16 Gennaio 2016
Donne Chiesa MOndo. Osservatore Romano

La differenza affermata dal vivere insieme

di Catherine Aubin

«Che il Signore ti benedica al tuo arrivo e al tuo ritorno». Uomini e donne, donne e uomini in una stessa Chiesa e in una stessa comunità: è questa la realtà quotidiana della comunità monastica di Bose. Qui, monaci e monache insieme pregano, lavorano e praticano l’ospitalità. Qual è dunque l’origine di questa comunità? Com’è nata? Quali sono le ricchezze e anche le difficoltà di questo “vivere insieme”? Due fratelli e due sorelle hanno risposto alle nostre domande e ci hanno aperto le porte di questa esperienza profetica. Per primo parla Enzo Bianchi, fondatore della comunità.

«In origine non c’era un vero progetto di vita uomini-donne; io ero venuto qui solo per avviare un progetto di vita monastica, ma non pensavo assolutamente a un’organizzazione uomini-donne. La seconda persona che si è presentata dopo un fratello è stata però una donna, molto convinta di questa scelta di vita, e quindi mi sono dovuto porre il problema. Sono andato a trovare a Torino il cardinale Pellegrino, che in quel momento si occupava dell’avvio della nostra comunità, e lui mi ha detto: “Tu non l’hai cercata, se il Signore te l’ha inviata, allora bisogna accoglierla”. L’abbiamo accolta e perché non si ritrovasse tutta sola con tre fratelli, sono andato a Grandchamp in Svizzera nella comunità protestante per chiedere se potevano mandare da noi una delle loro sorelle. Ed è stato un vero miracolo perché sono arrivato la sera e sorella Minke mi ha detto che avrebbero pregato e ci avrebbero pensato. L’indomani hanno mandato suor Christiane che è stata con noi un anno, “prestata” in un certo senso dalle sorelle affinché ci fosse fin dall’inizio un nucleo di uomini e di donne e non solo una donna isolata. Da quel momento in poi la comunità si è dovuta pensare come comunità formata da donne e da uomini».

«Ho capito subito — prosegue Bianchi — una verità: che per vivere uomini e donne insieme era importante che la differenza fosse affermata. Doveva pertanto esistere una distinzione, al fine di evitare la divisione tra il ramo delle donne e il ramo degli uomini. Perciò ho voluto che fin dall’inizio ci fosse una responsabile delle sorelle, per non esserne io il diretto responsabile, e così è stato. Le due comunità hanno potuto credere e crescere insieme perché c’è una sola regola, una sola liturgia, dei pasti per la maggior parte consumati insieme (all’inizio mangiavamo sempre tutti insieme) e dunque uno stile di vita uguale per tutti. Abbiamo cominciato a vivere tutto ciò gradualmente e abbiamo visto che poteva funzionare. Molto presto abbiamo percepito e accolto le grazie del “vivere insieme” fratelli e sorelle. Una prima grazia è stata che i fratelli erano chiamati a comportarsi non più come “orsi”, ma a essere più delicati, il che non vuol dire più femminili, ma più premurosi, e soprattutto erano chiamati a vivere la dimensione del “prendersi cura del fratello”, ovvero a non vivere più come dei solitari che si ritrovano insieme. Quanto alle sorelle, abbiamo constatato che avevano acquisito una “disciplina”, una forma di padronanza della parola diversa da quella delle comunità classiche di religiose: vale a dire che parlavano meno ed erano meno tentate di chiacchierare o bisbigliare tra loro. Queste due cose ci hanno fatto vedere che ci stavamo aiutando a vicenda. Poco a poco ci siamo però resi conto che era necessario di tanto in tanto che i fratelli e le sorelle consumassero i pasti separatamente, ma solo di tanto in tanto, affinché le sorelle avessero uno spazio e un pasto in cui potevano stare e parlare tra loro nella propria lingua femminile e lo stesso valeva per noi fratelli (senza farne però una consuetudine, perché di norma i pasti si consumano insieme, i fratelli da una parte del refettorio e le sorelle dall’altra). Tutto ciò ci è servito molto perché ha cambiato il linguaggio usato al momento del pasto; per esempio le sorelle hanno un linguaggio molto più “ecclesiale”, mentre noi fratelli tendiamo a parlare di cose che riguardano maggiormente la vita concreta, sia monastica sia ecclesiale. Dunque il refettorio, luogo di scambio, è pure un luogo di formazione, anche se si può parlare solo durante un pasto, perché l’altro va consumato in silenzio».

