8 Novembre 2002

Ascoltare, ascoltarsi

Franca Gianoni

Una sessantina di socialforisti fiorentini, in prevalenza donne, hanno svolto per quasi due mesi un capillare lavoro di reale informazione alla città impaurita dalla campagna provocatoria e terroristica dei media sul social forum europeo. Coordinati puntualmente da un onnipresente Massimo, hanno organizzato decine di assemblee cittadine nei quartieri, con la confesercenti, con le famiglie che ospitano nelle loro case i partecipanti più squattrinati. Ma soprattutto per settimane ogni pomeriggio sono andati a parlare personalmente con gli abitanti, porta a porta, negozio per negozio, spiegando a che cosa in realtà serviva il megaraduno. Abbiamo intervistato Sabrina, Sara ed Enza, del gruppo di sensibilizzazione “Firenze città aperta” e Milla di Consumo critico e Boicottaggio.
Sabrina studia e lavora. Non appartiene ad alcuna area, si considera un cane sciolto. Nell’ultimo mese ha rinunciato a completare la tesi perché è “strainteressata” ai contenuti del sf. Essendo genovese, ha vissuto gli avvenimenti intorno al G8. Alla domanda “ma tu che cosa hai imparato da questo contatto più ampio con donne e uomini che abitualmente non frequenti?” risponde che è diventata più realista. Non le è stato facile contattare persone diverse, visto che generalmente vive invece tra simili a lei. E’ convinta che il vero cambiamento viene dal basso, e trova che parlare con le persone è pratico e utile, anche quando è “una batosta” per chi lo fa, come è stato per lei, che è stata spesso respinta. Ma trova che acquisire più realismo, avere meno illusioni è fondamentale per la propria azione nel mondo. Anche Sara, che con l’amica Sabrina ha percorso una zona “più difficile, perché ci passerà il corteo”, ritiene di aver maturato un equilibrio maggiore nel contatto con la pluralità. Prima era più intollerante, per esempio secondo lei tutti dovevano occuparsi di politica. Ora ha toccato con mano che “l’egocentrismo intellettuale” è dannoso proprio rispetto al diffondersi della politicizzazione. Se la sua coetanea commessa di profumeria non sa nulla di Genova, è controproducente avvilirla: avrà una sua storia che va rispettata se si vuole interloquire con lei.
Enza lavora da un pezzo, la sua preparazione politica viene poco dai sindacati e partiti, si è formata di più nel volontariato, soprattutto nella solidarietà internazionale, in particolare verso il Sudamerica. Ha girato la zona della Fortezza, contattando ristoratori, commercianti…Ha verificato che le voci allarmistiche diminuivano man mano che si allargava l’attività di sensibilizzazione. Alle persone impaurite, lei e gli altri ammettevano le proprie paure, aggiungendo che proprio per questo si davano da fare perché tutto funzionasse. Già sapeva, ma ancor più ha verificato come la gente sia tartassata da stampa e tv. Ma dalla disponibilità rilevata dopo averci parlato, ricava la conclusione che contro l’azione del virtuale vale ancora l’ incontro reale, la parola in presenza fisica. Pensa che l’essere poveri di tempo per sé la ostacola e proprio per questo si rafforza la sua convinzione che bisogna “allargare il giro” di impegnati e impegnate. Le sembra infatti che l’intervento in prima persona è la strategia giusta rispetto alla disinformazione mediatica.
Milla incontra piccoli numeri di persone cui parla di stili di vita, di possibili consumi alternativi, di scelte diverse, di sobrietà. Con il ripetersi di queste esperienze si è resa conto di dover cambiare lei stile. Ha capito di apparire come una donna antipatica e saccente, che dice quali marche acquistare e quali no ad acquirenti passivi forse allontanati dalla sua volontà di indicare regole diverse dalle abituali. Ha colto allora che doveva prima di tutto ascoltare le persone e le loro perplessità ed esigenze, se voleva che interloquissero e si rendessero partecipi della creazione di regole nuove. Ascoltare gli altri le è servito a non essere una marziana rispetto a loro, a raggiungerli, ad essere quindi più efficace.

Ora: che cosa imparo io da queste interviste? Mi suscitano più domande che risposte. Per esempio ho notato che era spontaneo raccontare dove come quando con chi si era svolto l’intervento e le reazioni avute. Molto meno immediate le risposte su se stesse. Una intervistata ha chiesto tempo per pensarci e mi ha scritto una mail il giorno dopo. Lo sguardo oggettivante prevaleva, nonostante la domanda fosse esplicita rispetto agli eventuali guadagni soggettivi nell’esperienza. Non era una domanda attesa, si entrava in una dimensione imprevista per la quale le parole andavano cercate con un po’ di sforzo. La richiesta così personale sembrava forse meno politica? Oppure, come spesso accade alle donne, con beneficio per il mondo ma con scarso suo riconoscimento, ognuna pensava molto di più a ciò che voleva ottenere che non all’affermazione di sé? Oppure devo mettere in discussione le mie aspettative e ascoltare a mia volta di più?

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