22 Maggio 2006
l'Unità

Costume, linguaggio, politica la retromarcia di questi anni

Clara Sereni

Le parole non bastano più, sembrano diventate inutili e vuote: i dati sulla violenza contro le donne, nel mondo e in Italia, sono così schiaccianti da ammutolire. E le ultime trovate della cosiddetta informazione (la foto del bambino mai nato) caso mai ce ne fosse bisogno sottolineano come il corpo di donna sia, in tanti casi tanto diversi fra loro, nient’altro che un contenitore, un oggetto che acquista valore soltanto sul mercato del cinismo voyeuristico. Non ci sono ricette facili e rapide, per rispondere a tutto questo, ma dobbiamo trovare almeno le parole per dirlo. Per una come me, che delle parole ha fatto il proprio mestiere, l’esigenza di restituire al linguaggio un senso e un peso è una urgenza indifferibile: credo fermamente che questo sia un primo passo indispensabile, senza il quale nessun’altra strategia è pensabile. So benissimo quanti uomini, e anche quante donne, di fronte all’appello al politically correct alzano gli occhi al cielo, o fanno spallucce. Non ci si ricorda più di anni in certa misura vittoriosi, quando Nilde Jotti era «la» presidente della Camera e una fiction di grido come La Piovra aveva come protagonista una magistrata: i drammatici slittamenti lessicali e di costume di tanti anni, e in particolare dell’ultima legislatura, fanno sì che si parli tutt’al più di «quote rosa», e anche questa è una concessione che ci viene (non viene) fatta. La declinazione al femminile di cariche e funzioni è «passata di moda», dicono i più, e dunque non ci si sforza in alcun modo di utilizzarla. Anche da parte delle donne: che accettano e talvolta pretendono di essere chiamate sindaco, o «il» presidente per esempio della Regione tale o talaltra, o ministro. Preoccupate ancora e sempre ­ come dicono a Roma ­ «di non farsi riconoscere», di non mettere in evidenza l’identità di genere, tuttora percepita come debolezza. E pazienza se poi, nelle cronache, sembra curioso leggere che il sindaco portava un tailleur alla moda, o che ha partorito un figlio.
Ma le parole sono sostanza, e non solo apparenza, delle cose. Restituire loro il peso che meritano non è bizantinismo da delegare agli addetti ai lavori, è un compito alto che deve riguardare, oggi più che mai, tutte e tutti coloro che si pongono l’obiettivo di ridare serenità, normalità, decenza a un Paese da troppo tempo, e sotto troppi aspetti, in discesa. E quello della visibilità femminile, del riconoscimento delle competenze dei saperi e delle abilità delle donne, è una tessera nient’affatto secondaria del complesso puzzle della società in cui viviamo. L’impegno di Prodi e dell’intera coalizione ad una presenza femminile forte nel governo, nelle Istituzioni e negli Enti ha trovato finora applicazioni amare: più un cazzotto che un riconoscimento, e la nostra democrazia appare sempre più zoppa, amputata. Ancor più in questa situazione, la responsabilità delle donne cooptate in situazioni di potere è enorme. La speranza accorata è che – a cominciare dall’impegno delle nominate a farsi chiamare con l’appellativo del proprio genere, a farsi riconoscere in quanto donne in ogni passo del loro procedere – si cominci a finirla almeno nelle parole con la maschiocrazia che, non solo metaforicamente, ci offende, ci tortura, ci uccide. Almeno nelle parole: perché quanto ai fatti, a quanto è dato di vedere, bisognerà aspettare ancora un bel pezzo.

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