«Per quel che riguarda l’affettività — aggiunge Bianchi — abbiamo constatato con il dovuto discernimento e da persone mature, che i fratelli e le sorelle non s’innamorano (come tutti pensano); non è questo il problema, in quarant’anni non è mai successo. Il vero problema è la ferita esistente tra uomini e donne. In effetti abbiamo due psicologie diverse. Per esempio, durante i capitoli, quando dobbiamo prendere delle decisioni, ci accorgiamo di avere due psicologie differenti con riflessi molto diversi. Bisogna allora armonizzarle, senza cancellarle o negarle. È un lavoro che si fa giorno dopo giorno; a volte è difficile, a causa di questa ferita tra uomo e donna che tutta l’umanità conosce e che anche noi portiamo e viviamo, e che deve essere costantemente riconciliata e superata, non attraverso una forma di compromesso, ma per un bene più grande. Su questo punto non abbiamo avuto grossi problemi. L’importante è che, quando una persona viene qui per una vocazione monacale, sappia vivere con gli uomini se è una donna e sappia vivere con le donne se è un uomo. Il discernimento si esercita sul fatto che se un uomo sminuisce una donna e non tiene conto della sua presenza, vuol dire che Bose non è il posto giusto per lui».

«Un altro punto importante è che, per quanto riguarda lo studio, tutti ricevano la stessa formazione e tutti abbiano gli stessi mezzi e strumenti, senza fare differenze. Ma ci devono essere una maestra delle novizie e un maestro dei novizi, perché nell’accompagnamento personale solo una donna può accompagnare un’altra donna e solo un uomo può accompagnare un altro uomo. C’è poi un altro punto che tocca un aspetto della castità: una donna obbedisce più facilmente a un uomo che un uomo a una donna, e ciò non è la castità, è contro la castità. Ebbene, le donne avrebbero potuto essere tentate di obbedire a me o di entrare in concorrenza con me, ed è per questo che non ho mai voluto essere il direttore spirituale delle sorelle. Il mio ruolo è di assicurare l’unità dei due rami, ma non ho nulla a che vedere direttamente con le sorelle, per evitare proiezioni e gelosie. Le donne devono obbedire a una donna e gli uomini a un uomo: è una questione di castità. Negli anni Sessanta, in due fondazioni nuove ci sono stati molti problemi affettivi, anzi addirittura sessuali attorno ai fondatori. A tal fine i capitoli devono essere organizzati in modo molto fermo ed equilibrato per evitare che i responsabili agiscano solo tra loro o al contrario in modo solitario e isolato. Tutte le decisioni devono essere prese insieme, e non dai superiori. Da noi i capitoli si tengono una volta al mese, e una volta all’anno si svolge un capitolo di quattro giorni durante i quali si prendono le decisioni. Tutti possono parlare e tutti hanno diritto di voto. Noi siamo inoltre una comunità ecumenica e in questa ottica dare la parola alle donne fa crescere e aiuta l’ecumenismo. L’ecumenismo aiuta anche a essere più fratelli e sorelle: è il dialogo nella diversità. Noi non chiediamo agli ortodossi di diventare cattolici né il contrario; le differenze sono necessarie e fanno la comunione. Perché, se le differenze fossero negate, sarebbe una comunione mortificante».
Qual è oggi il suo desiderio più grande? «Sarebbe di vedere la Chiesa imparare di più sul tema dell’autorità dalla vita monastica», risponde Bianchi. «Vorrei un’autorità esercitata maggiormente secondo la forma monastica, ossia un’autorità che ascolti, che faccia maturare le situazioni, che sia più sinodale e nella quale le donne svolgano una parte attiva. Altrimenti la Chiesa la vivrà in una condizione non solo di povertà ma anche e soprattutto di miseria».

Suor Maria dell’Orto, che fa parte della comunità da oltre quarant’anni, è stata la responsabile delle sorelle fino al 2009. Ci racconta come sono stati gli inizi e le sfide quotidiane della comunità. «La comunità è nata non come il frutto di un’ideologia, ma di una realtà (l’arrivo di una sorella e di un fratello protestante) e da un interrogativo che Enzo Bianchi si è posto: “Il Vangelo contiene forse una parola che impedirebbe alla prima sorella di vivere questa esperienza monastica? No!”. C’è dunque stata un’obbedienza alla realtà della vita e il Vangelo è stato il criterio per decidere. È stata una prima grazia, straordinaria, che ci ha protetto e animato fino ad ora, anche se non è stato facile, ma la vita di per sé non è facile. Abbiamo quindi cercato di vivere secondo i grandi criteri della vita monastica tradizionale; l’ispirazione monastica l’abbiamo presa dalle sue origini (Antonio, Pacomio, Basilio, Benedetto e così via) e abbiamo cercato gli insegnamenti che potevano esser più utili per noi in questo contesto di modernità».

