1 Novembre 2002

Al plurale

Un movimento, quello new-global, plurale da un punto di vista politico, delle pratiche quotidiane, della composizione sociale e generazionale. Il rifiuto della denominazione no-global, in nome di una globalizzazione dal basso, dei diritti, della democrazia. Un movimento in cui confluiscono anche vecchie ideologie e si riciclano vecchi gruppi, ma in cui a prevalere sono comunque gli elementi di novità. Intervista a Donatella Della Porta.

Donatella Della Porta insegna all’università di Firenze, Dipartimento di Scienze della Politica.

Lei sta facendo una ricerca sul movimento new-global. Ci può dire quali sono, secondo lei, le caratteristiche nuove di questo movimento…
Il discorso sulla novità dei movimenti è sempre difficile da affrontare perché in genere anche i movimenti tendono a costruirsi sul passato, quindi ci sono senz’altro molti aspetti di continuità, altrettanto interessanti da mettere in evidenza rispetto agli elementi di novità. Dal punto di vista dell’innovazione direi che la novità forse più rilevante è la capacità di mettere in rete, di collegare delle identità molto diverse dal punto di vista sia organizzativo sia di classe sociale, sia generazionale, e che in passato si erano espresse attraverso movimenti, proteste, strutture organizzative diverse, qualche volta anche con qualche tensione tra loro. Per esempio, in passato tra il movimento ambientalista e i sindacati c’erano stati anche momenti di tensione, quando i temi della protezione dell’ambiente venivano contrapposti allo sviluppo e all’occupazione. Nel movimento c’è una grande attenzione al sud del mondo e ci sono movimenti nel nord del mondo che cercano di sviluppare un collegamento: da questo punto di vista anche in passato c’erano movimenti che si dicevano internazionalisti e cercavano di mettere in collegamento parti del mondo diverse, però in questo caso la consapevolezza che l’azione sui temi della globalizzazione debba essere globale, mi sembra molto più forte. Un altro dato interessante, in relazione ai movimenti del passato, è che negli anni Settanta erano emersi alcuni movimenti, come quello delle donne e quello ecologista, che erano stati definiti post-materialisti, perché ritenevano prioritari temi come quello delle libertà, della difesa della soggettività rispetto al problema della giustizia sociale, che forse sentivano un po’ in via di risoluzione. Adesso invece in questi movimenti si è creato un ponte, un’interazione tra i temi classici della sinistra tradizionale, in particolare la giustizia sociale, e temi che erano stati avanzati da movimenti sociali nuovi, in particolare la ricerca di forme nuove di democrazia.
E’ interessante vedere anche come queste diversità vengono percepite dall’interno del movimento e dalle diverse anime e aree in cui il movimento si articola, come una ricchezza. Anche in passato i movimenti sociali erano stati caratterizzati dalla compresenza di identità diverse, però c’era stata sempre un’aspirazione a una unicità, alla ricerca di una struttura organizzativa unitaria e, soprattutto, di un’identità unitaria. Ora invece tutto ciò sembra superato da un’accettazione della molteplicità come espressione positiva per il movimento.
L’elemento di continuità che anche la nostra ricerca ha individuato consiste nel fatto che questo movimento mette insieme un attivismo, una partecipazione politica, che si erano espressi già in passato. Le persone che abbiamo intervistato, che avevano partecipato alla manifestazione di Genova o anche ad altre successive, sono persone che avevano vissuto in passato esperienze in diverse realtà associative, da quelle di tipo solidaristico, le organizzazioni del cosiddetto terzo settore, le associazioni di volontariato, ad associazioni legate più ai movimenti sociali, delle donne, dell’ambiente. E questo anche è interessante: sempre di più le manifestazioni vengono promosse da centinaia e centinaia di sigle.
A Genova la protesta contro il G8 era stata promossa da un grande cartello di circa 800 organizzazioni. Un aspetto interessante è che queste organizzazioni sono anche estremamente eterogenee come forme d’azione, come strumenti organizzativi, ma riescono -e questa è una novità- a incontrarsi, a mettersi in rete, spesso anche utilizzando la cosiddetta “rete delle reti”, internet, per entrare in contatto, privilegiando, appunto, un’identità molteplice ma coordinandosi su alcuni temi centrali per il movimento.
