28 Dicembre 2002
il manifesto

Africa, va in scena il talento delle donne

Un incontro con Odile Sankara, artista di teatro e di cinema, nata nel 1964, anno dell’indipendenza del suo paese, il Burkina Faso, sorella del presidente Thomas Sankara, ucciso il 15 ottobre 1987
Luisa Muraro

Siamo alla vigilia di Natale e mangio con Odile Sankara. Parliamo di cibo e del suo paese, il Burkina Faso. Quando io ho studiato la geografia dell’Africa, questo paese si chiamava Alto Volta ed era una colonia francese. A lei, nata nel 1964, con l’indipendenza, resta, di quel passato, la lingua. Parliamo anche della Francia, dove ora si trova per insegnare teatro. Odile Sankara è un’artista di teatro e di cinema. La sua specialità è raccontare, raccoglie storie popolari e le racconta in francese, ma con la voce e i gesti dell’originale. È amica di Serena Sartori del Teatro del sole di Milano e lavora ogni tanto con lei. Ha lavorato anche con Idrissa Ouedraogo, uno degli undici registi di Undici Settembre, quello che racconta, ironico e soave, una storia di adolescenti che, impressionati dalla colossale taglia su bin Laden, si organizzano per catturarlo. Odile è venuta a Milano, ospite della Libreria delle donne, per parlare di un progetto di scrittura e teatro, già presentato sulla rivista «Via Dogana», nel numero intitolato Libertà senza emancipazione. È una donna di statura media, bella nel viso e in tutta la persona, elegante nel portamento e nei vestiti. Porta un cognome famoso nel suo paese e in Africa: il Presidente Sankara, protagonista di un tentativo rivoluzionario fra il 1983 e il 1987, era suo fratello per parte di padre.

 

Che cos’è rimasto a te e al tuo paese di quegli anni?

 

Conquistata l’indipendenza, il paese fu governato da uomini che imitavano il governo coloniale. Poi vennero dei giovani rivoluzionari con idee nuove, che si rivolsero specialmente alle donne e ai contadini. Il loro tentativo è durato poco ed è finito nella violenza, il presidente Sankara fu ucciso. Ma quei pochi anni hanno rappresentato un passaggio salutare per tutti. Ci hanno lasciato cose importanti come l’apertura al mondo e l’avere fiducia in sé.

 

Puoi fermarti su questi due punti, apertura e fiducia.

 

Il Burkina Faso non ha risorse naturali come il cacao, il rame, il petrolio… Nelle statistiche della produzione, siamo regolarmente gli ultimi o i penultimi. Ma abbiamo ricchezze culturali, siamo sessanta etnie capaci di convivere e portatrici di valori culturali e doti artistiche Con la rivoluzione, abbiamo cominciato a riconoscere questa nostra ricchezza che cerchiamo di far conoscere in Africa e nel mondo intero. Così, nella capitale del Burkina Faso, ogni due anni (i dispari), si tiene un grande festival del cinema panafricano, il Fespaco (seguito puntualmente con passione da Roberto Silvestri e Mariuccia Ciotta, ndr). E negli anni pari, c’è una fiera dell’artigianato e dell’arte, che raccoglie artisti del paese, dell’Africa e di altri continenti.

 

L’associazione di cui fai parte ha un nome significativo, Talenti di donne (Talents de femmes) e nel vostro progetto si parla, in apertura, di «promuovere l’eccellenza», una formula stupenda.

 

In tutta l’Africa come nel mio paese l’educazione tradizionale delle ragazze è confinata nella famiglia, la bambina impara a cucinare aiutando sua madre e bada ai più piccoli, lascia la scuola molto presto, in famiglia l’accento non è messo su di lei ma sul ragazzo che va a scuola e deve far onore al padre. Così lei, a poco a poco, perde la fiducia in sé. In Burkina Faso abbiamo avuto la fortuna della rottura rivoluzionaria e le donne si sono mosse. In un primo tempo giravano slogan rivoluzionari che hanno fatto confusione, ma presto molte hanno capito.

 

Puoi spiegare meglio questo punto?

 

Sembrava una questione di emancipazione, del tipo: adesso tocca a lei portare i pantaloni in casa, cose così. Si tratta invece di prendere coscienza e di imparare a osare. Nell’arte come nell’artigianato c’è una produzione femminile di qualità, che veniva misconosciuta, così come veniva misconosciuto il ruolo portante del lavoro delle donne nell’economia familiare, senza la quale non c’è economia affatto. Saperlo, ci rende combattive. Oggigiorno, in Africa si va diffondendo l’idea che, senza presenza di donne, non c’è sviluppo economico, culturale, politico.

 

La vostra associazione Talents de femmes come s’inserisce in tutto questo?

