23 Marzo 2003

Aiuti

Nicoletta Dentico  *
Raffaele Salinari  **

Kosovo, Afganistan e, ormai ineluttabile, l’Iraq. Sono i ciclici scenari che collegano, accanto alle crisi tragicamente ignorate, il trascorso secolo breve a quello che viviamo oggi. Un’oltranza epocale che si caratterizza per le disuguaglianze crescenti sulla faccia del pianeta, ma anche per la centralità della guerra, confermata prosecuzione dell’assenza di politica con altri mezzi, e per la riduzione del diritto internazionale a semplice diritto del più forte. Brutale paradosso di questa operazione, la progressiva militarizzazione dell’azione umanitaria (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea hanno modificato la loro dottrina militare incorporando gli aiuti umanitari alle missione degli eserciti), ovvero le ragioni umanitarie delle armi e la giustificazione umanitaristica delle guerre, che mira a trasformarne la natura agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali. E poi la battaglia delle relazioni pubbliche, sofisticato fronte della cittadinanza per chi non va al fronte.

 

E se (con le parole di Eduardo Galeano) l’aggettivo umanitario conferma, oggi come non mai, la cattiva opinione che la maggior parte degli abitanti del pianeta ha sul genere umano, la transizione dalla guerra umanitaria del Kosovo a quella preventiva dell’Iraq, passando per l’azione afghana segnata dalla strategia delle “bombe e pane” di blairiana memoria, segnala, oltre ogni possibile interpretazione, l’inarrestabile deriva di quello che una volta veniva chiamato il diritto umanitario.

 

I capisaldi di questa dottrina, evocata da molti ma studiata e applicata con coerenza da pochi, risiedono su alcuni chiari principi: l’indipendenza dell’aiuto da ogni condizionamento di ordine politico e quindi militare, l’imparzialità nel diritto di accesso alle vittime, tutte le vittime. La guerra umanitaria del Kosovo ma, ancor più la rappresaglia afghana, hanno stravolto in profondità questi principi. L’aiuto umanitario fa ormai parte integrante del dispositivo bellico: lo dichiarò a chiare lettere Tony Blair, campione della coalizione militare-umanitaria che si accingeva a bombardare l’Afghanistan dopo l’11 settembre, quando affermò che i tre tasselli (militare, diplomatico e umanitario) erano andati a posto e che si poteva bombardare.

 

Nel caso dell’Iraq, la strutturazione di questa indigeribile propoganda ha dato origine, nelle ultime ore di vigilia bellica, all’Ufficio per la Ricostruzione e gli Aiuti Umanitari da parte del Pentagono: avrà il compito di determinare il quadro di lavoro delle organizzazioni umanitarie e indicare le aree di intervento. In altre parole, qualsiasi presenza, trasferimento o progetto dovrà ottenere l’approvazione di questo organismo e la benedizione dell’esercito americano. Il compimento di una mutazione genetica.

 

Per le organizzazioni umanitarie, qualunque sia la loro storia e la loro specificità operativa, si impone un enorme problema di coerenza. Invero, la necessità di rimettere in causa (o di re-inventarsi?) la raison d’etre della propria esistenza, intrappolata in un rischio di legittimazione usurpato a oltranza.

 

Certamente, nessuno ha il monopolio degli aiuti. Ma l’indipendenza dell’azione umanitaria deve essere senza se e senza ma. Altrimenti, l’azione, umanitaria non è. Non è pensabile arruolarsi a diventare il braccio di servizio, o meglio l’alibi, di organizzazioni politiche e militari implicate direttamente o indirettamente nel conflitto. Non è possibile assoggettarsi a un programma nascosto che ha valenze puramente geo-strategiche. Ne va anche della percezione che le vittime hanno di noi, e quindi del nostro rapporto con i beneficiari.

 

Per questo motivo una delle sfide che sempre più criticamente si pone di fronte agli operatori umanitari è quella dell’indipendenza economica. Nel nodo gordiano della strategia di reperimento dei fondi, infatti, si sostanzia anche la cifra della nostra indipendenza politica. E’ legittimo – in un’ottica di diritto umanitario – prendere fondi da un governo che decide di aderire all’azione militare, e che si pone quindi come parte belligerante? A quale credibilità si affida chi adotta una politica di fondi pubblici – quindi, in qualche modo, dovuti alle organizzazioni umanitarie? – quando l’amministrazione che eroga i fondi sottoscrive una guerra al di fuori di ogni legale riferimento del diritto internazionale? Non è più sufficiente dichiarare, come si usava fare sino a tempi recenti, che non è importante l’origine dei fondi quanto ciò che se ne fa. Così si contribuisce a chiudere il circolo vizioso di subalternità dell’umanitario alle logiche militari: esattamente ciò cui aspirano i corifei della nuova dottrina.

 

* Direttore generale Medici Senza Frontiere

** Presidente Terres Des Hommes

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