Anche una certa confusione, chiamiamola ideologica, si può ricondurre a questa pluralità? La confusione del nome, ormai evoluto da “no” a “new”, in qualche modo testimonia una complessità della realtà, per cui si è tutti un po’ amanti delle differenze, ma allo stesso tempo ancora tutti molto universalisti…
Nelle interviste che abbiamo fatto con gli attivisti c’è sembrato che emergesse in maniera abbastanza chiara che il “no” è una componente molto minoritaria del movimento. Non a caso il movimento tende a rifiutare l’etichetta di no-global, ma abbiamo notato che anche gli attivisti tendono a pensare a un’altra globalizzazione, piuttosto che a una contrapposizione a tutte le forme di globalizzazione. Il “no” netto è a un tipo di globalizzazione, cioè a una globalizzazione neoliberista, alla globalizzazione dei mercati, che ha voluto dire riduzione della capacità della politica di intervenire rispetto alle disuguaglianze economiche. La percezione che, soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, la globalizzazione sia stata sponsorizzata, portata avanti da alcune organizzazioni internazionali che hanno privilegiato la liberalizzazione degli scambi rispetto ad ogni obiettivo di sviluppo eco-sostenibile, di difesa dell’ambiente, ma soprattutto di difesa dei diritti sociali è un tema unificante che tiene insieme un’area che va dai gruppi della Rete Lilliput, alcuni anche vicini a un attivismo di tipo cattolico, ai gruppi dei centri sociali. Lì c’è un “no” netto, lì c’è un’identità che si contrappone, e anche delle richieste articolate che si contrappongono a questa forma di globalizzazione. Però, per il resto, il movimento e gli attivisti si percepiscono come attivisti di un mondo globale, dove i problemi non possano essere affrontati in maniera localizzata, ma collegando ricerche di soluzioni locali e globali in nome di una globalizzazione dei diritti. Quindi c’è anche la consapevolezza che alcuni aspetti della globalizzazione rappresentano risorse piuttosto che vincoli. La definizione del movimento “no-global” era presente solo nel 5% dei nostri intervistati. Nella maggior parte dei casi quello che unificava era la richiesta di una globalizzazione diversa, di un altro mondo possibile, dove gli slogan, che sono abbastanza indicativi delle richieste del movimento, sono appunto “globalizzazione dal basso”, “globalizzazione dei diritti”, che ancora riportano a questi due nodi che mi sembrano centrali in questo movimento: richiesta appunto di giustizia sociale, globalizzazione dei diritti e di democratizzazione con la ricerca di forme di democrazia nuove.
A chi esprime diffidenza verso il cosiddetto antagonismo di alcune parti consistenti del movimento, responsabile in parte dello “scontro” genovese, altri osservatori replicano: “State attenti perché c’è una novità, a parte gli antagonisti di professione, la maggior parte delle persone va alla manifestazione, si contrappone ma poi, rientrando nel quotidiano, fa delle cose, la bottega dell’equo-solidale, l’associazione, e lì c’è la proposta, c’è il “riformismo” in qualche modo…
Intanto bisogna dire che a Genova erano presenti due tipi di gruppi fra i più radicali: da un lato i black block, un gruppo considerato anche dal movimento come piuttosto esterno, sempre più antagonista anche del movimento stesso, le cui iniziative vengono percepite come forme di azione sbagliate e con effetti negativi. Invece un’altra componente, presente e visibile a Genova, che fa parte a tutti gli effetti della rete, del movimento, è quella dei “disobbedienti”, dei centri sociali, delle allora “tute bianche”. Io credo che ci sia stata un’evoluzione interessante all’interno dei centri sociali, che li ha portati progressivamente ad allontanarsi da forme di protesta più violente verso una ritualizzazione simbolica dello scontro, che prevedeva più che una militarizzazione effettiva, lo spostamento a un livello simbolico, quasi mitologico, del conflitto. E sotto questo profilo credo che sia un’evoluzione che può aiutare una descalation piuttosto che un’escalation dei conflitti. E dopo Genova credo ci sia ancora più attenzione, da parte del movimento, a evitare di dare un’impressione di un movimento violento. Per esempio a Firenze questa attenzione è stata molto forte. Sembrava che in tutto il movimento, inclusa l’ala dei disobbedienti, ci fosse una consapevolezza del rischio di farsi percepire