15 Dicembre 2019
Le monde diplomatique - il manifesto, dicembre 2019

Come esportare la democrazia liberale – Cambiamenti di regime chiavi in mano

di Ana Otašević, giornalista e regista, Belgrado


Un testo che segnaliamo per quelle che vogliono capire cosa sta diventando la politica oggi.

La redazione


Dalla fine della guerra fredda, governi saldamente consolidati si trovano ad affrontare un nuovo metodo di destabilizzazione: una resistenza fondata sulla nonviolenza attiva. Da Belgrado al Cairo, da Caracas a Kiev, e ancora ultimamente in Bolivia, il percorso seguito da un piccolo gruppo di studenti serbi ci ricorda il ruolo che può svolgere un’avanguardia determinata. Ma in nome di quali idee e con quali appoggi?


Questa storia inizia un giorno d’autunno del 1998, in un caffè nel centro di Belgrado. La maggior parte dei giovani presenti si sono fatti le ossa nelle manifestazioni studentesche del 1992 e poi del 1996-97. Fondando il movimento Otpor! («Resistenza!»), il loro obiettivo è ormai far cadere il presidente jugoslavo Slobodan Milošević che, al potere dal 1986, ha appena ripreso il controllo delle università. Per impressionare una ragazza del movimento, uno degli studenti, Nenad Petrović Duda, disegna su un pezzo di carta un pugno nero alzato. Una mattina di novembre, degli stencil con il simbolo di Otpor! compaiono sui muri del centro della città, accompagnati da slogan contro il regime. Quattro giovani attivisti vengono arrestati e condannati a quindici giorni di carcere. Il pugno alzato viene ripreso sulla prima pagina del quotidiano Dnevni Telegraf. Il suo caporedattore, Slavko Ćuruvija, viene trascinato in tribunale.

«Otpor! è apparso come una forza nuova. Con questo processo, siamo diventati subito famosi», racconta Popović, studente di biologia marina e musicista, che prima di entrare in politica sognava di diventare una rock star. Questa «forza» inizialmente poteva contare su una trentina di studenti. Un anno più tardi, il simbolo di Otpor! era brandito da migliaia di persone in tutto il paese. «Nei centri universitari ci siamo radicati rapidamente. I partiti di opposizione erano disuniti. I giovani sono venuti da noi», spiega il co-fondatore del movimento.

Le piccole dimensioni dell’organizzazione e il suo funzionamento orizzontale, senza leader ufficiali, si rivelano dei punti di forza per indebolire e screditare il regime attraverso la satira. Il movimento cerca soprattutto di mobilitare la popolazione e in particolare i giovani, che ostentano il loro disinteresse per la vita politica. Otpor! mette insieme monarchici, socialdemocratici e liberali.

Questa matrice non ideologica viene esplicitamente rivendicata: «Non stavamo facendo nulla di troppo politico, perché sarebbe stato noioso; volevamo che i nostri interventi distraessero e, soprattutto, facessero ridere», dice Popović, che adora i Monty Python (1). Quando, ad esempio, un gruppo di Otpor! fa sfilare un asino agghindato con finte decorazioni militari a Kruševac, nella Serbia centrale, la polizia arresta i giovani, ma non sa cosa fare dell’asino: «In una scena rocambolesca, gli agenti di polizia hanno cercato di spingere l’animale in un furgone a colpi di manganello, racconta Srđan Milivojević, un ex militante. La folla gridava: “Non toccate l’eroe nazionale!”». Le trovate umoristiche seguite dagli arresti raggiungono le prime pagine dei giornali, mentre la repressione della polizia contribuisce a erodere la legittimità del governo, causando divisioni tra gli ultimi sostenitori di Milošević.

La generazione di Otpor! è cresciuta in un’epoca segnata dalle guerre fratricide dell’ex Jugoslavia e dall’isolamento internazionale. Come progetto politico, sogna una «vita normale». «Sui canali satellitari vedevamo come vivevano le persone della nostra età a Parigi o a Londra, mentre da noi gli scaffali dei negozi erano vuoti. Ci siamo battuti per la nostra sopravvivenza», afferma Predrag Lečić, un altro membro della prima ora di Otpor!. «Non lottavamo contro qualcosa, ma contro qualcuno», riassume Ivan Marović, ex portavoce non ufficiale di Otpor!

