1 Marzo 2002
Via Dogana n. 60

Da uomo a uomo sulla relazione di differenza

Giacomo Mabriani

Ciao! Ho trentadue anni e vi leggo regolarmente dal ’98, sentendomi spesso stimolato e messo in gioco dal vostro punto di vista. A volte mi è venuto il desiderio di scrivervi, ma fino ad ora non l’avevo concretizzato. Forse non mi attribuivo la sufficiente autorità per farlo. Ma alla fine penso che quello che conta sia l’autorità che riconosco a voi (per la prima volta, mentre scrivevo, mi sono accorto del senso originario dell’aggettivo “riconoscente”!), la quale mi spinge ad entrare in relazione. Lo spunto decisivo per trasformare il desiderio in realtà mi è venuto dalla lettura dell’intervento di Luciano Sartirana sull’ultimo numero della rivista. L’ho trovato molto interessante, per la bella lettura che fa delle immagini di Mary Cassatt, ma soprattutto per la parte successiva, in cui differisce dal mio sentire. Cercherò di raccontare punto per punto questo scarto, e il mio sarà semplicemente il punto di vista di “un uomo in più” (uso, al maschile, un’espressione di Clarice Lispector).

 

Luciano, dopo averne individuato il lato negativo, riconosce anche un aspetto positivo a questo fatto, così espresso da Lia Cigarini: “quando [gli uomini] agiscono nella politica maschile usano un altro linguaggio e un’altra centralità” (rispetto all’accettazione di un’autorità femminile e di una pratica improntata alla differenza). L’aspetto positivo sarebbe l’uso di un linguaggio non connotato e aperto, teso a dare il massimo valore al destinatario e alla sua differenza; un linguaggio adattabile in qualche misura all’appartenenza linguistica e culturale dell’interlocutore, al fine di ridurre al minimo il rischio di fraintendimenti e reciproche proiezioni. Ebbene, questa è una pratica che mi sembra di conoscere da sempre, e l’ho applicata in tutti i campi della mia vita, senza neanche immaginare di poterla, un giorno, mettere in discussione. È stata sempre, per così dire, “automatica”, e non ho dovuto neanche cimentarmi nell’arena della politica al maschile per elaborarla. Credo che questa pratica abbia tolto molta forza al mio agire e alla mia capacità di essere in relazione, sacrificandole sull’altare del “farsi capire”, del risultare leggibile e accettabile all’occhio altrui. Forse all’origine c’è la tendenza soprattutto maschile (in cui ho comodamente abitato fino a non molto tempo fa; ci abito ancora, ma sempre più a disagio, tanto da aver voglia di traslocare!) a capire tutto, a illuminare tutto con l’ottica della ragione, non potendo sopportare opacità o zone d’ombra, in se stessi e negli altri. Penso invece che sia meglio non essere capiti, o venire rifiutati, piuttosto che tradire o falsare in partenza quello che si voleva mettere in gioco. L’unico modo che al momento vedo per non continuare in questa fatica di Sisifo della mediazione coatta e condannata al fallimento (o quantomeno a risultati poco soddisfacenti), è quello di recuperare e usare il linguaggio dell’esperienza, la sola che mi sia accessibile: la mia. Lingua materna, lingua prima, lingua originaria, queste espressioni le ho incontrate venendo a contatto con il pensiero della differenza, circa 6 o 7 anni fa. Da allora, un percorso lento e difficile, ma anche liberatorio, di modificazione nelle relazioni, che una volta iniziato credo non si fermi più. Così, la cosa che in questo momento sento come più ambiziosa è poter usare parole “mie”, in qualsiasi situazione, affrontando le necessarie mediazioni e i necessari conflitti (rigorosamente non armati!). Con sommo stupore mi rendo conto di dovere di nuovo imparare a parlare, e non in senso metaforico, bensì molto concreto! E mi risulta più chiara l’origine di quel silenzio femminile di cui mi capitava di leggere in alcuni libri scritti da donne, e che percepivo confusamente nella mia famiglia e nelle mie amicizie. Inoltre, sento che questo silenzio non ha unicamente una valenza negativa, come ero tentato di pensare, ma è anche spazio di lenta gestazione di una diversa forma comunicativa. Le volte in cui ho avuto occasione di sperimentare in qualche misura una tale modalità di comunicazione (quasi sempre con donne, ma non solo) ho provato un senso di vertiginosa leggerezza.