come parte di gruppi radicali. E quindi l’evoluzione che c’è stata, soprattutto nel corso degli anni Novanta, ha facilitato una riduzione dell’utilizzazione effettiva della violenza. Genova, per esempio, avrebbe potuto riavviare un processo di radicalizzazione, e invece per il movimento è diventato un campanello d’allarme: dopo Genova non ci sono stati episodi di radicalismo nelle forme d’azione. Quindi diciamo che da questo punto di vista ho l’impressione, e anche i dati che abbiamo raccolto lo confermano, che questo è un movimento molto convinto della non violenza, sia del valore simbolico più profondo, soprattutto in alcune componenti del movimento che teorizzano la non violenza gandhiana, che definiscono la non violenza con la enne maiuscola, ma anche nelle altre ali del movimento, quelle che non sono convinte della non violenza come valore in sé, ma sono fortemente convinte che in questo momento sia sbagliato, in paesi democratici, utilizzare forme d’azione radicali. Questo non deve far pensare che i movimenti sociali rinunzino del tutto a forme di protesta non convenzionali. Così, per esempio, l’occupazione o il cosiddetto smontaggio dei centri di permanenza temporanea degli immigrati senza documenti sono forme di azione sicuramente non convenzionali, però analoghe, in qualche modo, agli scioperi del passato, le occupazioni, i blocchi stradali, a forme di protesta, cioè, che, credo sarebbe molto pericoloso considerare solo sotto il profilo dei problemi di ordine pubblico. La protesta è di per sé dirompente, è di per sé un’azione che esce dalla routine, però ci sono forme di protesta che sono momenti in cui si cerca di acquisire visibilità, ma una buona gestione dell’ordine pubblico consiste nel non far degenerare queste forme non convenzionali in forme d’azione violenta. Io credo che su questo ci sia, sia da parte delle forze di polizia che da parte dei manifestanti, una certa pratica che si è sviluppata negli ultimi due decenni, che a Genova non è stata sostenuta, ma che poi mi sembra abbia dato buoni risultati successivamente, sia a Firenze, che nelle manifestazioni precedenti al Social Forum Europeo e successive alla contestazione del G8.
E rispetto al retroterra quotidiano?
Questo è una novità degli ultimi dieci anni, e il movimento new-global o globalizzazione dal basso, come lo vogliamo chiamare, è riuscito a rendere visibili una serie di esperienze che si erano mosse soprattutto nell’ambito sociale, delle pratiche dell’obiettivo, di crescita della consapevolezza, senza, però, acquisire visibilità politica: le banche etiche, il commercio solidale, la proposta di bilanci alternativi, ma anche la vita quotidiana dei centri sociali, che spesso è fatta di attività di sostegno a gruppi marginali, attività di volontariato sociale.
Diciamo che il passaggio rispetto agli anni Settanta, che è ancora visibile nel movimento, è stata la ricerca di un impegno concreto, anche di forme d’azione che permettessero di cominciare a cambiare se stessi e il proprio ambiente, a partire dalla vita quotidiana. Questo c’è molto, fa parte un po’ dell’esperienza di testimonianza cattolica, ma anche dell’evoluzione di movimenti come quello delle donne, che avevano sottolineato l’importanza di cambiare le coscienze, piuttosto che di prendere il potere politico. C’è poi un’altra novità importante, anche se è in qualche modo un’evoluzione dei movimenti precedenti: l’attenzione alla formazione di un contro-sapere, di una nuova cultura, di informazione, che si esprime spesso attraverso i forum sociali, che sono gigantesche conferenze con relazioni spesso ad alti livelli di contenuto scientifico, spesso con un linguaggio anche più da addetti ai lavori che da politici. Si privilegia l’attenzione alle informazioni, al sapere, a non costruire delle grandi ideologie, ma a costruire partendo da una conoscenza delle cose. Con questo non voglio certo idealizzare questi incontri, dove c’è anche molta presentazione di discorsi identitari, organizzativivi, legati a temi ideologici degli anni ‘60 e ‘70. Però quello che è nuovo, che stupisce è che nei Forum sociali, i grandi leader non sono i politici ma piuttosto gli studiosi. Al Forum Sociale di Porto Alegre erano in 3.000 ad aspettare Noam Chomsky, che faceva una relazione da esperto delle comunicazioni di massa. Anche questo è un aspetto abbastanza nuovo rispetto ai movimenti degli anni ‘60.