Nel 1999, la guerra del Kosovo e i bombardamenti della Repubblica federale di Jugoslavia da parte dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (Nato) segnano una svolta. «Il 24 marzo del 1999 mi sono svegliato e ho scoperto che la Francia non era più nel cuore della Serbia, ma nei suoi cieli, da dove stava sganciando centinaia di bombe per punire il regime», ricorda Milivojević. «È difficile fare opposizione quando il proprio paese viene attaccato», aggiunge Popović. Sua madre sfugge di poco al bombardamento della televisione nazionale, dove lavora come giornalista. Lui si nasconde, mentre Ćuruvija viene assassinato dagli uomini del regime.

Dopo questo periodo di stordimento, Otpor! è la prima forza politica a passare all’azione. Rinunciando all’epiteto «studentesco» per ampliare la propria base e canalizzare il malcontento e malgrado l’intensificazione della repressione, il gruppo annuncia la creazione di un fronte unito contro il governo, a cui partecipano partiti politici, associazioni, media indipendenti e sindacati. A metà del 2000, Otpor! è ormai un movimento che, dato il numero dei suoi aderenti, può svolgere un ruolo decisivo all’interno dell’opposizione.


Un centro «educativo»

Nel settembre del 2000, pressioni interne ed esterne spingono Milošević a indire elezioni anticipate. L’impegno di Otpor! contribuisce a far aumentare l’affluenza alle urne e a far cadere il presidente. Popović, entrato in parlamento come rappresentante del Partito democratico, diventa consigliere del primo ministro Zoran Đinđić e poi membro del gabinetto del ministro dell’ambiente e consulente per lo sviluppo sostenibile presso il vice primo ministro. Gli anni epici sono passati. Il movimento cerca di trasformarsi in un partito, ma alle elezioni parlamentari del 2003 registra un forte insuccesso, ottenendo l’1,6% dei voti.

Tuttavia, la storia politica di Popović, che continua a presentarsi come un «semplice rivoluzionario», non finisce qui. Nel 2003 crea il Centro per l’azione e la strategia non violenta applicata (Canvas) insieme a Slobodan Đinović, un altro fondatore di Otpor!. Negli anni che seguono, gli istruttori di Canvas diffondono la loro esperienza in una cinquantina di paesi, tra cui la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia, l’Albania, la Russia, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Libano e l’Egitto.

Nei locali angusti di Canvas, situati in un centro commerciale poco attraente di Novi Beograd (Nuova Belgrado), nulla oggi lascia immaginare una tale rete. «La nostra professione è diventata addestrare e formare attivisti, racconta Popović. La prima lezione mira a creare unità attraverso una visione forte del futuro. Spiego loro come riunire attorno a un obiettivo comune persone dagli orizzonti ideologici differenti, così da ottenere più del 50% dei voti.»

Quando non è impegnato a gestire la propria azienda, la Orion Telekom, Đinović tiene delle lezioni sulla lotta non violenta in giro per il mondo. Sulla sua lista figurano Vietnam, Zimbabwe, Swaziland, Siria, Somalia, Azerbaigian, Papua Nuova Guinea, Venezuela e Iran. Per motivi di sicurezza, questi corsi di formazione vengono spesso organizzati in paesi vicini, all’interno di grandi alberghi. I membri di Canvas insegnano la strategia per ottenere un cambiamento di governo con metodi non violenti. Sono convinti che le rivoluzioni spontanee non possano avere successo. A loro avviso, dipende tutto dalla pianificazione e dalle tattiche impiegate: come creare l’unità, incitare alla disobbedienza civile, organizzare boicottaggi; quali slogan scegliere, come utilizzare la musica. Il loro metodo comporta quattro fasi: l’analisi della situazione, l’ideazione dell’operazione (quello che bisogna fare), l’esecuzione (come vincere, chi farà cosa, quando, come e perché) e infine gli aspetti tecnici (logistica, coordinamento e comunicazione). Identificano le particolarità locali dei pilastri del potere – polizia, esercito, istituzioni, media – e insegnano delle tattiche per convincere quelli che ci lavorano a disobbedire, sempre attraverso l’ausilio di esempi. Canvas promuove una visione del mondo in particolare? «Non siamo un’organizzazione ideologica, ma un centro educativo, risponde Popović. Il colore politico degli attivisti non ha importanza. Controlliamo solo che non siano estremisti, perché le ideologie estreme non riescono a diffondersi tramite lotte non violente.»

