12 Settembre 2025
L’Indiscreto

La rotta di Greta: da eroina solitaria a flotta collettiva

di Caterina Orsenigo


Le storie di mare sono le mie preferite e quella di Greta Thunberg è spesso stata una storia di mare.   

Nell’agosto del 2019 aveva 16 anni quando arrivò a New York a bordo di una barca a vela per partecipare al summit sul clima di settembre e chiedere ai politici, nelle stanze più alte del potere. How dare you? Fu un viaggio potente, importantissimo per la sua carica immaginifica: ci aveva regalato una favola, un’eroina. Greta, giovanissima, era partita da Plymouth come la Mayflower nel 1620, solcava le acque fredde dell’Atlantico come una condottiera, aveva un principe per scudiero e andava ad affrontare faccia a faccia i potenti del mondo. Aveva una missione che, per quanto enorme, sembrava realizzabile.

Era un altro mondo. I movimenti per il clima crescevano e si espandevano in ogni angolo del pianeta, al governo degli Stati Uniti c’era già Trump, ma era un Trump molto meno potente e pericoloso di quello di oggi. C’era ancora una forte fiducia nelle istituzioni e nella comunità internazionale, la Cop di Glasgow di novembre sarebbe stata la più partecipata di sempre in termini di attivismo, pochi mesi più tardi sarebbe stato varato il Green New Deal europeo.

Sono passati solo sei anni ma sembra un’altra epoca. Era un Covid fa. Una guerra fa. Una crisi energetica fa. Un Trump fa. Soprattutto una Gaza fa. Greta parlava ai potenti del mondo, pur arrabbiata, pur severa, ma con l’impressione, ancora, di trovarsi davanti a un interlocutore credibile. E l’interlocutore, a sua volta, doveva almeno dare l’impressione di curarsi delle sorti del pianeta e dell’umanità che vi abita. Insomma di noi e di chi verrà dopo di noi. Era il loro mandato.

Oggi Greta non entra più nelle stanze del potere, è finito il tempo delle promesse accondiscendenti e le ragioni sono due.

Greta, e con lei tutti noi, tutti gli attivisti e tutta la società civile, a quelle promesse ha smesso di credere: alcune non sono state mantenute del tutto, molte altre sono state infrante appena sono arrivate una pandemia, una guerra, una crisi energetica, un nuovo Trump.

Ma soprattutto i potenti hanno smesso di farne. Senza che ce ne rendessimo conto, il mondo ha smesso di aver bisogno di ipocrisia. Prima lentamente, poi tutto insieme.

Il clima è stato accerchiato, lo si è fatto capro espiatorio dell’inflazione, dei malesseri degli agricoltori, della fatica dell’automotive in Europa, dell’isolamento della classe media bianca negli USA. Poi si è smesso di parlarne. Nessuno faceva più finta che salvare il pianeta e dunque l’umanità – soprattutto l’umanità più vulnerabile – fosse di interesse ai vertici dei governi occidentali. Negli Stati Uniti sono cominciate le purghe di scienziati, sono stati tolti 4 miliardi di dollari al fondo Onu per il clima, è stata smantellata l’Epa, l’agenzia federale per l’ambiente. Le elezioni europee del 2024 hanno avuto per caratteristica principale il cambio di lessico e priorità di von der Leyen, il clima ha lasciato spazio e priorità alle armi.

E intanto c’era e c’è Gaza.

La Greta Thunberg del 2025 non parla solo di clima, non lo ha mai fatto. Eppure ora più che mai il clima è dappertutto, necessario, sottinteso. Non si può parlare di clima, cioè di salvare milioni di vite, se si guarda un genocidio a braccia conserte. Non si può parlare di clima se i migranti muoiono in mare o vengono chiusi in prigioni albanesi. Non si può parlare di clima se non si parte dal lavoro. Eppure si sta parlando sempre di clima e di ecologia, di possibilità per l’umano e le altre specie di esistere, che sia attraversando il mare per fuggire da un paese o volendoci restare, nel proprio di paese, nonostante le democrazie occidentali ne vogliano fare una riviera di lusso.

Così Greta ultimamente l’abbiamo vista alla ex GKN di Campi Bisenzio, davanti ai centri di detenzione in Albania, a giugno sulla nave Madleen della Flotilla, a novembre in Norvegia davanti al terminal petrolifero di Mongstad, ora sulla Family Boat partita da Barcellona e bombardata a Tunisi.

In tutte queste lotte, Greta non è più sola, ma in mezzo a moltissimi altri attivisti, una fra le tante e i tanti. Non parla più con i potenti nelle stanze del potere: i potenti la arrestano e la bombardano in mare aperto. Quella che raccontano oggi Greta e la Flotilla è una storia in cui i nemici hanno tolto ogni maschera e in cui le lotte non si vincono con una sola condottiera.

