Chiara Zamboni
Raffaele Simone è un linguista che lavora all’università di Tor Vergata a Roma. Il suo libro L’università dei tre tradimenti (Laterza 1993), è molto critico sull’università italiana e al medesimo tempo decisamente scettico sulla possibilità di una sua trasformazione. Parla della inefficienza dell’università, cercando l’efficienza e, se letto in controluce, può parlare di ciò che vi è di ingiusto alla ricerca del giusto, con uno slittamento di non poco conto che apre una via interessante.
Questi sono i tre tradimenti: il primo è verso lo Stato. Lo stipendio dei professori è uno dei più alti tra i dipendenti dello Stato. Questo dovrebbe vincolare ad un maggiore impegno, cosa che non avviene. Il secondo tradimento è verso la ricerca. La maggior parte di coloro che oggi lavorano all’università hanno cercato questo lavoro perché appassionati alla ricerca. Ora, l’università da un lato esige questa inclinazione, ma dall’altro la ostacola in tutti i modi: il fare carriera, la gestione del tran tran, la scarsa competitività tra università per la ricerca hanno abbassato sempre più la soglia di tempo ad essa dedicato. Il terzo tradimento è verso gli studenti. E’ questa la parte del libro più interessante, ma anche più ambivalente.
Simone dice: l’università ha dimenticato gli studenti, per i quali l’esperienza degli anni universitari è una delle più importanti della loro esistenza. Poco valorizzata è la didattica e troppo pochi studenti proseguono fino alla fine il loro corso di studi.
La soluzione che Simone propone è però paradossale: occorre selezionare gli studenti al momento dell’iscrizione per verificare la loro autentica ‘vocazione’. Strana proposta, che non fa i conti con il fatto che la nostra è un’università di massa, in parte per istinto democratico, ma soprattutto per esigenza del mercato del lavoro. Pare che gli studenti che si laureano siano troppo pochi rispetto alla richiesta che la comunità europea fa nei confronti dell’Italia. E’ vero tuttavia che la liberalità con la quale è possibile iscriversi è solo apparente. Mancano strutture che rendano veramente agevole l’università per chi la frequenta.
Alcune osservazioni di Simone fanno riflettere. Tra le altre, egli analizza la mancanza di fiducia tra chi vive e lavora all’università quale odierna tendenza di fondo, che ha provocato un appello ai diritti e alle Libertà formali come unica strada in risposta a questo vuoto.
Tale mancanza ha causato la fine delle scuole scientifiche, cioè di quei luoghi nei quali la trasmissione del sapere avveniva per il riconoscimento di autorità ad un maestro.
Così la rottura della trasmissione del sapere è andata di pari passo con la rivendicazione delle libertà formali. E’ tuttavia sorprendente che, quando egli cerca un esempio di patto di fiducia, lo trovi nel modello dell’azienda, e che di conseguenza il patto di fiducia nell’università dovrebbe basarsi sulla competitività e sulla concorrenza.
Il libro di Simone è una critica molto dura all’università, ma anche profondamente scettica. Perché? Il fatto è che di fronte alla domanda tutta politica del che fare, Simone non crede né in una riforma interna né in una esterna. La riforma esterna è solo la riforma legislativa che ridisegni l’intera università: strada quasi preclusa per la scarsa credibilità dei ministri della Ricerca Scientifica che si sono succeduti fino ad ora e, data l’attuale situazione politica, presumibilmente anche di quelli che verranno. Ma egli non crede neppure in una riforma interna che vada a ripensare i comportamenti individuali, in quanto la giudica soltanto morale. Dunque egli lascia senza risposta la domanda, pur suggerendo obliquamente il modello della azienda.
Così ci troviamo tra le mani un libro divertente e serio, sicuramente intelligente sulle malfunzioni dell’università e, leggendolo, ci lasciamo prendere dal suo gioco e mentalmente aggiungiamo critica a critica ricordando episodi ridicoli e amari. Ma, dopo aver giocato un po’, ci fermiamo e ci poniamo la domanda da lui evitata: che fare?