La squadra di Canvas è poco numerosa. «Cinque persone, cinque stipendi, locali e connessione Internet gratuiti, telefoni gratuiti, spiega Popović. Dodici persone provenienti da quattro paesi diversi tengono dei corsi di formazione. E non fanno solo questo: i georgiani insegnano; una filippina milita anche in una Ong [organizzazione non governativa] qui a Belgrado; un ragazzo lavora nell’informatica; un altro dirige uno studio contabile…»

I primi clienti sono arrivati dall’Europa dell’Est. Il Fondo per l’educazione europea – una fondazione polacca – contatta Canvas nel settembre del 2002 per formare dei militanti del movimento Zubr («Bisonte»), che vorrebbero porre fine al regime di Alexander Lukašenko in Bielorussia. Ma sei mesi più tardi le autorità del paese dichiararono i suoi emissari persone non gradite. Anche gli attivisti georgiani del movimento Kmara! («Ne abbiamo abbastanza!»), prima di partecipare alla «rivoluzione delle rose» e di contribuire, nel novembre del 2003, alla deposizione di Eduard Shevardnadze, hanno seguito, nel giugno dello stesso anno, un corso di formazione in Serbia. Ma è soprattutto in Ucraina, tra l’autunno del 2003 e l’inverno del 2004, che i metodi serbi saranno applicati su larga scala (si legga sul sito web del diplò francese

https://www. monde-diplomatique.fr/2019/12/OTASEVIC/ 61143

l’articolo «Un prototype pour la révolution orange en Ukraine»). A loro volta, gli ucraini formeranno militanti provenienti da altri paesi: Azerbaigian, Lituania, Russia, Iran, ecc.

I cambiamenti di regime nell’Europa centrale e orientale suscitano interesse nel mondo arabo-musulmano, in Sud America e nell’Africa subsahariana. Il pugno nero è riemerso in Libano nel 2005, alla vigilia della Rivoluzione del cedro, e tre anni più tardi alle Maldive. Nel 2009, una quindicina di attivisti egiziani del Movimento gioventù del 6 aprile e di Kifaya («Basta») si recano a Belgrado per studiare strategie che potrebbero aiutarli a rovesciare l’inamovibile presidente Hosni Mubarak. Corsi vengono tenuti sulle rive del lago Pali, vicino al confine ungherese. «Si tratta di un caso unico, in cui il modello è stato ripreso integralmente. Hanno organizzato cinquanta workshop in quindici città egiziane», afferma Popović. «La formazione che abbiamo ricevuto sulla disobbedienza civile, sulla lotta non violenta e su come abbattere i pilastri del sistema ha influenzato il modo in cui il nostro movimento ha agito», conferma Tarek El Khouly, ex membro di «6 aprile», responsabile dell’organizzazione delle manifestazioni.

Nel gennaio 2011, preceduti dalle rivolte spontanee in Tunisia e dall’improvviso rovesciamento del presidente El-Abidine Ben Ali, molti giovani attivisti si lanciano all’assalto di piazza Tahrir, al Cairo. Su striscioni il pugno chiuso e lo slogan «Il pugno scuote il Cairo!». Il giorno prima su internet circolava un opuscolo che spiegava nei dettagli i luoghi da occupare (la radiotelevisione egiziana, alcune stazioni di polizia, il palazzo presidenziale) e i modi per aggirare le forze dell’ordine. I manifestanti vengono invitati a portare delle rose, a cantare slogan positivi, ad abbracciare i soldati e a convincere i poliziotti a cambiare campo. L’impronta di Canvas è evidente. Dopo la caduta di Mubarak, una parte degli attivisti si è unita al maresciallo golpista Abdel Fattah al-Sisi, mentre altri sono finiti in prigione.

Considerato da alcuni come un «ideatore segreto» della primavera araba, Popović ritiene che il suo fallimento sia dovuto alla mancanza di un progetto: «Volevano solo abbattere Mubarak, ma non avevano pensato al dopo. In Ucraina e in Serbia è stato semplice: volevamo vivere come in Europa. Ma per i paesi arabi non esiste un modello positivo. Con l’arrivo dei Fratelli musulmani e dell’esercito, i militanti sono finiti in prigione. È davvero triste.»

