di Maysoon Majidi
Nata a Vienna e cresciuta negli Stati Uniti, Lara Dizeyee è una stilista e artista curda. Figlia del noto artista Homer Dizeyee, dopo anni di attività nel settore petrolifero e del gas, ha deciso di dedicarsi interamente all’arte e al design della moda. Coniugando tradizione e modernità, ha portato l’abito curdo sulla scena internazionale, partecipando a eventi come la Paris Fashion Week 2023 e la Milano Fashion Week 2025. L’Università di Sulaymaniyah le ha conferito il titolo di Ambasciatrice dell’abito curdo per il suo impegno nella promozione di questo patrimonio culturale.
Sta dedicando la sua nuova collezione di Milano a «Jin, Jiyan, Azadî» («Donna, vita, libertà») e alle donne curde. Perché ha scelto di portare questo messaggio politico nella moda e quale impatto globale si aspetta?
Questa non è una dichiarazione politica ma umana. È un tributo a tutte le donne che affrontano ingiustizie e un promemoria del fatto che siamo in solidarietà con loro. Quello che è successo a Jina Amini, e a tante altre giovani donne come lei, è stato profondamente ingiusto e ha toccato i cuori delle persone in tutto il mondo. Come artista e come persona impegnata sul piano umanitario, non creo abiti solo per la moda in sé: creo per raccontare storie e onorare la resilienza. Con questo design voglio mettere in risalto la forza delle donne che, nonostante gli ostacoli, continuano a rialzarsi con orgoglio.
I curdi hanno una storia millenaria ma nessuno Stato indipendente. Considera la presentazione dell’abito curdo sulla scena internazionale una forma di «soft power»? Che ruolo può avere la moda come linguaggio simbolico per le culture senza Stato?
Sì, lo considero una forma di soft power e di diplomazia culturale. La moda è un linguaggio universale che permette alla cultura curda di essere vista e compresa, senza parole. Portando l’abito curdo sulle passerelle globali, non solo preservo il patrimonio, ma condivido anche la storia di resilienza e orgoglio di un popolo senza Stato. La moda diventa sia bellezza che voce.
L’industria della moda è in gran parte guidata dal capitalismo e dal consumismo. Come rimane fedele alla sua cultura e storia all’interno di questo sistema?
Credo che la moda abbia due lati: può essere guidata dal consumismo, ma può anche essere un mezzo per raccontare storie e preservare culture. Per me non si tratta mai solo di produrre abiti da vendere, ma di creare design che portino con sé significato, storia e identità. Come stilista curda, sento la responsabilità di intrecciare le voci del mio popolo in ogni collezione, così che ogni pezzo sia non solo couture ma anche narrazione culturale. Rimanere fedele alla cultura significa radicare il mio lavoro nell’autenticità, attingendo a tessuti tradizionali, motivi e storie, reinterpretandoli in chiave moderna. Così garantisco che il patrimonio curdo non venga mercificato, ma piuttosto elevato e onorato sulla scena mondiale. Ciò che mi mantiene con i piedi per terra è lo scopo del mio lavoro. Ogni design è un tributo al mio popolo, alla bellezza di una cultura che merita di essere vista. Questo scopo è più grande delle mode o del profitto e mi permette di restare fedele a chi sono e alle mie radici.
La sua presenza a Milano e Parigi è artistica ma anche politica. «Milan Enchanted» va letto come puramente estetico o come portatore di identità e lotta curda? Quali simboli e design hanno più significato: il sole, le forcine e corone tradizionali o i motivi tatuati sui modelli?
Milan Enchanted è una sfilata di moda narrativa, è arte e passione. Per me è un tributo alla rinascita e alla resilienza. Sono semplicemente una stilista orgogliosa delle proprie origini, il Kurdistan. Quando creo, non è per provocare o irritare qualcuno, ma per condividere la storia del mio popolo. I simboli che uso – il sole, le forcine tradizionali o le corone – non sono semplici decorazioni ma parti vive della nostra identità. Portano con sé le voci delle generazioni che mi hanno preceduta. C’è bellezza e trionfo nella lotta: diventiamo più forti quando sopportiamo molto. Alcuni miei design riflettono quella lotta, ma la portano con grazia e cuore.
