2 Dicembre 2003
il manifesto

Dal continente della tigre oltre il cliché della tigre

Un seminario sul tema «Comunicare l’Africa», in coincidenza con il Festival del cortometraggio di Siena

L’Africa nera che resta oscurata, che non fa notizia, che è teatro di guerre `dimenticate’ nonostante il bollettino quotidiano dei morti, le legioni di bambini-soldato, la magnitudine dei disastri dello sviluppo, il disperante dilagare dell’Aids è stata al centro di un seminario sul tema «Comunicare l’Africa» al Festival internazionale del cortometraggio di Siena: un incontro ricco di voci e contributi `interni’ al problema, perché promosso dalla Fondazione africana per la medicina e la ricerca (dal 1957 presente in quattordici paesi africani) in tandem con l’Osservatorio sui modi di ‘trasmettere’ l’Africa in occidente, da poco istituito all’Università di Siena. L’Africa che la percezione dei bianchi (e anche dei neri, `educati’ alle scuole dei bianchi) ha storiografato «radicalmente altra e inferiore, fin da Hegel ritenuta vuota di storia, persino di anima, e quindi di pensiero, di umanità», come ci ricorda il giornalista congolese Jean Léonard Touadi, in Italia da un sufficiente numero di anni per potere descrivere filtri e stravolgimenti del nostro media-system. L’Africa interiorizzata, insomma, come `terra incognita’ e in definitiva inconoscibile, nel migliore dei casi punto di cesura dell’originaria asimmetria di relazioni: fra la tigre («che anziché ribadire la sua tigritudine dovrebbe piuttosto saltare sulla preda») e i sensi di colpa del muzungu, uomo bianco, che potrà al massimo interrogarsi circa i propri fraintendimenti, ma non certo sbarazzarsi dei filtri che li hanno originati. Un seminario che nell’intervento introduttivo di Giulio Cederna e soprattutto in quello finale dell’africana Zawadi Mawanda, non ha potuto che concludersi su un ulteriore rosario di interrogativi: ammesso – al di là della solidarietà di maniera, e con il supporto dei complici `giusti’ – che si riesca a bucare il muro dell’indifferenza, ammesso che questo riesca grazie ai vari contributi di conoscenza e passione e capacità di ascolto di attori, registi, testimonial di ottimi documentari, riusciremo a orientarci per capire quale sia l’Africa che viene fuori da quanto si continua a comunicare? Quante altre parti dello stesso continente resteranno comunque escluse? L’intervento di Mawanda ci ha informato del fatto che su trentuno milioni di Kmq si parlano in Africa ben 1000 lingue diverse, di cui solo 10 da più di 1 milione di persone; che il 70% degli africani vive in villaggi, nell’Africa rurale, e quindi immuni da qualsiasi influenza d ei media; e che, anche nelle zone urbane, il 45% della popolazione non legge, ovvero è esclusa dal flusso di storie scritte; mentre chi segue la Tv apprende le storie filmate dei paesi confinanti solo attraverso i vari reportage occidentali.

 

In compenso, per esempio in Nigeria, si assiste alla crescente popolarità di film low low budget, sfornati in quantità, seguitissimi da tutti in tutta la regione – ma bollati come trash movies dal Washington Post. Per non dire della musica, da sempre veicolo primario di storie: c’è una moltitudine di Afriche che continuano a raccontarsi e trasmettersi nelle nenie, nei canti, nei rap, con parole e ritmi e invettive propri. Come intuiamo dal piccolo ma straordinario Tv Slum, esperimento realizzato tra un gruppo di street boys di Nairobi che si sono vicendevolmente ripresi in video, senza filtri, senza veli, nella loro disgraziata vita in discarica, drogati di colla e puzza di piscio.

 

C’è un’Africa insomma, che al di là delle nostre facoltà di ascolto o distrazioni, ha già iniziato un fermento in proprio di comunicazioni che si esprime nelle mille radio dei villaggi, nei fumetti, nella cultura dell’indisciplina e nell’arte di arrangiarsi. E converrà andarla a scovare se si vuole, finalmente, mutare la prospettiva d ei nostri sguardi.

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