«La vita monastica tra fratelli e sorelle — prosegue Maria — non era organizzata ai primordi del cristianesimo, perché in tal senso la vita di Gesù ha avuto poco peso. Per esempio, per ispirarsi al Vangelo, si è fatto spesso riferimento alle lettere apostoliche, che contengono già molte “bassezze”. Al contrario, se si fosse fatto riferimento al Vangelo si sarebbero potuti constatare i tanti rapporti di Gesù con le donne e il suo chiamare discepoli sia gli uomini sia le donne. Per esempio in Luca, 11, 27 quando una donna gli dice: “beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!”, Gesù risponde “beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”. Questo invito a vivere il Vangelo vale dunque sia per gli uomini sia per le donne. Vivere ogni giorno una vita monastica uomini e donne insieme con membri di altre Chiese, quando si conosce il peso delle loro sofferenze, e le prove sostenute dalle donne in una cultura dominante maschile, è un’immensa felicità. Anche se a volte è difficile, ma la vita è difficile: la vita dei coniugi, dei sacerdoti, delle persone sole. Poiché vivere veramente è accettare la differenza, la differenza tra uomini e donne ma pure tra donne e tra uomini, e anche con gli ospiti; tutto ciò è un esercizio di libertà. Impari a non usare gli altri, a non credere che sia qualcosa di acquisito una volta per tutte, cerchi di ascoltare. È quindi la difficoltà di vivere quotidianamente nella libertà, nel servizio reciproco poiché in fondo il Vangelo è questo. Cerchi di essere te stesso, per il bene di tutti. Scopri che vedi meglio grazie agli altri. Gesù ci ha insegnato l’amore nella libertà e ci ha trasmesso parole autentiche per la vita umana. Per esempio non vivere per se stessi è l’unico modo per non angosciarsi in questo mondo e non avere paura del prossimo giorno e notte (a Bose, quasi nessuna porta viene chiusa a chiave). Non è eroismo, è la cosa più intelligente al mondo».

«Imparare a vivere l’alterità, a non vivere ideologicamente, a non colpevolizzarsi gli uni gli altri, a liberarsi dei pregiudizi, imparare a vivere l’oggi di Dio nell’incontro con l’altro: è questa la nostra opportunità. Il fratello e la sorella sono un’opportunità per liberarci dal nostro passato o dai nostri determinismi, per constatare che il peso del nostro passato non ci impedisce di vivere. Il difficile è liberarsi da tutte le nostre ideologie, poiché non siamo né vittime né carnefici nei nostri rapporti con gli altri. Nella vita monastica c’è una grande povertà perché tutte le nostre sofferenze psicologiche, le nostre fragilità, sono “sotto la luce del sole”, tutti le vedono. Dunque, impari che non sei al mondo per nascondere le tue debolezze o per essere avvalorato o approvato, o per obbligare gli altri a dirti “sì, sì”. Poco a poco impari a riconoscere agli altri la libertà di essere qui e che noi viviamo grazie al fatto che i fratelli e le sorelle sono qui. È dunque un imparare a vivere l’affettività nella libertà. In fondo Gesù ci ha insegnato a non aver paura della nostra piccolezza, il che vuol dire che amare la vita degli altri è l’unica salvezza per tutte le nostre fragilità. Quando siamo coinvolti nella loro vita, quando siamo per così dire sedotti da quello che sono e che fanno, quando li guardiamo con interesse, allora la paura per noi stessi scema e ci sentiamo immediatamente liberi»

A volte si pente della sua scelta? «Ho sempre saputo che al di fuori di qui non avrei mai potuto vivere realmente, non perché qui è meglio di qualsiasi altro posto fuori, no, ma perché questo luogo mi ha permesso di vivere e di prendermi cura senza angoscia della povera che sono».

Suor Antonella è attualmente la responsabile delle sorelle; è monaca da oltre vent’anni. Ci spiega come si organizza il lavoro tra fratelli e sorelle. «Quando una persona arriva nella comunità, si comincia discernendo i bisogni della comunità e le capacità di quella persona; dopo questo discernimento viene inserita in un laboratorio dove lavorerà. Ci sono laboratori gestiti solo da fratelli e altri solo da sorelle, e altri ancora diretti da entrambi, come per esempio il lavoro nel giardino o anche la foresteria. Cerchiamo di vivere questa disponibilità ai bisogni e di non decidere in modo assoluto chi si occupa dell’una o dell’altra cosa. C’è indubbiamente una ricchezza in questo modo di vivere il lavoro insieme grazie agli scambi; una diversità anche nel modo di affrontare la stessa problematica o nel modo di organizzare, e quando si lavora in gruppo è possibile trovare molti elementi che possono essere utili all’attività o rendere il lavoro più semplice».