La moda rischia sempre di scivolare nell’esotismo quando reinterpreta la tradizione. Come evita stereotipi orientalisti?
Credo che la chiave sia il rispetto: rispettare la mia cultura, onorare il passato e collegarlo con cura al futuro. Il mio lavoro non riguarda trasformare la tradizione in qualcosa di “esotico” solo per la moda ma presentarla con dignità e autenticità. Mi avvicino al patrimonio curdo con profondo orgoglio e responsabilità. Ogni motivo, tessuto o simbolo è radicato nella storia reale e nell’esperienza vissuta, non negli stereotipi. Unendo questi elementi autentici al design moderno, creo pezzi contemporanei ma fedeli alle loro origini. Non sto prendendo in prestito dalla cultura, la sto portando avanti mostrando al mondo che la moda curda non è una tendenza, ma una voce, un’identità e un’eredità.
Alcuni sostengono che inserire l’abito curdo nell’«haute couture» lo trasformi in un lusso per élite, distaccandolo dalle sue radici sociali.
Cosa c’è di sbagliato nel lusso e nell’eleganza? Per me elevare la cultura curda sulla scena mondiale è un atto di orgoglio. La cultura non è congelata nel tempo, si evolve sempre, si adatta e trova nuove espressioni. Portando l’abito curdo nell’haute couture non lo sto staccando dalle sue radici; gli sto dando visibilità, dignità e un posto accanto alle tradizioni più rispettate del mondo. Sono molto orgogliosa di rappresentare il mio patrimonio nel modo più elegante e senza tempo possibile. Il mio obiettivo è che, quando qualcuno vede i miei design, non veda solo un capo ma senta un ventaglio di emozioni: orgoglio, bellezza, resilienza e connessione. In questo senso, la couture diventa più di un lusso: diventa un tributo vivente a una cultura che merita di essere celebrata al massimo livello.
Come ha reagito il pubblico curdo e non curdo al suo lavoro? I curdi la vedono come rappresentante della loro cultura o come artista della diaspora?
Sia i curdi che i non curdi hanno risposto con moltissimo affetto. Spesso mi dicono che percepiscono il rispetto, l’onore e la forza che intreccio in ogni design, questo significa tutto per me. Ciò che mi tocca di più è che chiunque, curdo o meno, indossi i miei abiti si senta trasformato nel personaggio e nella storia dietro al capo. Quella connessione emotiva va oltre la moda: diventa un’esperienza più profonda di identità e bellezza.
L’industria «fast fashion», soprattutto in Turchia, impiega lavoratori marginalizzati, inclusi curdi e rifugiati, in condizioni precarie e informali. Come può la moda essere ripensata attraverso inclusione e giustizia sociale?
Questo è un problema globale. Noi stilisti dobbiamo assumerci la responsabilità di ripensare la moda in una prospettiva più inclusiva ed etica. Per me ciò significa rallentare, valorizzare l’artigianato e lavorare con artigiani in un modo che rispetti la loro dignità e il loro lavoro. La moda non dovrebbe sfruttare la vulnerabilità, ma dare potere alle comunità, preservare la cultura e creare opportunità. Allontanandoci dalle logiche del fast fashion e avvicinandoci all’inclusione e alla giustizia sociale, possiamo trasformare la moda in qualcosa di più significativo: una piattaforma che solleva le persone mentre celebra bellezza e patrimonio.
È la sua ambizione creare una «maison» di moda curda che possa competere a livello globale servendo anche come progetto collettivo culturale e politico?
Ho già creato il mio marchio, la mia intenzione non è mai stata quella di competere: Lara Dizeyee Haute Couture è una linea che unisce invece di dividere, una maison costruita sulla narrazione, sul patrimonio e sulla convinzione che la bellezza abbia il potere di avvicinare le persone.
(il manifesto, 24 settembre 2025)

