23 Aprile 2003

Bandiere della pace in Iraq

Teresa Sarti Strada

Caro direttore, le scrivo per segnalare a lei e ai suoi lettori alcune immagini, nel caso vi fossero sfuggite.
Ho visto, durante il Tg3 serale di Pasqua, la breve cronaca di un episodio che assume una altissima valenza simbolica per me e per la gente di Emergency, ma non solo, credo. L’ambiente è l’ospedale di Karbala, Iraq, la città santa degli sciiti. Le finestre sono incredibilmente rivestite dalle bandiere di pace (comperate in piazza Duomo, a Milano). Effettivamente, sembra uno dei tanti palazzi delle nostre città, quelli a cui alziamo gli occhi con gratitudine e consonanza, da mesi. Ma che cosa è successo? L’11 aprile il team di Emergency, arrivato da Amman con 30 tormellate di farmaci e materiale di consumo, aveva chiesto ospitalità per il camion frigorifero e l’autoarticolato nel recinto dell’ospedale Troppo rischioso portarli a Baghdad, in preda ai saccheggi; meglio raggiungere la capitale con le sole macchine e rendersi conto di persona della situazione. Due giorni dopo, fatte le verifiche e presi i contatti con l’ospedale Al Kindi di Baghdad, i nostri sono tornati a Kerbala: nulla, nemmeno un filo di sutura, era stato prelevato dal cargo. Si instaura un rapporto di fiducia e di collaborazione, vengono lasciate tre tonnellate di farmaci e si comincia a fare una prima ipotesi di collaborazione. Il sabato di Pasqua i medici dì Emergency tornano da Baghdad nella città santa degli sciiti. Spiegano al mullah che dirige l’ospedale il significato delle bandiere colorate mescolate ai farmaci, raccontano di milioni di italiani che hanno esposto le bandiere alle finestre per dire il “no” alla guerra che avrebbe colpito il loro paese. E il mullah chiede di esporre le bandiere arrivate dall’ Italia alle finestre dell’ospedale.
Subito dopo il servizio del Tg3 dava altre immagini che mi hanno commosso. 12 pazienti (tra cui 10 bambini) affidati al team di Emergency perché li curassero, con più mezzi e maggiori competenze specialistiche, nel nostro ospedale di Sulaimaniya, nella zona dei curdi, i loro “nemici”. “Ma quali nemici, siamo tutti iracheni”, diceva qualche giorno prima Hawar, in un’intervista a Giovanna Botteri. Ti rubo ancora qualche riga per raccontarti anche questa storia, altrettanto ricca di valenza simbolica.
Hawar è l’amministratore curdo dell’ospedale di Emergency a Sulaimaniya. Ha guidato il convoglio che arrivava da là, con 6 tonnellate di farmaci, materassi, cuscini e 45.000 litri di gasolio per rimettere in funzione il generatore dell’ ospedale Al Kindi di Baghdad. A Baghdad Hawar, in quanto curdo, non era potuto andare nemmeno quando, nel 1998, era ricoverato il suo bambino di tre anni, operato di tumore al cervello. Mohammed non ce l’aveva fatta, e adesso Hawar arrivava a Baghdad (Il medesimo ospedale? Un altro? Non importa) per contribuire a rendere possibile la salvezza
di altri figli, E dice “siamo tutti iracheni”.
La cura delle vittime e l’impegno per la pace non possono essere disgiunti, se non si vuole cadere nell’ipocrisia e nel pietismo. “Ciecopacifisti” ci hanno chiamato con disprezzo, pacifisti assoluti Certo, non siamo pacifisti a guerre alterne, questa si, questa no.
Perché dappertutto vediamo lo stesso orrore, la semina di sofferenze, e la semina dì odio che la guerra porta.
Quella sera di Pasqua d’istinto ho dedicato le immagini che avevo visto a padre Alex Zanotelli: “pace da tutti i balconi”, ci ha detto in questi mesi, lui che ben sa che la condivisione e l’impegno politico devono stare insieme.
Ma, se me lo permettete, dedico quelle immagini di speranza anche a tutti i vostri lettori che non toglieranno le bandiere dalle finestre, perché sanno di doversi impegnare per la pace preventiva.

 

Con stima

 

Teresa Sarti Strada

 

Teresa Sarti è Presidente di Emergency – Life Supportfor Civilian War Victims,
www.emergency.it

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