C’è stato un momento preciso in cui Greta Thunberg ha deciso che il centro della scena non era il posto giusto in cui stare e si è spostata, non indietro ma di lato. Era il 2022, un luglio caldissimo, gli ultimi scampoli del movimento ambientalista come lo abbiamo conosciuto nel 2018. Era prevista al Climate Camp di Torino, aveva addirittura fatto intendere di essere già in Italia, i giornalisti si erano presentati in una sala del Campo Einaudi aspettando solo lei. Invece lei si era collegata per tre minuti, aveva detto di essere in Svezia, accanto a lei c’era suo fratello. Non sarebbe venuta. Ora, aveva detto, lascio la parola ai rappresentanti Mapa (most affected people and areas), i rappresentanti delle popolazioni e regioni più vulnerabili. I giornalisti ormai erano lì, costretti ad ascoltare non l’eroina Greta Thunberg ma loro, attivisti sconosciuti provenienti dall’Africa sub sahariana o dal Sud America. Da allora Greta ha smesso sia di frequentare le aule del potere, sia di farsi ritrarre come condottiera. In Germania nel gennaio 2023 si faceva arrestare davanti alla miniera di carbone di Lutzerath, nel fango, insieme a centinaia di altre persone. Nelle foto di rappresentanza era sempre accompagnata da altre attiviste, in particolare l’ugandese Vanessa Nakate.

Per lo storico e mitologo Furio Jesi, l’insidia per un’idea, un ideale, una storia, una lotta è che si cristallizzi. Greta Thunberg ha saputo scampare questo pericolo scostandosi quando i media e i politici hanno cercato di imbalsamarla. Si è scrollata di dosso il ruolo di leader e ha deluso e sfidato chiunque la volesse apolitica ed ecumenica. E oggi la sua storia è più potente che mai. Solo che è una storia non solo sua, tutt’altro. È la storia collettiva e plurale della Global Sumud Flotilla.

Quello che sta accadendo in questi giorni nel Mediterraneo ha una potenza e una carica immaginifica enorme. È la storia in cui ora abbiamo bisogno di stare tutti.

Le barche della Flotilla sono partite cariche di aiuti umanitari, con l’ambizione alta e rischiosa di aprire finalmente un corridoio umanitario per Gaza, con il coraggio di essere piccoli, con l’intelligenza di essere in tanti, con la forza di partire da molti porti e di provenire da tutto il mondo.

Dappertutto, da Genova alla Tunisia, preparativi, partenze e arrivi sono stati accompagnati da una partecipazione e un calore umano sorprendenti. Tutto il Mediterraneo sembra aver perfettamente chiara l’importanza di questa missione, il potere simbolico immenso di questa storia che si sta facendo e dentro cui abbiamo bisogno di essere, che abbiamo bisogno di raccontarci.

Se non sono i governi a salvarsi la faccia (e la ragion d’essere) intervenendo su questo orrore a cielo aperto, sarà la Flotilla, la flotta pirata del Mediterraneo che raccoglie attivisti da 44 paesi. C’è buona parte del movimento ambientalista degli ultimi anni, dal Messico alla Croazia, attivisti che di solito si battono contro il Tren Maya nello Yucatan o che battono il Mediterraneo su navi di soccorso e si erano conosciuti nel 2023 al Congresso mondiale per la giustizia climatica di Milano.

Pochi giorni fa Von der Leyen ha chiesto se siamo pronti a combattere. Vengono in mente le parole di Greta di qualche anno fa: This is all wrong. È tutto sbagliato e no, non siamo pronti a combattere per quella guerra. Quella è la guerra del capitalismo e dell’Occidente contro tutti.

La Flotilla è la dimostrazione che invece siamo pronti a combattere per la pace: insieme, dal basso, disarmati. Se le partenze sono state così emozionanti è perché non c’è niente di più vivo, di più importante, di più coraggioso che stia succedendo a queste latitudini. La resistenza di Gaza, la flotta pirata che parte a combattere per la pace, carica di viveri e non di armi. Il coraggio e lo stomaco non mancano: ma coraggio, diceva la sindaca Salis a Genova il 30 luglio, è rischiare per gli altri, non per se stessi. È stare vicino a chi resiste.

La storia di Greta Thunberg è diventata una storia collettiva ed è questa trasformazione che va raccontata e tenuta stretta. Abbiamo sempre bisogno di storie, io ho sempre bisogno di storie di mare. Ci servono per credere in qualcosa, per darci senso, per dare senso a ogni più timida forma di militanza, per proiettarci nella Storia con la S maiuscola. Questa è una storia di navi pirata, come navi pirata sono quelle che ormai illegalmente salvano i migranti nel Mediterraneo, come illegali sono spesso le azioni di protesta non violenta dei movimenti per il clima e i diritti in quasi tutto l’Occidente. È una storia di resistenza e di alleanze, di attivisti da 44 paesi e battaglie diverse che si uniscono e solcano il mare verso la Palestina. Mentre tutti nelle stanze del potere si aggrappano a egemonie perdute e a identità nostalgiche, in mare c’è qualcosa di nuovo, che sa di futuro e di vita nonostante le bombe che piovono dal cielo.


(L’Indiscreto, 12 settembre 2025)

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