2 Gennaio 2021
la Repubblica

I nostri dati, un bene comune. Intervista a Francesca Bria

di Tonia Mastrobuoni


È un’italiana la promotrice del più grande esperimento di democrazia digitale al mondo. E sulla sua pelle, Francesca Bria ha vissuto anche la violenza con cui la guerra tecnologica viene combattuta dai giganti della Silicon Valley. La pioniera quarantaduenne consiglia il governo tedesco, la Commissione Ue e l’Onu su una serie di ambiti prioritari che soprattutto in Italia continuano ancora ad essere fuori fuoco. «E ciò — osserva — nel paese del teorico più visionario al mondo sui diritti dell’era digitale, Stefano Rodotà». Bria valuta positivamente il Digital Market e il Digital Service Act varati dalla Commissione Ue, che ritiene due «tasselli importanti verso la definizione di una Costituzione europea dell’era digitale». L’autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung ha appena incoronato la presidente del Fondo nazionale per l’Innovazione “Persona dell’anno”, definendola una «visionaria» e «l’opposizione extraparlamentare dell’era digitale».

Bria, a Barcellona lei ha rivoluzionato le politiche comunali. Non solo perché ha coinvolto 400mila cittadini nella definizione delle iniziative locali, ma perché ha preteso che i cittadini rimanessero in possesso dei loro dati.

«Quando mi hanno chiamato a Barcellona ho notato che negli appalti — ovvero nelle gare pubbliche per contrattare servizi quali la gestione delle telecomunicazioni, trasporti e mobilità elettrica, rifiuti o illuminazione urbana — non c’erano indicazioni su come trattare i dati, come garantirne la proprietà. Gli eventuali vincitori si sarebbero tenuti tutto. Come avviene sempre e ovunque, del resto. Quando parliamo di dati, parliamo delle infrastrutture su cui si creano i servizi, della “moneta” dell’economia digitale. E di solito i cittadini li pagano due volte. La prima, quando chiedono il servizio, la seconda quando cedono “gratis” i dati che vengono sfruttati dalle aziende per fare soldi».

Quindi?

«Quindi ho voluto che il Comune di Barcellona richiedesse indietro i dati alle aziende fornitrici. Abbiamo inserito una clausola di “sovranità dei dati” e la proprietà pubblica dei dati nel contratto di servizio, imponendo a Vodafon, nostro fornitore delle telecomunicazioni, di trasferire i dati che stavano raccogliendo nella città in tempo reale e in un formato aperto in modo che potevamo controllare le informazioni e costruire nuovi algoritmi e modelli per gestire la città e prendere decisioni in tempo reale. Prima non succedeva. Hanno semplicemente preso tutti i dati, usandoli solo a loro vantaggio. In questo modo invece i dati diventano un bene comune, un’infrastruttura pubblica gestita dalla città. E abbiamo creato un patrimonio molto forte».

Il piano con cui avete garantito la sovranità dei dati ai cittadini si chiama “DECODE Project”. Lei ha ingaggiato una squadra di talentuosi programmatori che hanno lavorato su una tecnologia molto complessa, la blockchain. Ma poi cos’è successo?

«Con DECODE abbiamo creato delle applicazioni tecnologiche che consentono ai cittadini stessi di controllare i dati che producono in città e di scegliere con chi condividerli, nel pieno rispetto della privacy, dando vita a quello che noi chiamiamo un nuovo patto cittadino sui dati. Ha effettivamente invertito la situazione attuale in cui le persone sanno poco degli operatori dei servizi a cui sono registrate, mentre i servizi sanno tutto di loro. Invece, i cittadini possono decidere che tipo di dati desiderano mantenere privati, quali dati vogliono condividere, con chi, su quali basi e per fare cosa. DECODE è stato sviluppato da un gruppo di programmatori giovani e straordinari e finanziata con fondi europei per la ricerca. Quasi alla fine, Facebook ha assunto in blocco il team di sviluppo che ha disegnato il protocollo criptografico. E l’ha messo a sviluppare il protocollo di Libra, la discussa, famosissima criptovaluta di Facebook… È stato uno shock».

Che lezione se ne trae?

«Bisogna che impariamo a finanziare generosamente queste tecnologie e chi le sviluppa. Non è possibile che le creiamo e poi ce le scippano».

Quindi è importante che l’Europa si stia muovendo per recuperare un po’ di sovranità digitale?

