Maria Castiglioni
Alle 9 di mattina l’aula magna del Palacongressi è semivuota, ma nel giro di un’ora si riempie velocemente : donne di ogni età, alcuni uomini, per lo più giovani, una folla di circa 700-800 persone attenta e partecipe.
E’ la prima volta che un tema attinente la sfera dei rapporti interpersonali , in particolare quella tra i sessi, viene posto in modo esplicito in un contesto così pubblico e allargato, all’interno degli appuntamenti del Social Forum. Quindi sento, anche per me, attesa e curiosità.
Nadia de Mond della Marcia Mondiale delle Donne coordina il dibattito.
Non riesco a rintracciare una diversità sostanziale negli interventi che si susseguono. Dall’accento posto sull’oppressione delle donne che ‘devono lavorare insieme per giungere a progetti comuni, superando la disomogeneità, dovuta alla mancanza di un’identità collettiva” (Angelika Psarra, giornalista greca), alla denuncia dettagliata della discriminazione orizzontale e verticale subita dalle donne sui luoghi di lavoro e alla conseguente necessità di estendere i servizi sociali e lottare contro la precarietà lavorativa (Laura Gonzales de Txabarri, sindacalista basca), fino all’appello a “procedere per astrazioni per trovare punti unificanti, perchè occorre andare oltre l’affermazione che il personale è politico” (Christine Delphy, Marcia mondiale delle donne francese) . L’intervento più articolato e puntuale mi è sembrato quello di Lidia Cirillo (Marcia mondiale delle donne italiana) che si è soffermata sulla questione del potere, domandandosi : “E’ possibile riscattare il potere?” e poi, a proposito delle politiche di parità, interrogandosi sulla ‘natura’ del potere su cui si avanzano pretese di ripartizione: “Di che cosa vogliamo il 50%?”si è chiesta, proseguendo il discorso sulla necessità di una ‘terza via’ tra il rifiuto del potere e le politiche di parità. In un breve excursus storico, ha richiamato alcune forme di ‘democrazia diretta’ utilizzate dalle donne: i club femminili della Rivoluzione Francese, la lotta delle suffragiste inglesi, l’Internazionale femminile del 1920, le donne del RAWA afgano, fino ai gruppi di autocoscienza, definiti una ‘prima forma di autorganizzazione e base della spinta emancipatoria’. “Ma – ha proseguito – questo tipo di democrazia non esiste: quella con cui abbiamo a che fare è la democrazia dei ceti politici e degli interessi forti. Rischiamo allora di di lottare per il 50% di niente”, ha concluso, rinviando alla necessità di lavorare per una democrazia “capace di superare la distanza tra popolo e politica”.
Gli interventi successivi mi sono sembrati molto orientati alla denuncia delle condizioni di vita delle donne (in Irlanda, in Spagna, in Africa etc.) con un rimando costante alla necessità di unirsi e lottare per cambiare le cose, fatta eccezione per Bianca Pomeranzi, con il suo richiamo alla pratica femminista (che esigerebbe un diverso ‘assetto’ delle ‘forme’ degli incontri) e Maria Grazia Campari che ha evidenziato la necessità di mediare nel conflitto tra i due generi attraverso “risultati consensuali via via proggressivi”. Anche un uomo, Stefano Ciccone, ha rappresentato una nota un po’ diversa, riconoscendo alle donne di aver posto in primo piano la questione di una pratica e di una politica che non tagliasse fuori il corpo. Anche il mio intervento ha ripreso questo tema, a partire da un invito a non negare, in nome di un rivendicazionismo superficiale e datato, i propri desideri, tra cui quelli riguardanti le relazioni di cura (fischi dalla platea) e una certa indifferenza per il potere , dimostrata tra l’altro dalla scarsissima adesione delle donne alle politiche di parità e dalla stessa ammissione di Lidia Cirillo circa la ‘vacuità’ della lotta per le quote (altri fischi). Ho fatto anche rilevare che ognuna delle donne che era lì presente aveva sicuramente trovato una buona integrazione tra la vita domestica, quella lavorativa e la passione politica e che pertanto non valeva la pena di soffermarsi troppo su questa difficoltà che, nei fatti, aveva già trovato una sua possibilità di soluzione per tutte noi presenti (altra bordata di fischi). Ho chiesto alla platea (e alle relatrici) di spiegare in che cosa consistesse quella differenza, così spesso evocata, con l’invito a non ridurla al mercato dell’economia e ai diritti, ma aprendola al ‘mercato’ delle relazioni e dei desideri (la coordinatrice mi ha invitato a chiudere in fretta).
Chi ha ripreso il mio intervento mi ha accusata di volere rimandare le donne a casa, di schiacciarle sulla sola funzione riproduttiva etc. etc.. Le amiche, generosamente, mi hanno detto che non sono stata capita, ma io credo semplicemente di aver fatto prevalere una certa vis polemica, a detrimento della comunicazione.. Perchè un conto è il protagonismo, altro è l’esserci. E questa è una strada lunga o, per riprendere un’espressione di Luisa Muraro, una ‘porta stretta’.