27 Settembre 2023

Basta violenze maschili contro le donne. Basta violenza maschile bellica. Per un confronto (non un duello) “da uomo a uomo”, e non solo…


Anni fa – era il 2006 – alcuni di noi avevano scritto un altro testo, con amici di Maschile plurale. Diceva semplicemente: la violenza contro le donne la facciamo noi uomini, ci riguarda. Siamo noi che dobbiamo farcene carico, impegnarci a cancellarla. La cronaca purtroppo ci ripete quasi ogni giorno che quell’appello resta drammaticamente urgente.

Siamo ancora lontani, ma qualcosa comincia a cambiare: è cresciuta una consapevolezza, non pochi uomini hanno cominciato a pensare e agire con un altro sguardo su sé stessi, sulle altre, sugli altri.

Crediamo che qualcosa di simile valga per la guerra. Di guerra si è cominciato a parlare correntemente durante la pandemia del Covid. Il nemico era il virus! È dilagato un linguaggio militaresco per affrontare un problema che invece richiede cura, conoscenza, vicinanza alla vulnerabilità di tutti.

Ora la guerra c’è davvero, continua vicino a noi e nelle nostre parole e pensieri quotidiani.

Siamo noi maschi a pensarla e a farla da secoli. È una realtà spesso rimossa. Eppure è davanti ai nostri occhi.

Ciò che sta succedendo da un anno in Ucraina dopo l’invasione di Putin – e succedeva già, su scala “minore”, dal 2014 e ancora prima nelle regioni del Donbass – è inaccettabile. Centinaia di migliaia di uomini, soldati, civili, donne, vecchi e bambini muoiono per una contesa territoriale, per le differenze di lingua e di storia, per le mire imperialistiche della Russia, per il prevalere dei nazionalismi, per le “logiche” del dominio del mondo che emergono tra Oriente e Occidente.

Questa guerra così “vicina”, che rischia di diventare nucleare – se ne parla ormai “normalmente” – forse ci fa vedere meglio la tragedia di tante altre guerre aperte da anni, ma lontane dai riflettori dei nostri media. Perché ci sono tante guerre e morti che non vogliamo vedere.

Guerre spesso combattute con l’idea di “costruire nuove democrazie”. Per cause considerate “giuste”. (Le mire egemoniche e imperiali non sono solo di Putin: ricordiamo l’intervento in Iraq basato su menzogne, gli ultimi vent’anni di guerra in Afghanistan, finiti con la vittoria di quei Talebani accusati all’origine del conflitto come complici degli attentati alle Torri di New York). La Storia è piena di esempi che attestano il fallimento della guerra.

In realtà le democrazie sono diminuite nel mondo dopo la fine della “guerra fredda”, e quelle che restano non se la passano bene. In compenso interi paesi sono semidistrutti. Milioni di esseri umani fuggono in cerca di salvezza. Massacri e esodi continuano.

Le guerre sono eventi travolgenti e incontrollabili: spesso tradiscono le stesse aspettative di chi le scatena.

Abbiamo provato a discuterne. Ma in un primo momento lo scambio si è bloccato perché convinzioni diverse si sono manifestate polemicamente anche tra noi. Del resto ci diciamo plurali e siamo molto affezionati a questo nome.

È giusto o no mandare armi agli ucraini attaccati? C’è qualche ragione dalla parte dei Russi? E qualche responsabilità dell’Occidente che ha voluto stravincere dopo il crollo dell’Unione sovietica?

Opinioni contrapposte. Irrigidimenti. Incomprensioni. Ferite. Risposte alzando la voce. Ci siamo accorti che si era imboccata una strada senza uscita: vinceva anche nel nostro linguaggio la logica amico-nemico. Su questioni che appassionano e che è giusto approfondire. Ma quanto sono davvero nelle nostre mani?

Il conflitto avviene nelle più intense relazioni di amore e di amicizia (come tra “popoli fratelli”): è possibile viverlo senza negare l’altro/a. Senza uccidere, aggredire, e senza negare sé stessi. Può essere difficile, a volte difficilissimo, ma è possibile. Il conflitto non va rimosso: ma può non essere distruttivo, mortifero. Riguarda noi dimostrarlo.

Abbiamo provato da capo.

Ripartire da sentimenti e stati d’animo. Prima di arrivare alla geopolitica del mondo, riconoscere la cartografia delle nostre reazioni, sensazioni, pensieri, disagi, desideri. Un po’ come ci era capitato anni prima nella ricerca, che continua e si approfondisce, del rapporto di ognuno con la violenza nelle relazioni tra le persone, con le donne, figlia di una cultura patriarcale che ci attraversa in qualche modo tutti.

Il discorso e lo scambio hanno cambiato toni e contenuti. È emersa una sensazione di angoscia e di impotenza. La difficoltà a farsi un’idea sufficientemente fondata di ciò che accade, tra tanta propaganda e – come in ogni guerra – tante bugie e censure. È stato raccontato il rifiuto di alcuni, fino a quel momento, anche solo di parlarne, proprio per evitare di cadere subito negli equivoci ideologici e nello scontro degli schieramenti.

La guerra ha un enorme potere pervasivo e persuasivo, ottiene facilmente la militarizzazione del linguaggio, dei sentimenti, anche se le battaglie non si combattono qui. Lo vediamo sui media. Ma capita a noi stessi.

Sospettiamo che, nel momento in cui il patriarcato è messo per la prima volta nella storia in discussione dalla rivoluzione delle donne, nel momento in cui entrano in crisi i luoghi sociali e i riferimenti simbolici che hanno dato senso alla vita degli uomini, la guerra assuma anche un significato consolatorio, paradossalmente rassicurante per una parte (quanto grande?) dei maschi. Ciclicamente – è stato detto – la guerra e la violenza politica si sono presentate come opportunità per rifondare un’identità virile in crisi, minacciata dal cambiamento, che cercava un “corpo collettivo” maschile e una “missione” per ritrovarsi.