Inizierò dalla descrizione del quadro che mi trovo a vivere. C’è in Italia da almeno una trentina d’anni una tendenza esagerata a barattare la democrazia con il ricorso al diritto e alle leggi. Quando all’università si parla di democrazia, in realtà con questo nome si intende il coprire di una ragnatela di norme e di regole tutto lo spazio dell’agire pubblico. E’ curioso e fa meditare lo slittamento: per una sostanziale sfiducia che le persone sapessero autoregolarsi – dove la fiducia che le persone si autoregolino sensatamente è il fondamento della democrazia -, quindi per una sostanziale sfiducia nella democrazia, si è creata una rete fittissima di progetti, di incartamenti e di regolamenti, che è stata sbandierata come costume democratico. La democrazia ha certo bisogno di atti palesi, ma è anche più di questo. Sulla scena italiana e sullo scenario dell’università questa sembra comunque una tendenza in declino. E’ combattuta da una fortissima controtendenza, chiamata “università azienda”, e la parola-mito adoperata è quella di produttività. Anche per Simone questo mito esercita la sua influenza. Ma è una parola usata senza veramente riflettere sul suo significato.
Una dimostrazione? Ho scoperto cosa il rettore della mia università intendesse veramente
per produttività, quando mi ha chiesto per via formale di mostrare la mia attraverso il numero delle conferenze e degli articoli scritti l’anno precedente. Non era richiesto né titolo né luogo: nessuna traccia reale, solo numeri.
L’effetto più straordinario è che per dimostrare questa produttività ho dovuto riempire altri fogli, altri rendiconti, spediti in più segreterie per non sbagliare e per non dover rifare tutto daccapo come nel gioco dell’oca. La burocratizzazione voluta da una sedicente democrazia per sfiducia è andata aumentando il suo conto per volere di un rettore sedicente manager.
Questi sono i due modelli, uno declinante e l’altro emergente, che però devono “mostrare”, dimostrare, segnalarsi nei libri mastri dell’amministrazione con carte e incartamenti.
Ora studentesse e studenti della facoltà dove lavoro mi hanno invitata a pensare cosa significhi voler essere fedeli a questa università. lo li ho presi sul serio e mi sono nuovamente interrogata: perché sono all’università? Cosa ci sto facendo? Cosa vogliono quelle studentesse che vi si iscrivono, mi cercano e mi vengono a parlare? La mia risposta è questa: quello che desidero è fare filosofia. Per altri sarà un altro genere di ricerca, per me è questa.
Non so però che cosa esattamente sia fare filosofia. Per la mia parte di intelligenza arrivo solo a riconoscere chi fa filosofia e chi non la sa fare. Ma è già parecchio: una ricchezza.
Così solo alcune persone sono per me misura e posso imparare da loro. Lo sono, ma non glielo dico o glielo dico appena. In questo periodo della storia umana l’autorità, e in particolare l’autorità culturale, è così in discredito che, se la riconosco a qualcuna, questa si spaventa e subito la rifiuta. Così faccio intravedere qualcosa con discrezione, un po’ obliquamente, e per lo più non mi discosto dal silenzio.
Forse sarà questione di partire sempre da sé, ma mi pare che anche chi si iscrive alla facoltà dove insegno, soprattutto in un periodo così difficile per trovare un lavoro che corrisponda alla laurea, abbia il gusto di fare filosofia come me.
Per quali altri utili motivi, altrimenti? Così mi trovo a mia volta ad offrire una misura, ma solo a chi mi cerca e per qualche cosa di cui entrambi non sappiamo bene. Ma non ho paura a riconoscere in questo autorità, perché da troppi anni lavoriamo in Diotima sul senso dell’autorità per non saper vedere dove c’è.