 

Luciano (non sarà un eccessiva confidenza questo uso del nome di battesimo di una persona che non ho mai avuto il piacere di conoscere? Ma scrivere ogni volta il cognome mi sembrava troppo freddo e formale. Chiedo scusa ma non ho trovato altre soluzioni!) sottolinea la sua difficoltà ad accordare autorità a persone reali, in quanto i loro difetti creano un filtro che distorce o soffoca la positività dei contenuti in gioco; o anche perché affidarsi a persone reali costituisce per lui un rischio di potenziale schiacciamento. È un punto di partenza che ha contraddistinto per molto tempo il mio (non) mettermi in relazione, e che ancora oggi faccio fatica ad abbandonare. In me nasce da una certa intransigenza, prima di tutto, nei miei confronti: in fondo non riesco ad accettare i miei limiti e difetti, e quindi anche quelli degli altri acquistano un peso che fa pendere la bilancia verso lo scetticismo e la cautela, piuttosto che verso l’affidamento. Inoltre, è da poco tempo che noto il progressivo sgretolamento della consueta immagine che avevo di me, improntata all’equilibrio e ad una sostanziale autosufficienza; con queste premesse l’affidarsi a chicchessia era veramente difficile. L’unica possibilità praticabile era affidarsi a qualcuno che non potesse in alcun modo deludere le irreali aspettative che nutrivo e che non potesse mettere in discussione la mia asfittica economia emotiva: il lontano autore di un libro o la voce di qualche cantante. Ora, devo precisare che tutto questo succedeva assolutamente al di qua della soglia della consapevolezza; la quale soglia ha cominciato lentamente a spostarsi solo dopo l’incontro con il pensiero della differenza (mediato, in modo determinante, da una donna in carne e ossa – chi mi smuoveva se no, un libro? Non credo proprio!).

 

Luciano rivendica, e io con lui, una certa differenza rispetto agli standardmaschili predominanti, (anche se in fase di sconvolgimento) ma io faccio forse più fatica di lui a chiamarmi fuori da molti atteggiamenti maschili che pur percepisco sempre più come ristretti e difensivi. Le sfere che più sento attraversate da questo conflitto “interno al maschile” sono quelle dello scambio nella relazione amorosa, del rapporto con la propria e altrui sessualità, e quella del concreto agire politico (inteso naturalmente nel senso della politica prima, che spero trovi sempre più spazio anche negli attuali tentativi di contestazione e modificazione del nuovo ordine mondiale). A differenza di Luciano io mi sento attratto dal pensiero della differenza in quanto maschio, e non in quanto individuo. La mia difficoltà è dovuta al fatto che in questo momento, che per la verità dura da parecchio, non riesco a percepire né una forma né un contenuto della mia mascolinità. E purtroppo meglio di così non riesco a spiegarmi.


Scrive Luciano: “Io faccio politica insieme a donne – e lavoro, vado al cinema, dialogo – perché trovo esteticamente migliore (ricco, vario, elegante, dinamico) l’agire e il pensare (il simboleggiare) femminile piuttosto che quello maschile”. Mi associo a questo apprezzamento, ma non vedo perché limitarlo ad un piano estetico: credo che il pensiero della differenza abbia aperto per tutti degli spazi simbolici nuovi, più grandi, più nutrienti. Per tornare alla mia esperienza, dopo alcuni anni di confronto con il pensiero della differenza agito (o non agito) con accenti diversi da donne e uomini reali, mi sento più libero di darmi cibo buono, a tutti i livelli: simbolico, relazionale, fisico, spirituale, emotivo, cinematografico, editoriale… Per questo mi suona un po’ riduttiva la connotazione estetica che dà Luciano al suo apprezzamento, rischiando di ricadere nella già nota separazione degli ambiti. Io sento che aprire la mia vita alla differenza sia (stata) l’accettazione di una necessità vitale, che ha aumentato gli spazi della mia libertà in un modo che prima sarebbe stato per me assolutamente inconcepibile. Certo, il cammino non è agevole, e la tentazione di indossare ancora gli scomodi ma (ri)conosciuti panni della mia identità precedente si fa spesso sentire, ma vedo che la mia capacità di sopportazione, di autosacrificio e di automoderazione sta diminuendo, per fortuna!

 

Ultimo punto, e concludo. Luciano (spero che non gli fischino troppo le orecchie!), parlando del suo quotidiano agire politico, che chiama “la mia piccola politica di oggi”, scrive di sentire la vicinanza calda del pensiero femminile della differenza. Poi aggiunge, in risposta ad una osservazione di Lia Cigarini: [questo agire politico] “non mi sostituisce la lotta anticapitalista, che so essere un’altra cosa”. Ecco, io semplicemente sento che se vivessi accettando e agendo pienamente la differenza starei compiendo la mia migliore lotta anticapitalista. O meglio, starei facendo ben di più; starei vivendo la mia libertà, che per sua natura va in tutt’altra direzione rispetto al capitalismo e a quant’altro. Non contro, bensì su altre strade, ancora tutte da scoprire.

 

Bene, giunto alla fine di questa lunga presa di parola mi è venuto il dubbio di essermi buttato troppo allo scoperto, il che mi imbarazza, ma mi piace anche, visto che ho sempre avuto la tendenza a rimanere troppo coperto, persino a me stesso. E poi mi riscalda molto un passaggio del bellissimo intervento intitolato “la differenza oltre la differenza”, apparso anch’esso sull’ultimo numero della rivista, a firma di Ermina Macola e Adone Brandalise. In questo passaggio si dice che quando c’è “libertà dalla paura di mettere a rischio la propria immagine” allora c’è anche “un grande senso di ampliamento della possibilità d’amare”. Grazie.

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