10 Gennaio 2006

Dai leoni alla fame

DA “AFRICA”, FASCICOLO MONOGRAFICO BILINGUE (ITALIANO E INGLESE) DI “LEGGENDARIA”, NN. 55-56/2006 – Il fascicolo può essere acquistato in rete dal sito www.manifestolibri.it (vai su “Collane”, vai su “Rivista Leggendaria”)

Marco Aime

Hic sunt leones“, scrivevano gli antichi romani sulle mappe geografiche in riferimento all’Africa. Una sorta di ammissione, di consapevolezza dei limiti della propria conoscenza: sappiamo che di qui in giù ci sono leoni, nulla di più. Sono passati quasi duemila anni, ma la sensazione che l’ignoranza rispetto all’Africa sia ancora grande. Simbolo della povertà, messa a lato dai grandi processi mondiali, questo continente soffre ancora oggi, almeno per quanto riguarda noi italiani, di notevoli pregiudizi, che nascono da uno sguardo superficiale e spesso distorto.
Gli studi antropologici classici, legati spesso a scuole nazionali e ponendo l’accento su determinati temi piuttosto che su altri, hanno finito per creare una sorta di marchi d’area. Così se l’Oceania è diventata il continente del dono e dello scambio, l’Africa è senza dubbio diventata la patria delle etnie. Occorre innanzitutto ricordare che gli studi africanistici si sviluppano sopratutto in epoca coloniale e che spesso i fondi stanziati erano legati, in modo più o meno esplicito, a esigenze di ordine amministrativo e militare
[1]. Quelli che erano gruppi umani, con alcune caratteristiche distinte, s’intende, subirono una sorta di processo di istituzionalizzazione. Gli antropologi, scrivendo monografie dove si poneva l’accento più sulle specificità di ogni gruppo che non sugli elementi condivisi con altri gruppi, finivano per dare vita a entità quanto mai distinte tra di loro. Inoltre, l’antropologia dell’epoca presupponeva uno sguardo oggettivo e l’utilizzo del presente etnografico. Espressioni del tipo: i dogon fanno, i nuer pensano, i lugbara credono, contribuivano da un lato a dipingere gruppi assolutamente omogenei nel loro modo di pensare e agire e dall’altro a sospenderli in una sorta di bolla astorica, nella quale nulla era mutato in passato e prevedibilmente neppure nel futuro. Fissati sulla carta, questi gruppi umani perdevano ogni disequilibrio interno e ogni possibilità di mutamento agli occhi dei lettori occidentali.
Gli amministratori coloniali, da parte loro, spesso utilizzavano le monografie antropologiche, se non ne erano addirittura autori essi stessi, e in molti casi applicavano politiche diverse a seconda del gruppo, sulla base delle sue presunte attitudini. Censiti numericamente e classificati su base etnica, divisi in molti casi da politiche diverse, quelle società che spesso avevano dimostrato una forte fluidità, diventano a quel punto “reali”, concrete. Il caso, purtroppo, più celebre è forse quello degli hutu e dei tutsi in Rwanda, coltivatori i primi e allevatori gli altri, che per secoli hanno convissuto grazie anche a economie complementari. Il primo censimento realizzato dai coloni belgi, prevedeva però che ci si registrasse secondo la “razza”, come si usava dire allora e questo finì per rendere visibile e inalienabile l’appartenenza a un gruppo o all’altro. Secondo logiche razziali in voga all’epoca, i belgi pensarono successivamente che i tutsi fossero più adatti a rivestire incarichi amministrativi e ne favorirono l’accesso all’istruzione, creando di fatto non due “etnie”, ma due classi sociali distinte e gerarchizzate. Il prodotto di tale politica lo abbiamo purtroppo conosciuto attraverso i media, che sono soliti bollare come “tribale” qualsiasi conflitto avvenga in Africa, nascondendo spesso le reali cause degli scontri.
Sarà solo a partire dalla fine degli anni Cinquanta che gli antropologi della scuola di Manchester – ricordiamo fra tutti Victor Turner e Max Gluckman – inizieranno ad osservare le società africane non come entità statiche, fondate su una tradizione immutabile, ma analizzandone i processi di rottura e trasformazione, in un continuo alternarsi di squilibri ed equilibri
[2].
Per quanto riguarda la critica alla “costruzione” delle etnie, bisogna attendere gli anni Ottanta quando antropologi come Jean-Loup Amselle ed Elias M’bokolo avvieranno una profonda riflessione sulla classificazione dettata dalla “ragione etnografica”