Non so se so fare filosofia, ma so valutare chi la sa fare. Anche gli studenti sanno valutarlo. La dimensione pubblica data da questo mostrarsi e valutare non si inscrive nei libri mastri di nessuna amministrazione pubblica, ma è l’anima dell’università.
Questa argomentazione è molto forte e conosco bene dove sta la sua forza. Quando ci muoviamo in fedeltà al nostro abitare l’università, non abbiamo bisogno di inventarci un’altra università, un’università utopica, da realizzare nel futuro.
Non dobbiamo pensare né ad un sogno né più prosaicamente ad una riforma legislativa, per la quale nessuno ha in mano tutte le chiavi.
Ben diversa è la situazione che propongo. La forza della mia argomentazione sta nella forza di un reale che noi possiamo già mostrare e dire: possiamo già indicare la nostra comune capacità di valutare e di lasciare che altri ci valutino nel nostro fare. Essa già esiste. Ma dall’invisibile occorre portarla al visibile: a quello che chiamiamo pubblico. Infatti ognuno in genere si comporta come se la propria capacità di desiderare e di valutare fosse solo una questione privata; invece è il perno del lavoro universitario.
Certo occorre una piccola grande rivoluzione nel far passare dall’invisibile al pubblico quel che sappiamo già fare e nel ridisegnare il perimetro di ciò che si intende per pubblico. Si tratta di una rivoluzione simbolica. E’ come se si passasse dal sistema tolemaico a quello copernicano. La terra non più al centro dell’universo, non scompare però dal sistema. Ha una sua collocazione: diviene un pianeta che ruota attorno al sole. Ovvero: una buona amministrazione e i rendiconti dell’agire non scompaiono, ma divengono pianeti in movimento attorno al centro. Una buona amministrazione serve al sistema.
Una rivoluzione simbolica è veloce e non richiede molto tempo: è un cambiamento radicale di punto di vista. Ma è allora che iniziano i problemi. Affiorano dopo che si è compiuto il gesto di indicare ciò che già c’è, ma che non si vedeva prima, e che è l’anima dell’università. I problemi sono molti. Li enumero. Per nessuno di essi ho una soluzione.
Primo: come fare a render pubblica la valutazione di colleghi, studentesse e studenti, senza che questo aumenti ulteriormente controlli burocratici e incartamenti? Secondo: come esercitare l’autorità che questo valutare richiede senza scivolare in forme di autoritarismo? Terzo: per mostrare quel che già c’è di capacità nell’università, la forza sta nell’indicare situazioni, nelle quali valutare e comportarsi di conseguenza siano visibili ed efficaci.
Questi comportamenti non vanno interpretati come modelli da seguire. Mostrare delle pratiche è solo far vedere come alcune donne e alcuni uomini abitino l’università secondo la loro capacità e il loro desiderio, ma ciò – ed è questo il punto importante – con l’intento di sollecitare chi ascolta ad interrogarsi a sua volta sul proprio modo di abitare l’università, sul proprio desiderio e sulla propria capacità. Perché questa sollecitazione a capire il proprio desiderio non viene raccolta e i racconti di pratiche vengono interpretati solo come nuovi modelli di comportamento? Quarto: come riuscire a fare di questi comportamenti un sapere, cioè qualche cosa che circoli anche fuori dal contesto che li ha visti in atto?
Concludo a questo punto e ritorno alla domanda iniziale, al che fare.
So bene che quella che sto indicando non è una riforma né dall’interno né dall’esterno della università. Innanzi tutto mostra quale sia l’anima dell’università – la sua realtà -, e contemporaneamente si impegna in un conflitto con chi sostiene l’oneroso sistema tolemaico burocratico/manageriale. Entra in un conflitto nel simbolico. E’ in tensione con linee di tendenza che si misurano e si scontrano oggi in Italia, in Europa e dunque anche nella università. Lo scontro che viviamo all’università è, infatti, parte di un conflitto enormemente più ampio.