Quando si viene accolti da voi, fratelli e sorelle, si percepisce e s’intuisce una grande armonia fra voi: come la spiegate? «Non glielo saprei dire», risponde suor Antonella. «Noi viviamo la vita quotidiana in modo molto semplice. Ognuno di noi deve essere anche custode di una forma di solitudine per se stesso, per poter crescere interiormente come persona. Ciò permette una crescita che a sua volta consente di confrontarsi con gli altri senza la paura di perdere qualcosa in questo incontro. E l’armonia e la fluidità tra noi provengono da un quotidiano vissuto molto semplicemente senza stare sulla difensiva, ma mostrandosi così come si è, con quella comprensione di sapersi insieme nella differenza».

Come agisce questo ascolto quotidiano insieme della stessa Parola di Dio durante i tempi forti liturgici? «Nel corso della Lectio divina, la comunità si riunisce per riflettere a partire dalla luce della Parola di Dio sulla sua vita. Inoltre, ogni settimana abbiamo una Lectio divina tutti insieme e di fatto questa condivisione della Parola è un grande aiuto per il cammino della comunità: consolida la vita comune. Così ognuno di noi è chiamato a rimettersi in discussione in un moto di conversione al fine di tornare in sintonia con il corpo comunitario».

Quali sono state le sue gioie in questi vent’anni? «Le mie gioie — risponde ancora suor Antonella — sono soprattutto nella vita comunitaria, ossia nel vivere una vita fraterna semplice, sana e profondamente misericordiosa. Ho sentito molto la misericordia dei miei fratelli e delle mie sorelle e ciò mi ha aiutato tanto a rinnovare continuamente il mio modo d’essere e il mio comportamento verso di loro, grazie alla loro correzione fraterna molto misericordiosa. È un modo di ricominciare insieme ed è la mia gioia più grande che assaporo sempre. Quanto alle difficoltà, queste riguardano il cambiamento personale, che è sempre difficile [ride], e anche le relazioni personali, quando non riusciamo ad ascoltarci, a comprenderci, perché non è il momento giusto o perché ci vuole tanta pazienza. Una delle cose più difficili è la comunicazione: vuol dire imparare continuamente ad ascoltarsi senza credere che sia un fatto acquisito una volta per tutte. Tutto ciò esige da noi una crescita umana profonda, che non cerca di imitare l’altro ma che ci chiede di essere felici di quel che siamo, pur sapendo che uomini e donne si esprimono in un linguaggio completamente diverso. Questa vita comunitaria è comunque un vero dono di Dio (non è un progetto umano) sul quale dobbiamo costantemente vigilare e che esige molta memoria, attenzione e gratitudine».

Fratel Goffredo, assistente di Bianchi, è nella comunità da ventidue anni. Gli chiediamo di condividere con noi le sue riflessioni sulla vita comune tra fratelli e sorelle. «Fin dall’inizio sono stato attirato dal carisma del priore Enzo Bianchi e dalla vita comune che si viveva qui, uomini e donne insieme, e anche dalla vita comune ecumenica. Questa ricchezza uomo-donna va imparata, colta e assimilata. Così si diviene più umani. La vita normale è fatta di uomini e di donne; dunque un vero percorso di umanizzazione si fa quando ci sono uomini e donne insieme per un cammino di diversità e di alterità. La diversità non deve far paura perché è un aiuto e una ricchezza. Non si tratta di fare una lista delle differenze tra uomini e donne; al contrario, dobbiamo vivere come donne o come uomini. Sono in effetti due modi di essere al mondo che esistono fin dalle origini; si tratta quindi di vivere una differenza essenziale e naturale. Difficile da vivere in questa vita comune è il mettere insieme due modi diversi di affrontare la realtà. Ma è anche e soprattutto una sfida, perché per arrivare a una visione globale e unificata, si deve partire da due punti di vista diversi per poi riuscire a vedere insieme la realtà. Gli uomini hanno un proprio modo di vedere la realtà e le donne un altro, ma è normale, essendo la realtà tanto maschile quanto femminile. Vederla insieme è difficile ma è una vera ricchezza, perché insieme la si vede meglio. Oggi sarebbe per me molto difficile vivere in una comunità di soli uomini».

«Il nostro cammino di vita comune — conclude fratel Goffredo — è inedito: uomini e donne celibi che vivono insieme senza essere sposati. Si tratta dunque per noi di trovare un accordo di ordine diverso, ma che sia radicato nella vita monastica e nel Vangelo».

 

 

 

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