[3]. Partendo da solide indagini di terreno, si è giunti via via a decostruire quella mappa etnica che sembrava ripartire l’Africa in unità separate, mettendo in luce come i diversi gruppi si sovrapponessero spesso uno con l’altro, come nel tempo modelli culturali, sociali e politici di ogni gruppo fossero mutati in seguito ad eventi esterni e interni. A una logica classificatoria, basata sul concetto di cultura come elemento rigido, inamovibile e impermeabile, Amselle, capovolgendo la prospettiva, propone di sostituire una logica che presuppone un meticciato originale che legava le società di una certa regione. Meticciato che è andato via via mutando e assumendo caratteri specifici proprio a causa della storia [4].
Nonostante questo lavoro portato avanti da molti studiosi, presso il grande pubblico l’Africa soffre ancora oggi di una visione, maturata a partire dal medioevo, che oscilla tra il fascino esotico della terra ricca e misteriosa e quello,a altrettanto esotico, della paura che quel mistero, che tale appare solo ai nostri occhi, suscita in noi. Insomma, tra l’immagine riportata sull’atlante catalano, redatto nel 1375 dal geografo di Maiorca Abraham Cresque, dove il Rex Melli, come veniva chiamato allora il Mali, era raffigurato con una grossa pepita in mano, seduto su un trono sopra la città di Timbuctu e l’angoscia crescente della risalita del fiume, splendidamente descritta da Conrad in Cuore di tenebra.
L’Africa, grazie anche a un certo approccio dei media, rimane così il continente della fame, delle catastrofi, dell’AIDS, degli aiuti umanitari, immagine di tutto ciò che è negativo, “nero. Pochi, quasi nessuno ci racconta la vitalità di questa terra, che tra mille sforzi a altrettante contraddizioni cerca di uscire da quella condizione di sfruttamento a cui le varie forme di neocolonialismo occidentale e, spesso la pessima gestione della politica locale la condannano.
Ho ancora vivo nella mente il ricordo di un incontro con una gruppo di donne a Sibonné, un villaggio sulla sponda destra del Niger, nel Mali, martoriato dagli ormai cronici problemi di siccità che caratterizzano le regioni saheliane. Sedute in circolo all’ombra dell’unico albero della zona c’erano una trentina di donne. Una di loro, la più anziana, teneva in mano una mazzetta di banconote sgualcite. Al suo fianco, un’altra donna scriveva con una calligrafia tonda e regolare delle cifre su un quaderno. Il sole iniziava ad avvicinarsi alla linea piatta dell’orizzonte e la scena acquistava un sapore d’altri tempi.
La donna con il denaro era la presidentessa della tontine, un sistema di autofinanziamento inventato dall’economista napoletano del Settecento Alfredo Tonti. Il sistema della tontine si basa su un principio piuttosto semplice e vive sul presupposto che, in realtà come quelle del villaggio africano, quasi nessuno dispone di un benché minimo capitale per avviare un’attività. Ogni componente della tontine versa una cifra minima e la somma totale viene data in prestito, per una durata limitata (generalmente pochi mesi) a una delle donne del gruppo. Questa potrà così fare piccoli investimenti: acquistare agnellini e allevarli, tessuti per farne abiti, cibo per cucinarlo e così via. Con il ricavato la beneficiaria rimborserà il debito con l’associazione più una piccola percentuale che, sommata a quelle future, contribuirà a formare un nuovo fondo, mentre il resto del ricavato rimarrà a lei. Apparentemente banale questo sistema consente a moltissime donne africane di avviare piccole attività commerciali in paesi dove non esistono banche che concedano loro prestiti senza garanzie.
La donna anziana contò più volte le banconote, poi le passò alla donna con il quaderno. Questa registrò puntigliosamente la somma, per poi ripassarla alla presidentessa. Questa mise le banconote a ventaglio, si alzò in piedi e iniziò a sfilare davanti alle donne sedute, contando e ricontando pubblicamente il denaro. Alla fine una delle donne si alzò dal cerchio e la presidentessa le consegnò la somma. La beneficiaria, dopo avere ringraziato pubblicamente l’anziana, rifece il giro mostrando nuovamente a tutte l’importo ricevuto.
Questa rappresentazione pubblica, in un contesto caratterizzato da un forte tasso di analfabetismo, era necessaria per assicurare la trasparenza dell’azione di credito. Il denaro ricevuto dalla donna era infatti il prodotto di un’azione comune di tutte le donne presenti.
È questa “l’altra” Africa di cui parla Serge Latouche, quella che scardina ogni calcolo degli economisti ortodossi