 

Due sono i suoi scopi. Uno è di mostrare la donna artista, renderla una figura accettata, far capire che la sua condizione di donna autonoma che si dedica al suo lavoro, e non alla famiglia, ha una dignità personale e sociale, vincendo le fantasie di quelli che la vedono come una vita disordinata e scostumata. L’altro è di valorizzare la produzione artistica e artigianale di donne, specialmente quelle dei villaggi che spandono a piene mani tesori di creatività. Abbiamo rapporti con artiste del Mali, paese confinante con il nostro, che sono fra le più brave in Africa. Nelle nostre iniziative cerchiamo di coinvolgere le giovani donne, con la complicità delle insegnanti; le invitiamo ai nostri incontri e alle nostre iniziative. La risposta è buona, ma gli ostacoli non mancano. Uno è la scarsità dei mezzi per finanziarie le iniziative, che sono il quadro che cerchiamo di offrire all’emergere dell’eccellenza femminile. L’insicurezza personale, dovuta al tipo di educazione, è ancora molto forte.

 

In questo progetto mi sembra di vedere che tu ci sei in prima persona, con la tua storia personale. Vuoi raccontarla?

 

Io sono un puro prodotto dell tradizione, sono vissuta di villaggio in villaggio, in casa di parenti, succhiando la vita di queste comunità che sono come una specie di grande famiglia. Fatto un periodo di internato dalle suore, sono andata nella capitale, Ouagadougou (ma noi diciamo Ouagà), a studiare lettere all’università. Laureata, nel 1990, mi venne voglia di andare a vivere da sola, come avevo visto che facevano alcune della mia età, in Europa. Ma i parenti non volevano, non capivano il mio desiderio, erano discussioni a non finire, mi dicevano: lo farai quando ti sposerai, e io gli rispondevo che non avevo voglia di sposarmi ma di vivere per conto mio. È andata avanti per tre anni, perché i loro argomenti mi entravano dentro, ero combattuta, da noi c’è un proverbio: «Quando tutti ti dicono no…». Ma non mi capivo più con mia cugina e per finire mi sono decisa, senza dire niente ho pagato la caparra e poi ho dato l’annuncio che sarei partita. Non è stato facile neanche per loro, perché, ancor oggi, nella nostra cultura una donna che vive per conto suo, non è sposata e non ha figli, è qualcosa di inconcepibile.

 

E la scelta del teatro?

 

Ho scelto il teatro per entrare in contatto con gli altri, condividerne le emozioni, esprimermi e dire le mie idee. Con il teatro ci riesco, mentre non ci riuscirei andando ai dibattiti pubblici o facendo conferenze. Il teatro è la mia passione, ma io non escludo di avere una casa (foyer) da abitare con un figlio, con un marito… So che tenere insieme le due cose è molto difficile, l’ho visto dall’esperienza di altre, però dentro di me non lo escludo.

 

La vostra ricerca si situa in un «tra»: tra la lingua francese e la cultura orale del paese, tra l’amore della tradizione con i suoi valori e il cambiamento dei rapporti donne/uomini. Come vi ponete rispetto ai modelli occidentali?

 

È un problema importante. Il pericolo di cadere nella soggezione ai modelli occidentali, esiste, e per saperlo ci basta osservare quello che capita all’una o all’altro di noi di ritorno da un viaggio in Europa: c’è un modo di fare, di parlare, di atteggiarsi che non è più lo stesso. Che risposta diamo? Tante risposte, per esempio, promuovendo la figura della donna artista come donna creativa e autonoma, noi curiamo quest’immagine e cerchiamo di farla accettare. C’è un’attenzione che occorre avere verso il linguaggio, per non cadere nel linguaggio della competizione con gli uomini, che non è quello che c’interessa. Ma la nostra risposta principale consiste nella consapevolezza e nel discuterne tra noi. Discutiamo molto di questo fra noi.

 

Mi colpisce la maniera in cui questa donna tiene insieme, nella sua personalità e nella sua vita, scelte molto nette con la considerazione per quello che resta escluso dalle sue scelte, come una che va decisa per la strada che ha scelto, ma non volta le spalle a nessuno. Vedendola in questo suo andare, s’intuisce che la strada di essere fedeli a sé senza dover uccidere l’altro, c’è. In altre parole, la politica del simbolico c’è. A proposito delle molte etnie che convivono nel Burkina Faso, Odile mi ha parlato di un costume che hanno, basato su uno strano legame di parentela. Ogni etnia è imparentata per ridere con un’altra: fra queste due etnie sono autorizzati e, come tali, presi in ridere, gli scherzi verbali più spinti e le insinuazioni più offensive. Notate come questa licenza simbolica sia l’uguale e contrario nel nostro political correct: loro neutralizzano i cattivi sentimenti con la possibilità rituale di esprimerli, mentre noi vorremmo neutralizzarli a forza di inibizioni e divieti. Ma, cosa forse più importante, questa singolare istituzione burkinabese permette ai «parenti per ridere» di entrare nelle liti serie che potrebbero degenerare, ingaggiando un diverbio la cui violenza verbale, enfatizzata ad arte, smorza quella vera. È tardi per cominciare a imparare anche noi? Io vorrei «imparentarmi per ridere» con l’etnia Usa.

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