14 Marzo 2022
D - la Repubblica delle donne

Patriarcato: il passato che non può tornare

di Ida Dominijanni


«Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito». Cominciava con quest’annuncio eclatante e impertinente, nel 1996, un testo della Libreria delle donne di Milano intitolato È accaduto non per caso. Quell’annuncio fece scandalo, anche all’interno del femminismo. Si era appena conclusa la Conferenza mondiale di Pechino sui diritti delle donne, dove s’era visto quanta strada era stata fatta ma anche quanta ne restava da fare per realizzare l’obiettivo dell’empowerment femminile: come si poteva sostenere che il patriarcato fosse finito?

Le autrici di quel testo però non erano né pazze né ingenue. Sapevano benissimo che di discriminazioni contro le donne il mondo era ancora pieno; ma proprio nell’andamento della Conferenza vedevano, al di là delle rivendicazioni per i diritti ancora mancanti, un salto di indipendenza femminile dalle misure maschili, che era il portato più autentico del femminismo degli anni Settanta. Fine del credito femminile all’egemonia del sesso forte. E dunque, fine del patriarcato come sistema di dominio degli uomini basato sul consenso, o sul silenzio-assenso, delle donne.

Non per questo c’era da illudersi che per le donne la strada sarebbe stata da allora in poi in discesa. Al contrario, «la fine del patriarcato non è e non sarà una cosa da ridere», perché porta con sé due pericoli. Primo, che insieme con il patriarcato crollino le strutture della vita associata che ad esso sono storicamente connesse; secondo, che la virilità possa reagire in modo violento alla perdita del controllo sul corpo femminile.

Entrambi questi pericoli si sono in effetti realizzati. Ma prima di tornare su questo bisogna fare una precisazione. Dire che il patriarcato può finire (a differenza di molto pensiero strutturalista novecentesco, che lo considera una struttura immodificabile della storia umana), e che anzi sta finendo, è cosa molto diversa dal sostenere, come fa Emmanuel Todd, che non sia mai esistito, quantomeno in Occidente. Il patriarcato è esistito eccome, e contrassegna la modernità occidentale stringendo un sodalizio strettissimo con le istituzioni della politica moderna. Com’era chiaro ai classici del pensiero politico seicentesco, la sovranità dello Stato prende forma nel calco di quella del pater familias. E com’era ancor più chiaro al Freud di Totem e tabù, il contratto sociale moderno si stipula e si rinnova ripetendo il rito edipico della congiura tra i fratelli che uccidono il padre e se ne spartiscono l’eredità, escludendo le donne dalla linea di trasmissione maschile del potere. Sotto il contratto sociale, per dirlo nei termini della filosofa femminista Carole Pateman, vige un contratto sessuale: il primo regola l’uguaglianza degli uomini nella sfera pubblica, il secondo regola il dominio degli uomini sulle donne nella sfera privata. Tutta la costruzione dell’edificio politico moderno resta condizionata da questa originaria impronta patriarcale.

Ciò che accade con il femminismo novecentesco è che questo dispositivo salta: liberandosi dal controllo maschile sulla riproduzione e facendo irruzione nella sfera pubblica le donne destabilizzano la costruzione socio-politico-patriarcale nelle sue fondamenta. Si apre una crisi che non si può chiudere con l’inclusione delle donne nell’ordine precedente, perché – non lo si ripeterà mai abbastanza – il femminismo non è portatore solo di un’istanza di uguaglianza fra uomini e donne, ma anche e soprattutto di un’affermazione di differenza femminile dai valori maschili dominanti, nel privato e nel pubblico; richiede quindi una reinvenzione del patto sociale. E qui sta la sua matrice sovversiva che si tenta costantemente di ridurre.

Il sisma scuote le società democratiche occidentali e non solo: il conflitto fra i sessi riverbera dal privato al pubblico e viceversa, e la crisi del patriarcato riverbera sulla crisi dell’ordine politico e sociale. Ne è riprova il fatto che nessun conflitto geopolitico degli ultimi decenni, dalle guerre nella ex Jugoslavia al ventennio della war on terror combattuta dall’Occidente sotto l’insegna strumentale della liberazione delle donne dal patriarcato islamico, è comprensibile senza intrecciare la variabile del conflitto fra i sessi alle altre variabili in gioco. Ragion per cui non è affatto insensato, come Todd sostiene, paragonare la situazione delle donne (e degli uomini) di Kabul a quella delle donne (e degli uomini) di Parigi, non per equipararle, ma per capire come quella variabile giochi in differenti contesti.

Sia chiaro: quando si dice che la crisi, se non la fine, del patriarcato scuote il mondo contemporaneo non lo si fa in nome di un’ennesima ideologia progressista della storia. Le magnifiche sorti delle rivoluzioni sono alle nostre spalle, e non tornano per la rivoluzione femminista. Realizzare che il patriarcato non fa più ordine significa anche accettare che la sua fine genera inevitabilmente un certo tasso di disordine. Il punto è come leggere questo disordine, se con uno sguardo malinconico o con gli occhi aperti alle potenzialità liberatorie di cui è gravido.

Tra queste, al primo posto c’è la libertà di decidere della propria esistenza che le donne continuano a guadagnare, al di là e al di qua degli obiettivi paritari conseguiti e dei soffitti di cristallo più o meno infranti. C’è la tendenza delle adolescenti, evidenziata da un’acuta inchiesta dell’Economist, a fare riferimento alla bussola delle loro simili piuttosto che alle aspettative dei loro coetanei maschi per orientarsi nelle scelte di vita.

C’è una crisi della virilità tradizionale, con il rifiuto di molti uomini di obbedire agli imperativi di quel “maschilismo tossico” che Jane Campion demolisce nel suo ultimo film pluricandidato agli Oscar. Ci sono lo sventagliamento degli orientamenti sessuali, l’abbandono degli stereotipi di genere e il rifiuto dell’eterosessualità obbligatoria che abbiamo visto persino sul palco dell’Ariston di Sanremo, e che sia pure con qualche caduta identitaria e vittimistica nutrono l’agenda libertaria del femminismo Lgbtq+ di terza generazione. E c’è la ricerca diffusa di forme di vita individuali e collettive più libere e più solidali di quelle in precedenza “ordinate” dal patriarcato, che lasciano intravedere la possibilità di reinventare la politica al di là dell’estenuante crisi delle sue modalità tradizionali.

Dall’altra parte, e contemporaneamente, ci sono i contraccolpi regressivi della crisi del patriarcato. C’è la reazione violenta alla libertà femminile di una virilità detronizzata e depotenziata, che di fronte al no di una donna preferisce stuprarla o ucciderla piuttosto che accettarne il rifiuto. C’è l’eclissi dell’autorità paterna – “l’evaporazione del padre”, come la chiama la psicoanalisi lacaniana – che riverbera sulla crisi di tutte le autorità costituite, da quelle politiche a quelle intellettuali e scientifiche, mentre l’autorità femminile stenta a essere riconosciuta.

C’è il ritorno degli spettri di un passato che nella realtà non può tornare, come accade nei movimenti sovranisti che alla nostalgia della sovranità statuale perduta uniscono il rimpianto della supremazia dell’io maschile, bianco e occidentale. Sono tutte sfide aperte, che ci ricordano che le conquiste del femminismo non sono mai definitive, che le sue scommesse vanno continuamente rilanciate e che la libertà femminile va sempre rimessa al mondo. Tutto si può dire però, tranne che si stesse meglio quando si stava peggio.


(Esiste, eccome. Ma è in crisi, La Repubblica, 4 marzo 2022)

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