Se da una parte Popović nega di aver formato direttamente l’autoproclamatosi «presidente» del Venezuela Juan Guaidó, dall’altra riconosce che l’oppositore del regime di Nicolás Maduro è un amico: «Naturalmente farò quanto in mio potere per aiutarlo a combattere contro un regime che neanche l’esercito riesce più a proteggere dai suoi propri cittadini.» Dopo l’incontestabile rielezione di Hugo Chávez con il 62% dei voti nel dicembre del 2006, Canvas ha dato dei consigli al movimento giovanile venezuelano Generación 2007 e ha lavorato con gli attivisti del paese, in particolare in Messico e in Serbia. Diversi membri della squadra di Guaidó si sono formati a Belgrado nel 2007: Geraldine Álvarez, la sua responsabile delle comunicazioni; Elisa Totaro, che ha lavorato alla comunicazione del movimento studentesco ispirandosi ai metodi e all’identità grafica di Otpor!; Rodrigo Diamanti, responsabile degli aiuti umanitari provenienti dall’Europa.

In un testo del giugno 2017, i dirigenti di Canvas espongono quella che ai loro occhi sarebbe una strategia efficace: «In Venezuela l’opposizione dovrà parlare con la polizia, utilizzando musica, abbracci e fiori, e non lanciarle contro molotov, pietre o bombe di materiale fecale (2)». Già nel settembre del 2010, Canvas aveva individuato la principale debolezza strutturale del paese, l’approvvigionamento di energia elettrica: «I gruppi di opposizione potrebbero approfittare della situazione (3)». Secondo il documento, alcuni settori scontenti dell’esercito potrebbero decidere di intervenire, ma solo in presenza di proteste di massa: «Lo si è visto negli ultimi tre tentativi di colpo di Stato. Mentre l’esercito pensava di poter contare su un sostegno sufficiente, l’opinione pubblica non ha risposto positivamente (o ha risposto negativamente) e il colpo di stato è fallito.» Dopo la morte di Chávez nel marzo del 2013 e il peggioramento dell’economia, i tentativi di destabilizzazione si accentuano.

Nel marzo del 2019 la centrale idroelettrica Simon-Bolivar ha un guasto. Caracas e la maggior parte del Venezuela restano al buio. Il deterioramento dell’infrastruttura, noto già nel 2010, era tale che un eventuale intervento esterno, anche di carattere informatico, avrebbe potuto passare inosservato. Il segretario di Stato degli Stati uniti Michael Pompeo non ha tardato a farsi sentire su Twitter: «Niente cibo, niente medicine e ora niente elettricità. Il prossimo passo, niente Maduro». «La luce tornerà quando l’usurpazione del potere [da parte di Maduro] sarà finita», ha concluso Guaidó, lanciando un appello alle forze armate. Un appello recepito pienamente da William Brownfield, ex ambasciatore statunitense a Caracas: «Per la prima volta abbiamo un dirigente dell’opposizione che invia un messaggio chiaro alle forze armate e al potere legislativo. Vuole che si schierino dalla parte dei buoni (4)».

Questo caso mostra come gli obiettivi di Canvas siano perfettamente compatibili con quelli che il governo statunitense promuove attraverso l’Agenzia degli Stati uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid) e l’Ufficio per le iniziative di transizione (Oti). In una nota del novembre 2006 rivelata da WikiLeaks, Brownfield descriveva la strategia degli Stati uniti in Venezuela: «Rafforzare le istituzioni democratiche; infiltrarsi nella base politica del regime; dividere il chavismo; proteggere gli interessi vitali degli Stati uniti, isolare Chávez a livello internazionale.» E infine concludeva: «Questi obiettivi strategici rappresentano la parte più importante del lavoro dell’Usaid e di Oti in Venezuela» (5). Negli ultimi mesi, tracce dell’attività di Canvas si ritrovano anche in Bolivia (si legga l’articolo a pagina 9), mentre il centro non ha mai preso di mira alleati chiave degli Stati uniti come l’Arabia saudita, gli Emirati arabi uniti e il Pakistan.

