi­ta­li­smo sem­bra in grado di sus­su­mere ogni istanza cri­tica alter­na­tiva. Per esem­pio rico­no­scendo il «valore» della dif­fe­renza fem­mi­nile ma fina­liz­zan­dola all’efficienza della pro­du­zione e della com­pe­ti­ti­vità dell’economia data. Oppure ampli­fi­cando lo scan­dalo della vio­lenza maschile con­tro le donne, ma tra­du­cen­dolo in poli­ti­che di con­tra­sto e in para­digmi capaci di costrin­gere nuo­va­mente le donne nel ruolo di vit­time biso­gnose di «protezione».

La via di uscita indi­cata da Irene Straz­zeri è quella di una rilet­tura del con­cetto e della pra­tica dell’«autorità fem­mi­nile» così come è stata indi­cata soprat­tutto nei recenti testi di Luisa Muraro (Auto­rità, Rosem­breg & Sel­lier) e di Anna­rosa But­ta­relli (Sovrane, Il Sag­gia­tore). Un’idea di auto­rità diversa e distinta da quella di potere che con­nota la poli­tica maschile. Auto­rità come frutto della rela­zione e dello scam­bio lin­gui­stico. Come figura cir­co­lante indi­spen­sa­bile all’agire poli­tico, che può supe­rare gli stessi limiti della demo­cra­zia della rappresentanza.

Straz­zeri pro­pone di con­si­de­rare intrin­seca alla pro­du­zione di auto­rità anche la dina­mica del rico­no­sci­mento. Un dispo­si­tivo che può acco­mu­nare donne e uomini, senza il biso­gno di nuove tra­di­zioni e reli­gioni, per libe­rarsi da quell’agonia in un pre­sente final­mente capace di rico­no­scere se stesso.

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