14 Novembre 2007

30 anni di carcere al padre di Hina La madre si dispera

Manuela Cartosio

Solo mezzora di camera di consiglio, poi la sentenza che ha accolto, salvo un particolare, le richieste del pm Paolo Guidi. Scontate le condanne – 30 anni, il massimo con il rito abbreviato – l’udienza conclusiva del processo di primo grado per l’uccisione di Hina Saleem è stata segnata dalla reazione della madre della giovane pakistana, sgozzata l’11 agosto 2006 a Sarezzo dai maschi del clan familiare, punita perché aveva scelto di vivere all’occidentale.
Bushra Begum ha scelto il marito, si schierata con la legge del padre assassino, con la tradizione. Si è disperata, ha dato in escandescende in hurdu e in uno stentato italiano, si è buttata sul pavimento. In preda a un crisi di nervi è stata portata in ambulanza all’ospedale di Brescia. «Me l’ammazzano», avrebbe gridato Bushra Begum, preoccupata che il marito, Mohammed Saleem, possa essere aggredito in carcere dai due generi coimputati, Zahid e Khalid Mahmoud. Cosa già successa, e infatti la sentenza dispone che i due cognati e il padre di Hina debbano stare in celle separate. L’udienza a porte chiuse e l’hurdu impediscono di stabilire cosa effettivamente abbia detto Bushra Begum. Ma nella sua disperazione è mancata una parola per Hina. Questo la fissa nel ruolo della madre che subisce e si fa tramite del patriarcato, dell’onore da salvaguardare anche a costo dello strazio di una figlia. Dire che questa non è una novità non consola. Suggerire, come fa Souad Sbai, presidente dell’Associazione donne marocchine in Italia, d’affidare Bushra Begum a una psicologa che «le insegni a dire no al marito e a poter piangere per la figlia che ha perso» tradisce un ottimismo illuminista. Lo stesso di chi, subito dopo il delitto di Sarezzo, pensava bastasse convocare una bella assemblea alla Cgil per insegnare ai pakistani bresciani il rispetto dei diritti delle donne.
La gup di Brescia Silvia Milesi ha condannato il padre e i cognati di Hina a 30 anni di carcere per omicidio volontario, con le aggravanti della premeditazione, del vincolo familiare e dei motivi futili e abbietti. Mohammed Tariq, zio materno di Hina, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi per «soppressione» di cadavere, reato più grave dell’occultamento di cadavere, ipotizzato dal pm che per lui aveva chiesto 2 anni. I tabulati del cellulare provano che Tariq arrivò nella casa di Sarezzo quando Hina era stata già uccisa. Collaborò a seppellire il cadavere nel giardino, la testa in direzione della Mecca. Una tomba scoperta due giorni dopo dalla polizia, indirizzata lì dal fosco presentimento del fidanzanto di Hina, Giuseppe Tempini, l’unico costituitosi parte civile al processo.
Una sentenza «equa e giusta», commenta il procuratore capo di Brescia Giancarlo Tarquini, «per uomini che in fondo sono loro stessi vittime, ma vittime da condannare». Alla base del delitto, «un intreccio di onore, di cultura, di impostazione religiosa». L’avvocatessa di parte civile preferisce parlare di «vendetta» (Hina aveva accusato il padre di molestie sessuali, poi aveva ritrattato) mascherata da delitto «d’onore» (il che, a suo dire, spiegherebbe i pessimi rapporti in carcere tra il padre e i cognati di Hina).
La ministra per le pari opportunità Barbara Pollastrini apprezza la «serietà» della magistratura e ringrazia «le associazioni delle donne italiane e non» che «hanno tenuto accesi i riflettori su una delle pagine più nere del libro dei diritti calpestati delle donne». Seppur a fin di bene, quella della ministra è una mezza bugia. Le donne italiane, salvo singole eccezioni, non si sono mobilitate per il processo di Brescia. Perchè abbiamo «regalato» Hina a Daniela Santanché, novella portavoce di un partito che si vanta d’avere «la bava alla bocca»? La domanda chiama in cause tutte e, uscendo dalla cronaca, abbozzo una rispota. Per la donne che hanno decretato la fine (in Occidente) del patriarcato Hina è una palla al piede che ci riconsegna al ruolo di vittime. A quelle che – giustamente – riconducono ogni violenza contro le donne al sessimo sfugge la peculiarità culturale del caso di Hina (la paura di dare addosso agli immigrati fa il resto). Abbiamo molto da riflettere anche su di noi e la manifestazione del 24 novembre a Roma può essere un’opportunità.

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