Per comprendere l’influenza del piccolo gruppo di Canvas in così tanti paesi bisogna risalire alla fine degli anni ’90. Un rapporto speciale dell’Istituto per la pace degli Stati uniti (Usip) del 14 aprile 1999 può aiutarci a capire: «Il governo degli Stati uniti dovrebbe aumentare significativamente il suo sostegno alla democrazia nella Repubblica federale di Jugoslavia, passando dal livello attuale di circa 18 milioni di dollari a 53 milioni di dollari nel corso di questo anno fiscale (…). Tali fondi potrebbero finanziare viaggi all’estero per i dirigenti dei movimenti studenteschi e sostenere programmi di studio e stage in Europa e negli Stati uniti (6).» Sul rapporto campeggia un pugno nero alzato, simbolo di Otpor!.

«Molti attori internazionali avevano interesse a far cadere “Sloba” [Slobodan Milošević], spiega Popović. Abbiamo avuto rapporti con persone serie all’interno dell’amministrazione Clinton. Persone e organizzazioni con cui si poteva parlare di politica e ottenere del denaro, come la Fondazione nazionale per la democrazia [Ned], l’Istituto repubblicano internazionale [Iri] e l’Istituto nazionale democratico [Ndi], che collaboravano con i partiti politici, e Freedom House, che lavorava con i media.» Anche se ufficialmente «non governative», queste quattro istituzioni sono emanazioni dirette dei due principali partiti politici statunitensi e vengono finanziate dal Congresso o dal governo degli Stati uniti.

L’ex ambasciatore statunitense in Bulgaria, in Croazia e in Serbia, William Dale Montgomery, ha raccontato di come l’allora segretario di Stato Madeleine Albright avesse fatto del rovesciamento di Milošević una priorità, in particolare sostenendo Otpor! (7). «L’opposizione si faceva vedere insieme a Madeleine Albright. Vuk Drašković [membro dell’opposizione] le ha fatto il baciamano e la fotografia della scena è stata utilizzata dal governo. Questo tipo di incontri per scattare foto non sono d’aiuto. È per questo che noi non ci siamo mai fatti fotografare con loro», commenta Popović.

«Noi non sapevamo come rovesciare Milošević. Poi ha indetto elezioni anticipate e improvvisamente abbiamo avuto l’opportunità di lanciare una campagna mirata contro di lui», ha raccontato James C. O’Brien, ex inviato speciale del presidente William Clinton nei Balcani (8). Questo ex direttore della pianificazione politica del dipartimento di Stato è poi diventato vicepresidente dell’Albright Stonebridge Group (Asg), una delle molte società statunitensi fondate da ex funzionari, rappresentanti dell’esercito e diplomatici tornati in Kosovo dopo la guerra per acquistare delle imprese pubbliche (9).

Secondo Paul B. McCarthy, all’epoca direttore regionale della Ned, Otpor! avrebbe ricevuto la maggior parte dei 3 milioni di dollari spesi dalla fondazione statunitense in Serbia a partire dal settembre del 1998. Questi fondi sono serviti a organizzare manifestazioni e a produrre materiali propagandistici come magliette, manifesti e adesivi che riproducevano il pugno chiuso, nonché per la formazione e il coordinamento degli attivisti. «Abbiamo stampato due milioni di volantini con su scritto “È finita”, che abbiamo distribuito in tutta la Serbia. Avevamo comitati in 168 posti diversi. Eravamo la più grande rete di attivisti di tutta la Serbia; nessun partito ne aveva quanto noi. Qualcuno ha pagato per questo, così come per gli uffici, i telefoni cellulari, ecc.», racconta Lečić.

La formazione degli attivisti serbi comprendeva stage sulle strategie della lotta non violenta secondo la dottrina di Gene Sharp, un politologo dell’università di Harvard morto nel 2018 le cui opere costituiscono un punto di riferimento in questo campo (si legga il riquadro). Nell’introduzione alla terza edizione del suo libro Come abbattere un regime, Sharp scrive: «Quando abbiamo visitato la Serbia dopo la caduta del regime di Milošević, ci hanno detto che il libro aveva esercitato una grande influenza sull’opposizione (10).» Durante un seminario tenutosi a Budapest nell’estate del 2000, Popović e altri dirigenti di Otpor! sono stati invitati dall’Iri e hanno incontrato Robert Helvey, uno stretto collaboratore di Sharp. Veterano del Vietnam, ex addetto militare a Rangoon, colonnello in pensione ed esperto di servizi di intelligence militare statunitensi, Helvey ha addestrato gli studenti serbi seguendo la linea di condotta di Sharp: «La strategia è importante nell’azione non violenta tanto quanto nell’azione militare.»