È tornata l’immagine della guerra come stupro. Ci si è chiesti il perché dell’inefficacia del pacifismo. La guerra resta ancora un “gioco eccitante”. La passione per gli scacchi, per la propria squadra. Per il combattimento. Praticare la nonviolenza è difficile per chi ragiona – più o meno consapevolmente – con una mentalità maschilista? Come mai nei movimenti nonviolenti e pacifisti quasi mai emerge una riflessione sulla matrice maschile della guerra?

Alcuni hanno confessato di aver provato la pulsione a ingaggiare un “duello”: quell’automobilista a momenti investiva la mia bambina, se non mi avesse fermato la mia compagna lo avrei sfidato…

Il primo teorico della guerra moderna, Clausewitz, famoso per aver detto “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, apre il suo trattato con un’altra definizione: “…ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello. La guerra non è altro che un duello su larga scala”. Che si trattasse di due maschi (e quindi di opposte schiere di maschi) era implicito, scontato, e ancora una volta rimosso.

Perché la guerra contribuisce alla costruzione identitaria: armi giocattolo, film e videogiochi violenti, la “scuola” delle bande giovanili e dei bullismi nelle aule.

Ci sono, tra noi, uomini che si occupano di altri uomini – in percorsi giudiziari o volontari – che hanno agito violenza: imparano a riconoscerla in modo sottile anche nei nostri comportamenti e linguaggi.

Si è discusso del fatto che oggi anche le donne – alcune donne – desiderano entrare nel “gioco” della guerra, e lo fanno. Un amico è stato colpito dalla notizia che in Ucraina c’è anche un battaglione di volontari/e del mondo glbtqia+: persone che si sentono “incluse” in una società diffidente, o apertamente ostile, soltanto ora che rischiano la vita per la “patria” (la terra dei padri).

Sono prove di libertà, o è un’idea di “parità” che accoglie – “include” – in un ordine maschile ancora dominante?

È tornata la memoria, per chi c’era, di quelle immagini degli aerei di linea pilotati da terroristi che centrano le Due Torri di New York, all’inizio del millennio.

Qualcuno ha citato Tiziano Terzani: voleva intitolare un suo articolo su quell’attacco, scandalosamente, “È una buona occasione”. Lo pubblicò il Corriere della Sera diretto da Ferruccio de Bortoli, ma cambiando il titolo.

“Buona occasione” perché? Per conoscere meglio il “nemico” (i terroristi islamici, ma per molti/e l’intero mondo islamico), capirne le motivazioni, per aberranti che siano o ci appaiano, e capire meglio anche noi stessi. Cercare così mediazioni capaci di evitare i massacri.

Proviamo a rileggere alcune parole di Terzani dopo l’11 settembre 2001: “…mi venne da pensare che quell’orrore a cui avevo appena assistito era… una buona occasione. Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L’uomo avrebbe preso coscienza, si sarebbe svegliato per ripensare tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo. Era una buona occasione per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita”. (Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Il Cammeo, Longanesi, Edizione del Kindle).

Anche Terzani dice “uomo” intendendo tutta l’umanità, variamente sessuata. Comunque, purtroppo, non è stato così. La risposta al terrorismo di matrice islamica è stata ancora una volta la guerra e solo la guerra. Con in più, in nome di una emergenza che non finisce mai, la rottura delle regole dello “stato di diritto” che dovrebbe essere il fondamento delle democrazie.

Cerchiamo di non perdere di nuovo l’“occasione” che viene dall’orrore di questa nuova guerra “nel cuore dell’Europa”. Un “cuore” collocato tra Ovest e Est del continente, dove gli scontri tra nazionalismi, dittature, razzismi sono stati terribili lungo due secoli: dovremmo ascoltarlo più attentamente il battito e il ritmo di questo cuore. Cogliere le radici dei sentimenti negativi che rendono possibile la guerra, al di là dell’uso strumentale della memoria e della storia.

Non cerchiamo l’adesione alle idee che qui sono abbozzate. Proponiamo prima di tutto un incontro e uno scambio, anche – anzi, soprattutto – tra chi la pensa diversamente. Vorremmo occasioni di incontro. Ascoltando chi si “dimette dalla guerra” in Russia, in Ucraina, nel mondo. E chi pensa invece che la resistenza armata sia l’unica risposta possibile contro gli invasori, i nemici.

Con uomini che abbiano voglia di discutere e di riflettere con noi. In uno spazio aperto alle donne. Alle persone di ogni orientamento e identità sessuale, o di genere.

Cominciamo dalla ricerca di un linguaggio che non sacrifichi subito il desiderio di conoscersi e di capirsi alla certezza consolante di appartenere a uno schieramento. La “schiera” è per l’appunto l’“unità dell’esercito, o parte di essa, disposta su una determinata linea” (vocabolario Treccani). Un modo di essere votati al combattimento, e alla morte.

Preferiamo vivere.


Angelo Albero, Tommaso Banfi, Pietro Buscicchio, Mario Castiglioni, Stefano Ciccone, Nino De Giosa, Marco Forlani, Gianluca Giraudo, Mario Gritti, Orazio Leggiero, Alberto Leiss, Olivier Malcor, Nicolò Marchesini, Domenico Matarozzo, Alessio Miceli, Giovanni Niccoli, Beppe Pavan, Ermanno Porro, Filippo Rea, Antonio Romeo, Francesco Seminara, Marco Vanelli, Giancarlo Viganò, Danilo Villa, Claudio Tognonato


(maschileplurale.it, 27 luglio 2023)

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