[5]. La produzione africana rappresenta circa l’1% del PIL mondiale. Alla luce di un dato così, risulterebbe impossibile che quasi ottocento milioni di persone possano vivere in quel continente. Eppure sono là, a cercare di sopravvivere ai numeri e alle percentuali e soprattutto alle norme capestro internazionali, che limitano lo sviluppo di un’industria manifatturiera locale e la concorrenza dei prodotti agricoli occidentali, frutto di agricoltura e allevamento sovvenzionati.
È l’Africa del signor Roger Takounti, rappresentante del Ministero della famiglia e della promozione sociale a Djougou (Benin). A differenza di molti funzionari non parla il solito “politichese” ambiguo. Racconta di casi sociali, di problemi familiari, delle mille difficoltà in cui si dibatte la gente di qui. Poi si alza e mostra la parete di fronte al suo tavolo. È ricoperta da fotografie un po’ sbiadite dal sole che, nonostante gli scuri alle finestre, riesce a consumare i colori delle stampe.
Immagini di bambini che sono riusciti ad andare a scuola, grazie all’aiuto di Roger, altri che hanno ottenuto i mezzi per curarsi, altri ancora che sono stati affidati a famiglie in grado di mantenerli. Ma c’è una foto su cui Roger si ferma. Mentre il dito ne sfiora il bordo il suo viso si illumina: “Questa ragazza è di Karhum, un villaggio…”. Conosco quel villaggio, sorge ai piedi della collina. E conosco anche il pugno di case dove abita quella ragazza. In basso, in un avvallamento fertile spesso allagato dalle piogge. Lì la gente coltiva un po’ di riso e cereali. Di lì alla scuola ci sono quattro chilometri di pista sconnessa, graffiata dalla rabbia dell’acqua di monsone che batte sulla terra rossa e scappa veloce verso valle.
La ragazza della foto sorride. Roger le tiene una mano sulla spalla e sorride anche lui, anche se con un velo di tristezza. La sedia a rotelle è di ferro pesante, robusta, con due pedali da azionare a mano. Grazie a quel dono lei riesce a percorrere tutti i giorni quattro chilometri all’andata e quattro al ritorno per andare a scuola. Riesce a superare quelle buche scontrose, quelle salite abbrustolite dal sole, quei sassi impolverati e ruvidi. “È felice adesso – dice Roger – può andare a scuola”. Non sorride fino in fondo, perché, forse, pensa a quanti altri casi simili ci sono e a quanti pochi potrà risolverne. Riguarda la foto della ragazza e ripete: “Ora può andare a scuola”.
È l’Africa delle donne, che ogni giorno affrontano fatiche e difficoltà per mantenere i loro figli, magari inventandosi un’attività del tutto nuova, come ha fatto Petite, una donna di Ouagadougou, un divorzio da un marito che la tradiva e la umiliava e una bambina da mantenere. A volte qualcuno telefona a casa sua per ordinare una cena. Petite non è la proprietaria di un ristorante. Lavora come colf presso una famiglia di cooperanti italiani. Terminato il suo orario di lavoro, carica sul portapacchi del motorino la macchina per fare la pasta e si immerge nelle caotiche strade della città.
Ha imparato a cucinare dai vari cooperanti italiani con cui ha lavorato. Un signore di Genova le ha portato del basilico lei l’ha piantato nel cortile. Poi le hanno spedito la macchina per fare la pasta e la sua attività è iniziata. A chiamarla sono sia i bianchi della cooperazione sia famiglie locali benestanti che vogliono invitare gente a cena e fare qualcosa di originale.
Alla luce di queste immagini viene davvero da chiedersi, come fa Sidney Mintz: “Chi è più moderna, più occidentale, più sviluppata: una venditrice yoruba, scalza e analfabeta che rischia quotidianamente la propria sicurezza e il proprio capitale, in una accesa competizione individuale con le sue simili o una laureata dello Smith College che trascorre le giornate accompagnando il marito alla stazione di Westport e i suoi figli a scuola di danza?”
[6].
“Finché il leone non avrà una sua storia, il cacciatore sarà sempre l’eroe” recita un proverbio africano. Ancora i leoni, in Africa, come al tempo dei romani e i cacciatori sono sempre gli stessi.

[1] Cfr. S. Falk-Moore, Antropologia e Africa, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004
[2] M. Gluckman, Il rituale nei rapporti sociali, Roma, Officina, 1972; V. Turner, Il processo rituale, La Morcelliana, Brescia, 1976.
[3] Cfr. J-L. Amselle e E. M’bokolo, Au coeur de l’ethnie, La découverte, Paris, 1985.
[4] J-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; J-L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
[5] S. Latouche, L’altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
[6] S. Mintz, “Men, Women, and Trade”, in Comparative Studies in Society and History, 1971, 13, p. 268.

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