La versione di Popović è diversa: «Non ci hanno insegnato nulla, insiste. Abbiamo visto Helvey a Budapest per quattro giorni, il che ha dato origine alla storia secondo cui i malvagi statunitensi erano venuti da noi. Ma l’idea l’avevamo già avuta.» Da allora Popović ha stretto legami con il colonnello Helvey, che è diventato il suo «amico e insegnante», il suo «Yoda personale (11)». Il colonnello ha anche chiamato il suo gatto «Srđa», dal nome di Popović. «Lo pronuncia male», dice divertito quest’ultimo, per poi raccontare la sua visita negli Stati uniti e la loro discussione sulle armi che possiede. «In questo è un vero statunitense. Ci scherzavamo tutto il tempo.» Ha esitato a collaborare con un colonnello dell’esercito degli Stati uniti? «Io non lo considero un colonnello dell’esercito. E comunque, l’ideologia di Otpor! era chiaramente non violenta.» Allo stesso tempo, definisce la strategia insegnata da entrambi come una guerra con altri mezzi, «una guerra asimmetrica. Non eravamo un gruppo di ragazzi ingenui, ma seri attivisti politici».

Secondo il Washington Post, agli Stati uniti l’intervento contro Milošević sarebbe costato 41 milioni di dollari: «Per la prima volta si è fatto uno sforzo eccezionale per detronizzare un capo di Stato straniero non attraverso un’operazione segreta, come quelle condotte dalla Cia [Central intelligence agency] in Iran o in Guatemala, ma utilizzando le tecniche di una campagna elettorale moderna (12)». Per questa impresa è stata coinvolta un’intera rete internazionale di collaboratori, che comprendeva organizzazioni come Freedom House – un organismo finanziato dal governo degli Stati uniti e dall’Unione europea che ha come scopo la difesa «dei diritti umani» e la promozione della «democrazia» – e fondazioni private come Ford, Carnegie, Rockefeller, l’Open society institute di George Soros e la Mott foundation. La rete comprendeva anche ambasciatori e personale dell’ambasciata in contatto con i partiti di opposizione e con i rappresentanti della «società civile».


Finanziamenti oscuri ma non troppo

Per Popović i fondi e i sostegni esterni non costituiscono un problema, in quanto a suo avviso si trattava di «organizzazioni che lavorano in modo trasparente». L’argomento provoca invece una reazione infastidita in Marović: «Ma per chi lavora, per Putin? Questi aiuti sono arrivati negli ultimi mesi della nostra lotta contro Milošević. Perché dar loro tanta importanza? È la macchina propagandistica del Cremlino che ha iniziato a raccontare questa storia dopo la rivoluzione in Ucraina, nel 2004. Stanno cercando di screditare la lotta non violenta presentandola come un’imposizione esterna», afferma l’ex attivista.

Popović è molto meno chiaro nel rispondere in merito alla provenienza dei finanziamenti di Canvas: «I costi fissi (salari e locali) sono finanziati da fondi privati, per consentirci di vivere in modo indipendente, senza inseguire il denaro». E a proposito dei progetti aggiunge: «Abbiamo lavorato con più di trenta organizzazioni» – senza entrare nel dettaglio, salvo per riconoscere il ruolo di Freedom House in Egitto. Sul sito di Canvas sono elencati gli «amici» del centro, ma non si può risalire agli aiuti arrivati in Serbia dall’estero. Altre fonti, tuttavia, mostrano che tra il 2006 e il 2015 il ramo statunitense della Fondazione re Baldovino, belga, ha donato 2,5 milioni di dollari a Canvas per dei progetti in Siria e in Egitto.

Il Centro internazionale per i conflitti non violenti (Icnc) non compare più tra i partner di Canvas. Ma Marović e Popović dal 2003 collaborano anche con questa organizzazione, fondata nel 2002 da Jack DuVall e da Peter Ackerman. Quest’ultimo è un ex allievo di Sharp che ha fatto fortuna con la finanza e le obbligazioni ad alto rischio. Quando il suo socio in affari è stato condannato al carcere per truffa, si è rivolto alla promozione della democrazia. Nel 2005 è diventato presidente del consiglio di amministrazione di Freedom House, prendendo il posto di James Woolsey, ex direttore della Cia e ambasciatore degli Stati uniti nei negoziati del trattato sulle forze armate convenzionali in Europa. Ma Ackerman non ha per questo rinunciato agli affari e gestisce ancora due società di investimento: Crown Capital Group e RockPort Capital.