E rispetto alla composizione sociale del movimento?
In questi questionari che abbiamo distribuito a Genova e poi ad altre manifestazioni, alla Perugia-Assisi, e poi adesso al Social Forum Europeo, c’era anche una domanda sulla base sociale. Anche lì la novità sembra essere la pluralità. E’ un movimento senz’altro multi-classe. Anche questa è una novità rispetto ai tipici movimenti sociali degli anni Settanta, Ottanta che erano stati dei movimenti prevalentemente di ceti medi, di nuovi ceti medi, da una parte, e un movimento sindacale prevalentemente di classe operaia e di ceti medi dipendenti. Il movimento new-global vede una presenza fortissima di giovani, e quindi di studenti, con livelli di istruzione elevati, e poi, però, di operai, di lavoratori, della nuova classe operaia del lavoro interinale, magari non manuale, però sicuramente estremamente precario. Quindi, dal punto di vista della base sociale, emerge questa presenza caratteristica multi-classe e multi-generazionale, che pure è nuova rispetto al passato.
Al momento sto studiando lo stesso movimento qui in Francia, e stiamo iniziando una ricerca anche sulla Germania, e questo sembra essere un dato comune, quindi non solo italiano, ma anche degli altri movimenti in Europa.
Questo fatto degli adulti e dei giovani insieme fa impressione. Non c’è alcun problema generazionale?
Infatti, non c’è scontro generazionale. A Firenze, oltre al questionario, abbiamo utilizzato un’altra tecnica di ricerca che si chiama Focus Group, quindi con interviste più in profondità, più utile proprio per approfondire alcuni temi, l’identità del movimento in particolare. E lì, per esempio, è emerso che nei Forum Sociali locali sono presenti almeno cinque diverse generazioni: i giovanissimi, la generazione universitaria, i settantasettini, i sessantottini, ma poi anche la generazione degli anni Cinquanta, del dopoguerra. Quindi sono tante le generazioni compresenti. Non solo padri e figli, come hanno detto i giornali a proposito di alcune manifestazioni dell’ultimo anno, ma spesso anche i nonni. Non c’è conflitto, non sembra emergere conflitto, sembra emergere più dialogo che scontro; mentre per esempio nel ’68 c’era stato anche l’aspetto di una generazione che si contrapponeva a un’altra, questo nel movimento new-global non c’è. Certo, c’è una difficoltà spesso a trovare un linguaggio, trovarsi, trovare e riuscire a darsi delle strutture di coordinamento per una base organizzativa così frastagliata, ma ecco, sicuramente non c’è una dimensione di conflitto generazionale.
Per concludere, un movimento come questo ovviamente diventa anche contenitore di tutto, anche delle vecchie ideologie, un certo anti-americanismo pregiudiziale, un certo tipo terzomondismo, o le stesse varie correnti comuniste. Ecco, secondo lei le vecchie storie quanto peso hanno? O prevalgono gli aspetti di novità?
E’ una domanda che si pone spesso qui in Francia, in maniera anche evidente, perché molti dei personaggi più visibili del movimento sono persone con un passato nei gruppi trotzkisti, o anche nel partito comunista francese, che era un partito comunista con un’identità particolarmente chiusa. Io ho l’impressione che questo aspetto del “contenitore” di tante cose differenti si veda anche in Italia. E però non mi sembra l’aspetto più dinamico del movimento. Se si guarda nelle riunioni, non c’è dubbio che c’è un po’ l’effetto palcoscenico, dove attivisti di organizzazioni sopravvissute al passato, al riflusso dei movimenti, di gruppi più tradizionali, e spesso burocratizzati, trovano un momento per ripresentarsi e cercano di entrare, però mi sembra che non esercitino una forte capacità di attrazione, soprattutto rispetto alle generazioni nuove.
Queste, che rappresentano il numero più consistente e crescente, mi sembra non si facciano condizionare o coinvolgere da questi possibili rischi di cooptazione. E mi sembra che siano soprattutto loro a dare il tono al movimento.

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