8 Novembre 2003
il manifesto

«Buon cibo» nativo e cattivi brevetti

Franco Carlini

Lo chiamano riso d’acqua anche se riso non è, trattandosi semmai di un’erba che cresce nell’acqua bassa e che assomiglia al grano; il suo nome scientifico è Zizania palustris, proprio come la zizzania del Vangelo, ma, a differenza di quella che è considerata pianta sgradevole, il riso d’acqua è invece un buon alimento e nutriente. Gli americani attuali lo chiamano wild rice, ma la popolazione nativa del Minnesota, gli Anishinaabe, lo considerano alimento importante e persino propizio e lo chiamano manoomin, «erba buona». E hanno ragione del resto, dato che contiene più proteine e meno carboidrati del riso vero. Come segnala Corby Kummer sul sito Internet dell’associazione Slow Food, «Il Midwest settentrionale e il Canada meridionale, la zona dove si trova la riserva di White Earth, sono il centro della biodiversità e del plasma germinale di questa pianta». E il progetto Welrp che promuove il recupero alla popolazione originaria delle terre della riserva di White Earth è uno dei destinatari del premio Slow Food per la Biodiversità che viene festeggiato domani a Napoli.

 

Figura di spicco ma non unica dell’iniziativa è Winona LaDuke, che fu candidata alla vicepresidenza insieme a Ralph Nader nelle passate elezioni presidenziali, ma questo è l’aspetto forse meno interessante della sua biografia, e in ogni caso non è per meriti partitici che il premio le viene assegnato. Il suo debutto pubblico lo fece nel 1977 quando aveva solo 18 anni e parlò alle Nazioni unite a sostegno dei diritti della sua nazione indigena, gli Anishinaabe appunto, conosciuti anche come Ojibwe e Chippewa. La storia penosa è analoga a quella di altre popolazioni originarie del nord America: un trattato con i bianchi (nel 1867) riconosceva la sovranità Anishinaabe su 35 kmq di pini, corsi d’acqua e altre risorse. Tra vendite fittizie, truffe e forzose modifiche quel territorio si è ridotto a un 10 per cento del promesso e così negli ultimi anni, perse le speranze nelle battaglie legali, il movimento Welrp fondato da Winona ha cominciato a raccogliere fondi per riacquistare i terreni abbandonati e restituirli a chi vi aveva sempre abitato.

 

E su queste terre cresce il riso d’acqua, disgraziatamente riscoperto dai ricercatori universitari come buono e sano e dunque rapidamente brevettato, geneticamente manipolato, esportato in altri stati. Oggi viene coltivato soprattutto in California, sotto forma di ibrido a basso costo, e queste varianti genetiche rischiano di avere la meglio sul manoomin originario. Winona LaDuke non ha scrupoli a chiamare con il suo nome tale appropriazione: biopirateria, ovvero «appropriazione illegale della vita, che si tratti di microrganismi, di piante, animali così come della conoscenza culturale che li accompagna». Così scrive LaDuke, aggiungendo che «la biopirateria viola le convenzioni internazionali, ma spesso opera attraverso nuove leggi create per l’occasione attraverso il Gatt e l’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale (soprattutto i brevetti) alle risorse genetiche e alla conoscenza». All’avanguardia (si fa per dire) nella commercializzazione e sterilizzazione del riso d’acqua è la californiana Norcal Wild Rice Company.

 

Su quelle terre d’America vive anche Margaret Smith, insegnante in pensione di 84 anni. Ogni giorno parte con un suo furgone e porta a casa di 170 persone un pacco di «cibi buoni» (Mino-Miijim) che contiene gli alimenti di una volta: riso d’acqua intero e macinato, farina di granturco, carne di bisonte acquistata in altre riserve e caffè biologico; non mancano sciroppo d’acero e marmellata di frutti raccolti a mano. Sembra davvero – e forse lo è – una favola americana, Sono anziani abbastanza poveri, ma il sollievo che arriva con i pacchi non è solo quello economico: con quei cibi si conserva la memoria (e le ricette) e si mantiene la cultura di una comunità dispersa. E perché non lo sia fino in fondo, sono stati realizzati circa 400 piccoli orti all’interno della ricerva, dove tornare a coltivare «granturco, fagioli e zucca, le `tre sorelle’ della storia orale nativa che crescono insieme in armonia».

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