17 Febbraio 2007
Carta

A Cinzia Bottene

Pierluigi Sullo

Cara Cinzia,
sono molto contento di averti conosciuto, domenica scorsa, quando insieme abbiamo discorso, davanti a 350 tuoi concittadini, del movimento contro la base, di democrazia e di pace, con Paul Ginsborg e altri (…). E scusa se, quando ti ho incontrato, al presidio di fronte al Dal Molin, ho quasi gridato “ah, tu!”, e mi sono comportato come se ci conoscessimo da anni. Avevo proprio voglia di conoscerti, dopo averti visto in tv e letto, anche su Carta. Il fatto è che da decenni mi mescolo a movimenti della società cercando di raccontarli, di affiancarli con modestia, di trasmetterne parole e umori. Il mio giornale è nato per questo: siamo convinti, e la cosa pare assurda a molti di sinistra, che la “grande politica”, come dice Mraco Revelli, sta in quel che voi state facendo, mentre loro, i politici, sono dei “nani”. Figurati: ci immaginiamo questo paese come una gigantesca Valle di Susa con capitale Vicenza.

 

La ragione per la quale ti scrivo è che ti ho sentito dire, a quella folla che ti ascoltava, un concetto che mi ha colpito. Che, diciamo così, sapevo in teoria, avendo io costeggiato il movimento femminista degli anni settanta e seguenti, visto le fiere donne indigene del Messico e le forti donne africane. Sapevo, vedevo, che lì, tra le donne imponenti e colorate di Bamako, tra le “insurgentas” zapatiste, tra le molte compagne del nostro paese, fermentava qualcosa di veramente eversivo di tutto ciò che, nei secoli maschili, ha preso il nome di “politica” e di “economia”. Insomma, non sono nato ieri né sono un “imilitante”, abbiamo scelto con Carta la nonviolenza, il “cambiare il mondo senza prendere il potere”, la decrescita intesa come disarmo dello “sviluppo”, eccetera. Ma la parte delle donne restava, nella mia testa (e nel mio cuore, direi se non restasse retorico) una sospensione, forse un’attesa.

 

Non voglio esagerare, naturalmente, ma quando hai parlato di te e delle donne come te, delle madri, nel movimento di Vicenza, forse quell’attesa è finita. Tu hai detto, in molto molto piano, che se in un movimento come il vostro assumono un ruolo forte le donne, allora la faccenda cambia profondamente. Perché le donne guardano al futuro dei loro figli, e quindi sono capaci di durare di più. Hai aggiunto che “inoi siamo più determinate”. E hai detto queste cose interpretando quasi fisicamente quella cosa che Gramsci chiamava, in un altro contesto e con altri scopi, “la connessione sentimentale” tra te, faccia pubblica e voce del movimento, e la gente che era lì, persone molto diverse per età e orientamenti, e tra loro molte donne. Ovvero: non lo dicevi in astratto, come un’aspirazione o un dovere, ma come un semplice e definitivo fatto, che avveniva in quel momento, così come avviene ogni giorno, al presidio, nei concerti di pentole davanti alla caserma Ederle, o nelle assemblee.

 

E la circostanza più sorprendente, mi è parso, è che in questo tuo ruolo pubblico non vi è la minima ombra di “leaderismo”, come diciamo noi di sinistra. Al contrario, si vede una affermazione semplice, ed eversiva dei modi di “far politica”: qui, state dicendo, è in gioco non un conflitto tra “potenze”, quali che esse siano, ma la tutela della vita in ogni sua forma: la famiglia e la comunità, il loro ambiente e la loro possibilità di decidere su se stesse, la necessità di sottrarsi alla guerra. Già la guerra. Se si guarda alla situazione da questo punto di vista, si vede chiarissimo come il governo e il comune di Vicenza, il parlamento e i media che oggi tentano di diffamare e terrorizzare i cittadini ribelli, stiano banalmente giocando a un “war game” di cui solo loro conoscono le regole, anche se le vittime, poi, siamo noi. E la stessa chimica dentro il movimento contro la base, che tende ad essere inquinata dalle azioni e reazioni e dalla concorrenza tra organizzazioni e partiti di ogni genere, rischia a volte di sembrare un “Risiko”. Perché gli uomini – tutti – sono guerrieri, si concentrano sulla tattica, sull’esito della prossima “battaglia”. Mentre le donne, che creano e tutelano la vita, guardano alla “strategia”, ossia alle generazioni che si susseguono e che hanno diritto tutte, le presenti e le future, a un mondo in pace, sano, amichevole.

 

Va bene, qualche volta mi lascio andare, e invece di badare ai rapporti di forza, al flipper in cui ci muoviamo come palline impazzite, ai deliri sul “terrorismo che torna”, ecc., come un giornale di sinistra dovrebbe fare, mi immagino un mondo che non c’è (ancora). Ma noi non siamo un giornale di sinistra, non precisamente, perché cerchiamo di trasferirci in un altro secolo. Perciò ti chiedo, per favore, come chiedo a tutte le donne come te, di dirci che cosa dobbiamo fare.

 

In fondo, tutti vorremmo vivere sulla “madre terra” e non su un “pianeta padre”, non è vero?

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