Popović ha incontrato DuVall e Ackerman durante le riprese del loro documentario su Otpor! intitolato Bringing down a dictator (2002). Marović ha partecipato all’ideazione di due videogiochi prodotti dall’Icnc: A force more powerful (2006) e People power (2010). Il concetto, a grandi linee, è che nel mondo ci sono malvagi dittatori e buoni democratici. Quando ci si libera dei cattivi le cose migliorano. Per l’Icnc Marović ha anche prodotto un manuale: The path of most resistance («La via della maggiore resistenza»). Nel 2016 ha fondato Rhize, una Ong specializzata nel consigliare e formare movimenti sociali.

Alcuni ex attivisti sono stati reclutati da istituzioni importanti, come Freedom House, o da fondazioni private, come quella di Soros. Altri si sono uniti all’élite politica o addirittura al governo del proprio paese. Popović e Đinović tengono dei corsi in università statunitensi e in particolare lezioni online per l’università di Harvard. Nel 2017 Popović è stato nominato rettore dell’università di St. Andrews, in Scozia. Tiene anche una conferenza l’anno a Colorado Springs presso la U.S. Air force academy. «La mia teoria rimane sempre la stessa: nei tentativi di rovesciamento di regime, il 4% dei successi è raggiunto tramite cambiamenti violenti e il 96% tramite cambiamenti non violenti. Un giorno questi studenti dovranno dire: “Bombardate” o “Non bombardate”. Influenzando una decisione come questa si possono salvare molte vite», dichiara Popović, che nel 2012 è stato candidato al premio Nobel per la pace, insieme a Sharp. L’anno successivo il Forum economico mondiale di Davos lo ha inserito tra i suoi «giovani dirigenti planetari» (Young global leaders) e nel 2011 figurava anche tra i «cento più grandi pensatori del pianeta» selezionati dalla rivista statunitense Foreign Policy.


(1) Cfr. Srđa Popović, Comment faire tomber un dictateur quand on est seul, tout petit, et sans armes, Payot, Parigi 2015.

(2) Srđa Popović e Slobodan Đinović, «The blueprint for saving Venezuela», RealClear World, 2 giugno 2017, www.realclearworld. com

(3) «Analysis of the situation in Venezuela», Canvas Analytic Department, Belgrado, settembre 2010.

(4) Citato da Ana Vanessa Herrero e Nick Cumming- Bruce, «Venezuela’s opposition leader calls for more protests “if they dare to kidnap me”», The New York Times, 25 gennaio 2019.

(5) «Usaid/OTI programmatic support for country Team 5 Point Strategy», nota dell’ambasciatore degli Stati uniti in Venezuela, Wiki- Leaks, 9 novembre 2006, https://wikileaks.org

(6) «“Yugoslavia”: Building democratic institutions », Istituto per la pace degli Stati uniti, Washington DC, 14 aprile 1999.

(7) Roger Cohen, «Who really brought down Milosevic?», The New York Times, 26 novembre 2000.

(8) Valerie J. Bunce e Sharon L. Wolchik, Defeating Leaders in Postcommunist Countries, Cambridge University Press, 2011.

(9) Matthew Brunwasser, «That crush at Kosovo’s business door? The return of US heroes», The New York Times, 11 dicembre 2012.

(10) Gene Sharp, Come abbattere un regime. Manuale di liberazione nonviolenta. Dalla dittatura alla democrazia, Chiarelettere, Milano 2011.

(11) Utilizza questo riferimento al maestro Jedi di Guerre stellari nella sua autobiografia.

