22 Aprile 2021
La Stampa

Sì alla legge Zan ma senza identità di genere

di Marina Terragni


Dell’editoriale di Michela Marzano ho apprezzato il garbo: di solito la scelta è tra il muro di silenzio e le manganellate social. Grazie anche per aver riconosciuto che la gran parte del femminismo italiano – Udi, SeNonOraQuando, RadFem, Arcilesbica e altri gruppi – chiede che si cambi il testo del ddl Zan sull’omotransfobia, in particolare che si rinunci al concetto di genere.

La resistenza è globale: il network internazionale Whrc, Declaration on Women’s Sex-Based Rights, 334 gruppi di donne in 131 Paesi, dalla Svezia alla Martinica, lotta da anni contro la sostituzione della certezza del sesso con l’impalpabile gender identity. Nella vicina Spagna il femminismo è compatto contro la Ley Trans che intende introdurre l’autocertificazione di genere (self-id). Tra noi e la Spagna un paio di differenze: le loro lotte non sono oscurate dai media; il Psoe di Sanchez e Calvo sostiene le ragioni del femminismo, mentre qui il Pd l’abbiamo contro e sordo. Zan si è confrontato con tutti, da Fedez alle sex-columnist di PlayBoy: piuttosto con Pillon, ma non con noi. Eppure argomenti ne avremmo: o forse è proprio per questo? L’identità di genere è una faccenda pericolosa soprattutto per donne, bambine e bambini che pagano prezzi altissimi. Ho per le mani le letterine scritte su fogli di quaderno da due detenute californiane, terrorizzate perché una nuova legge del Senato, il Bill 132, dispone che la destinazione dei condannati non sia più decisa in base ai genitali ma al genere percepito: ed ecco una fila di quasi 300 detenuti con pene che chiedono il trasferimento perché “si sentono donne”. Danielle F., matricola 1822: «Ho paura di questa cosa. Sono una vittima di violenza domestica e stupro». Heather Knauff, matricola 7697: «Ci sono già uomini che sono diventati donne che sono tornate a essere uomini per sfruttare questo sistema». In Canada, dove il self-id vige dal 2017, nelle carceri ci sono stati stupri e gravidanze. Ancora Canada: un paio di giorni fa Robert Hoogland, impiegato delle poste, ha patteggiato la pena di 6 mesi di carcere e 30mila dollari di sanzione (rischiava 5 anni) per aver lottato troppo contro l’ormonizzazione della sua bambina di 13 anni che “si identifica” come ragazzo. È un’epidemia di transizioni infantili – soprattutto di bambine – migliaia in tutto il mondo. Hoogland, “prigioniero di coscienza”, è diventato l’eroe di molti genitori disperati. C’è bisogno di parlare delle decine di trans-atlete, possenti apparati muscolo-scheletrici, che si preparano a gareggiare nelle categorie femminili – troppo schiappe per quelle maschili – alle prossime Olimpiadi in Giappone? O di quei tanti politici tipo il giovane Decaudin, Partito democratico di New York, improvvisamente diventato Emilia per occupare con il suo girldick quote politiche riservate alle donne? Dei sex-offender che una volta arrestati si dichiarano donne, riempiendo le statistiche di inauditi stupri femminili?

Si può fare un’ottima legge contro l’omotransfobia rinunciando a quell’indeterminato giuridico che è l’identità di genere: la Costituzione impone tassatività e determinatezza alla legislazione penale. Quel concetto peraltro non compare nella legge tedesca né in quella spagnola né in altre legislazioni europee. Nemmeno nella legge inglese: lì con il self-id hanno chiuso, e anche con la formazione Lgbtq nelle scuole che ha fatto troppi danni. Del resto il 94 per cento dei britannici (sondaggio The Times, giugno 2020) al self-id ha detto no.


(La Stampa, 22 aprile 2021)

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