25 Febbraio 2004
il manifesto

Bambini, rompete le righe

Le scuole comunali d’infanzia di Reggio Emilia festeggiano quaranta anni di attività. Un’esperienza preziosa, basata sull’ascolto, la sperimentazione, la crescita condivisa. Ne parla la coordinatrice pedagogica Tiziana Filippini
Arianna Genova

È davvero una bella storia italiana quella delle scuole comunali d’infanzia di Reggio Emilia che oggi festeggiano i loro quarant’anni con la mostra-evento ospitata ai Chiostri di san Domenico (fino al 31 marzo) e un convegno internazionale dedicato alla figura di Loris Malaguzzi (25-28 febbraio). Quasi mezzo secolo di successi che hanno visto formarsi un rapporto «speciale» tra bambini, genitori, insegnanti e istituzioni cittadine, coadiuvati da una rete di servizi invidiabile, aperta a ogni tipo di sperimentazione, un sistema che gli svedesi, già nei lontani anni 80, sono venuti a sbirciare «esportandolo» sotto le spoglie di una esposizione a Stoccolma. A Tiziana Filippini, responsabile del coordinamento pedagogico delle scuole e nidi d’infanzia di Reggio Emilia, abbiamo chiesto di farci da guida lungo la storia di questo meraviglioso «caso anomalo».

 

Come nasce l’idea di fare una mostra sulle scuole d’infanzia?

 

La mostra si chiama I cento linguaggi dei bambini. La narrativa del possibile, cui abbiamo aggiunto: «1980-2004». Vogliamo far vedere quelli che sono stati i cambiamenti e le diverse consapevolezze del nostro stare con i bambini. C’è una prima parte della rassegna incentrata sugli anni 80 e poi una sezione sul decennio dei 90, a testimonianza delle trasformazioni avvenute sia nel modo di documentare che in quello di fare attività: si privilegia la ricerca, i processi, le strutture narrative e per dare visibilità a tutto ciò è nata una collana editoriale. La mostra è una ricognizione sulla nostra esperienza, qualcosa che ne riprende i fili, una sorta di rilettura della propria identità e insieme dell’esperienza più corale. La rassegna nacque negli anni 80 da un’esigenza locale: dare testimonianza di una diversa immagine di bambino e di scuola, della possibilità di un’altra didattica. Malaguzzi, con la prima scuola aperta nel 1963, aveva cercato di costruire qualcosa di innovativo, raccogliendo le battaglie delle donne di quel periodo e investendo sull’infanzia per creare una società diversa. Era la sua un’idea di futuro, un patto sociale. La scuola «partecipata» vedeva fin dall’inizio collaborare tutti, dai genitori ai rappresentanti di fabbrica e dei quartieri. Attraverso il «riscatto» delle intelligenze dei bimbi si riscattavano anche quelle di donne e uomini. Intorno si respirava però scetticismo. Malaguzzi allora portò i bambini sotto i portici della piazza per mostrare ai cittadini come dipingevano con cavalletti e colori. L’obiettivo era dare visibilità alle loro competenze, non solo cognitive ma anche emozionali-espressive. Malaguzzi sosteneva che ogni bambino nasce in una relazione, è un essere intero che non accetta di essere diviso e frammentato, neanche disciplinarmente. Quello «nuovo» era un bimbo ascoltato, che gli adulti dovevano affiancare nelle sue ricerche. E mentre lo diceva agli operatori e educatori, lo ripeteva anche alle famiglie. Un bambino è già un cittadino, è un soggetto che al pari di altri produce cultura. E l’educazione è un fatto pubblico.

 

Qual è l’idea «forte» che impronta l’esperienza delle scuole d’infanzia di Reggio Emilia?

 

Ci sono piuttosto alcuni tratti forti della nostra identità. Per esempio, rimettersi in gioco continuamente. E cercare di comprendere cosa vuol dire scuola d’infanzia in una città educante e complessiva. Chiedersi cosa significa partecipare oggi rispetto al 1963 quando l’urgenza era lottare per avere scuole e servizi. Pur nei cambiamenti ci sono dei valori che restano perché non appartengono solo alla sfera privata ma a quella politica ed etica. La scuola è fondamentalmente questo, non luogo di trasmissione ma di costruzione.

 

Cosa è cambiato oggi?

 

È mutata molto la forma organizzativa: viviamo in una società dove la cultura della partecipazione è venuta meno. Ci sono intere generazioni che non hanno avuto modo di sedimentare questa modalità di rapporto e la scuola stessa non è stata un esercizio. La trama sottile che ancora aggrega è quella di non rinunciare a un’idea di scuola promotrice di democrazia, capace di mantenere alti quei valori indispensabili per un individuo. Oggi poi abbiamo persone che vengono da tutto il mondo, c’è un incrocio di culture che permettono di accedere a conoscenze diverse.

 

A quali teorie pedagogiste si sono ispirate le vostre scuole?

 

Malaguzzi, nella ricerca del suo modello alternativo, attingeva da vari pedagogisti, prendeva da ognuno quello che considerava il meglio, il tutto sempre filtrato dalla realtà. L’idea base della teoria-prassi è stata una ricchezza in più. Non solo quindi le teorie dei pedagogisti moderni ma una serie di atteggiamenti mentali, modi di essere in cui la ricerca educativa diventava uno stile. La maggior parte della nostra formazione viene fatta sul campo e l’esperienza è uno strumento di riflessione. Il cambiamento è considerato una risorsa, non una frustrazione. Niente è automatico, non arriva nessuno qui da noi «abilitato» dal suo curriculum e basta: si rimette in gioco.

 

La documentazione, per tornare anche ai criteri che hanno guidato l’allestimento della mostra, è la chiave di volta di tutto questo. Faccio un esempio: c’è una figura che ha voluto fortemente Malaguzzi che è l’atelierista. È una figura anomala che rompe con la pedagogia tradizionale e porta dentro la scuola, a tutti i livelli, i linguaggi espressivi, tiene insieme appunto i «cento linguaggi». Non si tratta qui del «laboratorio» di cui parla Moratti. Quel laboratorio torna a separare, va nella direzione contraria rispetto a quanto dicono le neuroscienze e le psicologie cognitive. Col tempo parcellizzato si viene a perdere l’importante dimensione della crescita condivisa. Insieme, ci si educa vicendevolmente per decifrare la società.

 

Veniamo al punto: la riforma Moratti…

 

Quando dice di fornire risposte a tutti, pur non perdendo di vista l’identità, è forte. Qui però non si tratta di privilegiare un gruppo o un individuo ma una serie di co-emergenze dove il singolo viene considerato dentro le relazioni. La pretesa morattiana di individualizzare i percorsi è mistificatoria, apre una strada che è astratta rispetto al modo di crescere di qualsiasi essere umano, che è sempre relazionale. Solo così impari delle procedure che poi ti accompagneranno per tutta la vita. Il soggetto apprende a costruire la propria conoscenza.

 

L’esperienza di Reggio ha «seguaci» in Italia?

 

Gli scambi sono numerosi ma la nostra rete di scuole nidi e infanzia non rappresenta nessun modello esportabile. È un’esperienza nata in quell’acquario che è l’ambiente, che accoglie e sollecita le diverse risposte.

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