(12) Michael Dobbs, «US advice guided Milosevic opposition», The Washington Post, 11 dicembre 2000. (Traduzione di Federico Lopiparo)

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Un’ispirazione statunitense


È dal politologo statunitense Gene Sharp (1928-2018), talvolta presentato come il «Machiavelli della nonviolenza», che la squadra di Otpor! e poi di Canvas ha gettato le fondamenta teoriche della propria azione (si legga l’articolo qui sopra). Questo ideologo apparteneva alla ristretta cerchia di strateghi statunitensi riuniti all’interno del Centro affari internazionali dell’università di Harvard (1), fondato nel 1958 da Thomas Schelling, Henry Kissinger, Robert Bowie ed Edward Mason. Tra i suoi ex membri figurano i più influenti consulenti governativi e teorici delle relazioni internazionali statunitensi, come Zbigniew Brzeziński, Samuel P. Huntington e Joseph Nye.

Schelling, che ha scritto la prefazione del libro più noto di Gene Sharp (2), nel 2005 e stato insignito con il premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel (chiamato impropriamente «premio Nobel per l’economia») per aver «migliorato la nostra comprensione dei meccanismi del conflitto e della cooperazione attraverso l’analisi della teoria dei giochi». Difendendo la «diplomazia della violenza», Schelling ha promosso l’idea secondo cui «il potere di danneggiare è il potere di negoziare (3)» e ha sostenuto la necessità di un vincolo che vada al di là della deterrenza.

Tra i collaboratori del centro c’era anche David Galula (1919-1967), un ufficiale francese che, prima di comandare una compagnia durante la guerra d’Algeria, era già stato testimone della rivoluzione cinese e della guerra civile in Grecia. Invitato a Harvard dal generale William Westmoreland, futuro comandante delle truppe statunitensi in Vietnam, nel 1964 Galula ha sviluppato una teoria della guerra controrivoluzionaria basata su metodi psicologici, politici e polizieschi invece che sui metodi classici dell’intervento militare: «In queste circostanze si può preferire un ciclostile a una mitragliatrice, un medico militare specializzato in pediatria a uno specialista di mortai, del cemento a del filo spinato e degli impiegati d’ufficio ai dei soldati di fanteria (4).» Sconosciuta in Francia, dal 2005 l’opera di Galula viene distribuita agli stagisti dell’Accademia militare statunitense. Nella prefazione al suo testo principale, l’ex comandante della coalizione militare in Iraq, il generale statunitense David Petraeus, presenta lo stratega come il «Clausewitz della contro-insurrezione».

Sharp, entrato a far parte del centro nel 1965, ha dedicato trent’anni della sua carriera accademica a condurre ricerche sui movimenti sociali nel contesto della guerra fredda. A suo avviso, una difesa che implichi dei civili può essere più sicura e meno costosa della deterrenza nucleare o di una guerra classica. Le azioni più efficaci contro un sistema sono quelle non violente, in grado di mobilitare un numero di persone tale da minare i pilastri del potere – università, esercito, polizia, media –, in modo tale che smettano di sostenerlo.

Nello spirito della dottrina Reagan sulla «promozione della democrazia» nel mondo, nel 1983 Sharp ha fondato l’Albert Einstein Institution insieme ad alcuni collaboratori tra cui Schelling, che sarebbe entrato a far parte del consiglio dell’organizzazione. L’istituzione riceveva fondi pubblici attraverso la mediazione della Fondazione nazionale per la democrazia (Ned) e l’Istituto repubblicano internazionale (Iri) (5).

È noto che nei primi anni ’90 gli scritti di Sharp hanno ispirato i governi baltici nella loro lotta contro il potere centrale sovietico. L’ex ministro della difesa lituano Audrius Butkevicius all’epoca diceva di preferire un libro di Sharp alla bomba atomica (6).


A.O.


(1) Center for International Affairs, nel 1998 ribattezzato Weatherhead Center for International Affairs.

(2) Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Gruppo Abele, Torino 1985.

(3) Thomas C. Schelling, «The diplomacy of violence », in John Garnett (a cura di), Theories of Peace and Security: A Reader in Contemporary Strategic Thought, Palgrave Mac- Millan, Londra 1970.

(4) David Galula, Contre-insurrection. Théorie et pratique, Economica, Parigi 2008 (prima edizione: 1964).

(5) Ruaridh Arrow, «Correcting attacks against Gene Sharp», How to Start a Revolution, 27 maggio 2019, www.howtostartarevolution. org

(6) «Gene Sharp, 2012», The Right Livelihood Foundation, www.rightlivelihoodaward.org


(Le monde diplomatique – il manifesto, dicembre 2019)

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