«È fondamentale. Insieme alla legge sulla Protezione dei dati (GDBR), al Digital Service Act, il Digital Market Act e all’imminente Data Act, la Ue sta definendo una vera e propria Costituzione che punta ad affermare un proprio modello di governance sul digitale che ridimensioni lo strapotere delle Big Tech americane (e cinesi), crei un mercato autonomo e una industria digitale competitiva e tuteli seriamente la sovranità sui dati dei cittadini. Il segnale importante, insomma, è che l’Europa non ambisce più soltanto ad essere un grande regolatore dell’era digitale, ma vuole avere anche un ruolo più forte sul mercato, come competitore globale, attraverso una sua politica industriale e tecnologica».

Domanda scontata: ma che alternative europee ci sono ad Amazon, Google o Facebook?

«Esatto, il problema è anche quello. Lavoro con Mariana Mazzucato che ha dimostrato come Internet, il GPS o il touch screen, e altre innovazioni fondamentali sono basate sugli investimenti pubblici».

Mazzucato ha scritto “Lo Stato imprenditore” in cui sostiene, in sostanza, che solo le istituzioni publiche possono avere i soldi e la lungimiranza per investimenti di lungo respiro.

«Sì, e il punto è che la ricerca richiede investimenti giganteschi: i cinesi li stanno facendo, hanno investito 300 miliardi di euro sull’Intelligenza artificiale, sviluppano propri microprocessori, i propri chip e i quantum computers del futuro e hanno imposto gli standard sul 5G, cambiando le regole di internet. L’Europa deve avere la stessa ambizione, altrimenti rischia di rimanere schiacciata tra gli Stati Uniti e la Cina».

Il caso Edward Snowden, teorici come Shoshana Zuboff o come suo marito Evgeny Morozov, e il suo lavoro a Barcellona e in Europa, hanno contribuito ad aprire gli occhi sull’importanza della sovranità dei dati. Perché è importante?

«L’autodeterminazione dell’informazione e dei dati, come la chiamano i tedeschi, va protetta. Noi abbiamo avuto l’avanguardia giuridica su queste teorie: Stefano Rodotà lo considero il mio maestro. La mia politica di Barcellona è ispirata alle cose che ha scritto e che ha detto Rodotà, la Data Protection Legislation è la sua, il GDPR è figlia del suo lavoro. L’Italia ha anche scarsa memoria di questo. Siamo noi la culla giuridica di questa cultura».

Perché è importante anche la trasparenza algoritmica e che l’Europa la pretenda?

«L’Antitrust tocca il cuore stesso del business delle piattaforme: quello della monetizzazione e della manipolazione dei dati personali. Se le tendenze attuali reggono, i nostri dati varranno oltre 200 miliardi di dollari entro il 2022. Il fatto di rendere virali certi contenuti fa parte del modello di business delle Big Tech. Va corretto alla radice. E la radice è la trasparenza, l’accountability algoritmica e la loro gestione democratica. Oltre alle fake news e le conspiracy theories, c’è ad esempio il nodo dell’uso dell’Intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale. Qualcosa su cui si è mobilitato il movimento Black lives matter. E di recente una delle più importanti ricercatrici di AI di Google è stata cacciata perché in un paper dimostrava come gli algoritmi fossero “biased”, avessero pregiudizi nei confronti delle persone di colore. Nel momento in cui questi algoritmi sono sempre più usati nelle applicazioni che cittadini e governi usano, anche per avere accesso ai servizi sociali o a un mutuo, serve un monitoraggio, bisogna poterli governare o in futuro potremmo vedere minacce alla democrazia che vanno ben oltre gli scandali già emersi come Cambridge Analytica o il microtargeting politico. Ma la Commissaria alla Concorrenza Margarete Vestager è una persona estremamente liberale e si rende conto che queste questioni riguardano il futuro delle democrazie e delle nostre libertà fondamentali».

Il Recovery Fund destina una quota importante di fondi al digitale.

«È un’enorme opportunità, direi unica, per sviluppare queste tecnologie in Europa, attraendo anche i nostri talenti all’estero. Peraltro, molte persone che lavorano in questo settore hanno un approccio estremamente favorevole alla protezione dei dati, all’idea che siano un bene comune e che possono essere mobilitati per creare valore pubblico, più innovazione e migliorare servizi e infrastrutture. Quando ero a Barcellona mi arrivavano proposte di lavorare con noi da persone con un curriculum pazzesco e che adoravano l’idea al mettersi al servizio dei cittadini».


Francesca Bria è esperta di scienze sociali, economia e tecnologia, è la presidente del Fondo nazionale italiano per l’innovazione.


(Ecco i diritti dell’era digitale, la Repubblica, 2 gennaio 2021)

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